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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Un’opera di bene

Romanzo

Gianfranco Martana (Biografia)
Elleraedizioni

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 23/10/2015 12:00:00

 

Gianfranco Martana, nel proporre questo suo breve romanzo, oltre all’Opera di bene che si prefigge sin dal titolo, a mio parere, fa anche un’altra importante opera, altrettanto di bene, ma forse più sotterranea, e per questo più sedimentata nell’essenza profonda dell’autore medesimo. Detto questo mi preme sottolineare che il romanzo non è un trattato più o meno saccente sul mestiere dello scrivere, o un fine manuale di disquisizioni del diametro di un capello sul posizionamento degli aggettivi o degli avverbi letti in chiave lacaniana piuttosto che junghiana. Assolutamente no, trattasi di uno svelto romanzo che indaga le vite di alcune persone concittadine dell’autore stesso, e che Martana sembra avere sotto gli occhi quando ne racconta debolezze e affanni; talvolta l’uso di termini dialettali, oltre ad alleggerire vieppiù il testo, porta il lettore a posare lo sguardo nelle iridi dei personaggi che si muovono tra le righe dello scritto. Un’aria familiare, oserei dire, a tratti scanzonata, ma non prevedibile, aleggia tra le righe, sebbene l’avvio del libro sia leggermente farraginoso, e si perda in un paio di volute distratte, forse per mettere a fuoco il bersaglio, sia per l'autore che per il lettore; la penna tentenna, ma poi la narrazione prende slancio e lo scrivere si fa deciso e solido, coinvolge il lettore che alla fine resta sia sorpreso che emozionato dalla lettura. E qui il compito del romanziere è assolto a voti più che pieni, e tondeggianti: il compito principale di un romanzo è assolto egregiamente e ciò potrebbe bastare. Ma, come accennavo all’inizio, a tratti affiora molto di più, l’autore sembra sussurrare fra le righe un certo timore nel vestire completamente i panni dello scrittore (aggiungiamo: “professionista”, ma se non piace si può tralasciare). Così la parte dello scrittore affermato, nel romanzo, è affidata a un anziano, brontolone e afflitto dall’artrite che lo rende vulnerabile e malfermo, oltre che inabile alla sua funzione primaria, la scrittura, tant’è che si deve affidare a un dittafono computerizzato. Strumento gestito da suo nipote, personaggio che lascia trasparire la figura di scrittore più moderno, nuove forme di creatività soccorrono le mani malferme della scrittura, i giovani, quale Martana è, supportano i passi malfermi di un’arte millenaria che però sembra indebolirsi e non stare al passo coi tempi nostri, distratti e poco delicati.

L’autore, sommo e anziano, diventa anche demiurgo, creatore di mondi, oltre che sentinella della società e del costume, come viene più volte descritto; il giovane è invece guardiano-guardingo di questi mondi, questi astri paralleli, che tangono o si allontanano, ma restano un po’ ambigui. Tanto più che sull’anziano scrittore aleggia un sospetto ben poco gradevole e per nulla leggero, che riporta il parallelo fra generazioni, la nuova accusa la “vecchia” di aver sottratto qualcosa che non può tornare e manca, dolorosamente manca, ma la pena si mescola al rimpianto e insieme vigilano e supportano il vecchio.

L’autore, come demiurgo, crea mondi fatati, ma ne crea anche di spaventosi, e questi ultimi sembrano i più maledettamente reali, ed è una perfetta igiene del sentimento e del capire a evitare che il mondo quotidiano possa venire infettato dall’immaginario. I due mondi appaiono quindi in equilibrio, fra rimpianti e richieste, elaborazioni di lutti e mancanze invadenti, finché entra in scena la follia, che mischia e annebbia i sentimenti; per un suo scopo malvagio vela gli occhi del giovane e permette, anzi auspica, che l’infezione tra reale e immaginario, tenuta sotto controllo, dilaghi, coi suoi contorni di dolore e distruzione. Follia che è rappresentata da una madre a cui il figlio muore e invoca l’aiuto dello scrittore per ricostruirne un’immagine ideale, così come lei lo ricorda. Ma subito il conflitto esplode, perché la scrittura segue percorsi propri, l’arte non si china neanche di fronte al dolore di una madre, ma anche perché una figura idealizzata si scontra pesantemente con la realtà portando dolore. Lo scrittore in questo frangente subisce la colpa della verità, intravede la realtà, ne resta ammirato e al contempo vittima: ne trae materiale per scrivere una storia che intreccia la propria con quella della madre addolorata. Nel bellissimo e struggente finale tutti i tasselli troveranno il loro posto.

Per finire sottolineo l’amore di Martana per la letteratura indicando, come ennesima migrazione da Dostoevskij, la celeberrima scena della scala buia da “Delitto e castigo”, ricostruita con le sue ombre, i personaggi ostili, le voci che si avvicinano, forse a sottolineare il tema ancestrale della necessità di redenzione che permea un’esistenza a confronto della sete di vendetta, barlume effimero e dettato da un momentaneo incontro con la Follia, madre dei figli degli altri poiché sterile ed incapace di vero amore.

  

Intervista a Gianfranco Martana: in occasione della vincita della prima edizione (2015) del Premio letterario Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, sezione Narrativa

 


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