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Un pezzo di vita

di Loredana Merlin
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Pubblicato il 23/05/2011 08:41:19

1933 - La nonna che sogna

Lei era davanti all’altare. Aveva fatto bene a scegliere un abito normale. Così poi l’avrebbe sfruttato ancora. Le piaceva tanto quel cappotto verde. Morbido e caldo dava un po’ di colore a quel dicembre così freddo. Il 3 dicembre 1933 non era ancora arrivata la neve, ma l’aria pungente le faceva male alle mani e al viso. La chiesa era fredda, ma accanto a lei c’era l’uomo della sua vita. Lo amava, davvero tanto. Sapeva bene che non era perfetto e non lo sarebbe stato mai, ma non le importava. Si girò verso le persone sedute dietro di loro. Poche in verità e non avrebbero comunque avuto soldi a sufficienza per altri invitati. Ritornò a guardare accanto a sé, ma non c’era più nessuno. Era sola. Sentiva freddo e una sensazione strana in gola. Le sembrava di non poter parlare.

1998 - Io

L’allucinante reparto di rianimazione mi ricordava un film di fantascienza. Non ero mai stata in un posto così. Entrando lì tutto subiva una trasformazione, perfino i pensieri. I letti erano pochi e non vedevo nemmeno gli esseri umani che li occupavano. Io vedevo lei, solo lei. Ero attratta dal faro della mia vita. 

Poi tutto quel bianco, tutta quella troppa luce. Bende e tessuti, plastica e trasparenze in un unico fluttuare, come qualche cosa di sospeso: una nube carica di ansia e terrore. E li giaceva il mio ultimo legame materno e lottava come sempre, come una leonessa, imbrigliata in quegli orrendi tubi. La spietata chiarezza del luogo era la metafora crudele della realtà ed io paradossalmente mi sentivo irreale.

Una dimensione nuova, galleggiante, che in un istante, eppure uno zigzagare di attimi, ognuno attonito e unico, mi trascinava via.

Fu così…

Nonna, nonna cara non mi lasciare. Non fare come fece la mamma. La sua mano nella mia, come una stravaganza e quel tubo nella bocca una pura follia. Niente, più niente è meno di questo. Mi guarda negli occhi e mi parla con essi.

Piano, piano nonna, troppe cose vuoi dire. Ma io già le conosco nonna. Le so. Quante volte mi hai raccontato. Non preoccuparti, sei la nonna migliore del mondo. Ti voglio bene nonna. Poi un rombo acuto montante e disumano. Io vedo che lei vorrebbe dirmi ancora e ancora. Provo a fondermi con lei, divengo liquida, deforme. Entro dai suoi occhi, dalle sue mani. Entro in lei, nel cuore, nell’anima,  per essere lei, per comunicarle il mio amore, per essere la sua creatura.

Nonna chi mi consolerà più? Nonna non puoi lasciarmi.

Gli occhi suoi sono lucidi, vivi, presenti. Per un momento ci credo. Ecco ora usciremo da qui. Le toglieranno quel tubo e lei potrà ancora raccontarmi della sua vita, dei suoi ricordi e quindi poi diverranno i miei ricordi. Saremo sempre una nell’altra. Un proseguimento di madre in figlia. Ti lascio un attimo nonna. Torno subito. Stai tranquilla. Ti voglio bene, tanto. Sono con te.

Fuori, via il camice verde. Via via tutto quell’asettico. Non ricordo nemmeno chi sono.

Mi richiama il medico. Ma quanto tempo è trascorso? Non più di qualche minuto ne sono sicura. La nonna è stata estubata, ma il cuore non ha retto. Come? Come non ha retto? Ma mi sta aspettando. Lei mi vuole lì vicino. Mi deve parlare.

Sento il muro liscio dietro di me. La schiena scorre lungo di esso. Sento le gambe piegarsi. Sento che divento piccola piccola. Un mucchietto di dolore. Vivrò per sempre come un puzzle scomposto, mai più intero, mai più completo.

Recisi i legami. Lei resta qui dentro. Io sono fatta di lei.  



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