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Traslochi

Poesia

Franca Alaimo (Biografia)
LietoColle

Recensione di Alfonso Lentini
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Pubblicato il 12/08/2016 12:00:00

 

La produzione poetica di Franca Alaimo ci appare come un terreno indocile alla coltivazioni seriali. Passando da una silloge all’altra, direi quasi da una poesia all’altra, possiamo rimanere spiazzati dalla sequenza di mutamenti, ora lievissimi ora apparentemente bruschi, che a volte toccano la sostanza stessa della lingua poetica: dai versi cesellati, colti, ad alto tasso di raffinatezza che troviamo ad esempio nelle «7 poesie» pubblicate in un elegante libro d’artista dalle edizioni del Bisonte, può capitarci di passare alle contrazioni espressive di “Sorsi”, dove la lingua si fa gesto minimalista pur mantenendo una forte intenzione narrativa, e per queste vie di giungere infine alla nuova (e ancora “diversa”) prova poetica intitolata «Traslochi». Quasi che il trasloco di cui fra quelle pagine si discorre sia anche di natura poetica. Sembra che il titolo, oltre a raccontare un’esperienza reale o metaforica, voglia mostrare la volontà di esplorare un nuovo “quartiere” della scrittura. Nel descrivere un trasloco forse reale, forse causato da una separazione (ma che importa? per apprezzare la poesia è meglio non farsi troppe domande sulle concrete contingenze che possono generarla), Alaimo adotta una lingua colloquiale, quasi “condominiale”, appunto (adeguata cioè al nuovo “condominio” in cui l’io lirico dice di essersi appena trasferito). Muta registro, muta prospettiva. Traslocare infatti è per tutti un piccolo o grande trauma, comunque un evento che ci costringe ad abbandonare bruscamente i percorsi consueti, cambiare punto di vista, mutare abitudini e stile di vita in rapporto ai nuovi spazi nei quali non sempre è facile ritrovarsi. E la poesia diventa a un certo punto essa stessa personaggio. Compare in forma nuova alla porta della nuova abitazione nelle vesti di una donna «con il suo piercing rotondo sulla lingua», riappare dopo un lungo silenzio, ritorna, ma cambiata. Anche lei ha dovuto “traslocare”, abbandonando «il suo placido calarsi dentro le foglie / ed i petti caldi e innocenti degli animali in volo» (cioè i paesaggi idillici dove convenzionalmente viene collocata) e immergersi negli spazi urbani spesso degradati, abitati da solitudini e malinconie, «mentre le saracinesche stridono / dentro il mutismo della strada».

Le pagine si susseguono come in un diario di bordo. Sono momenti molto intimi di una poesia che Roberto Pazzi nell’appassionata prefazione definisce «sensuale e tenera», ma anche e soprattutto squarci narrativi a tratti crudamente realistici, di sapore quasi pasoliniano. «C’è la matta del terzo piano / che strilla (….) Finché qualcuno con una dose di morfina / la ripiomba nel sonno...». Nel paesaggio urbano…«sta crescendo / un fittissimo bosco di ponteggi / insinuando i tiranti di aggancio / come molteplici rami fra i lenzuoli stesi.» Insomma: «Tutto è basso, schiacciato al suolo.»

L’io lirico si fa occhio che osserva questo nuovo ambiente e prova a descriverlo con il candido stupore di chi non è abituato a viverci. Ma la forza di questi versi sta nelle improvvise accensioni, nelle stupefacenti impennate verso l’alto che colpiscono ancor di più proprio perché spiccano il volo dal basso più basso. Così l’autrice intravede in filigrana nel «colombaccio che picchia sui vetri» addirittura lo Spirito Santo, mentre poco prima Dio in persona sembra aver assunto le sembianze di un giovane emarginato che sul marciapiede di fronte sta per iniettarsi in vena la sua droga, «i sandali slacciati, lo zainetto logoro di cuoio». E il condominio si popola di angeli che scendono e salgono scale «come quelli che vide Giobbe». Fino a quando la ragazza più bella del palazzo, inaspettatamente parlando la lingua della Commedia dantesca, a un certo punto dice: «Volgiti, che fai?»  Ma le impennate sono anche di natura formale. La lingua procede convulsamente, a zig zag: dal lessico basso («Traffico di anidride carbonica e di ossigeno…»,  «sale dagli scarichi un fetore…», «lamenti di ferraglia dei camion…», «il bianco squallore del cemento», «odori acri di decomposizione…») si ascende verso soluzioni espressive raffinate e frutto di consapevoli filtri culturali. La lingua poetica alta prende il sopravvento sul procedimento puramente descrittivo ed ecco «le lucertole con i loro alfabeti neri / sulla pelle smeraldo» , «i richiami del chiurlo /grandi come rintocchi», ecco «la corona di gioia», ecco le ombre dei corvi che «scrivono effimeri alfabeti sul lenzuolo.» Assistiamo a una specie di corpo a corpo. La poesia accetta di confrontarsi con gli ambienti dove ha dovuto traslocare, si sporca (baudelairiamente) le ali, ma rimane viva, vitale, e si mostra sempre capace di esercitare (sia pure in forma nuova) la sua potenza trasfigurante. 

E il trasloco, forse quello vero, ancora dantescamente, comincia «al principio del mattino», come i preparativi di un viaggio iniziatico verso un altrove indefinito, e fin da subito si pone come esperienza di svelamento. Lasciando la vecchia abitazione, rimuovendo libri e suppellettili, si possono fare scoperte sconvolgenti, come ad esempio un nido di insetti nascosto fra i volumi della libreria. «E solo oggi, durante il trasloco, / mi accorgo delle case d’argilla / lasciate dalle vespe tra le pagine dei libri.» L’abitazione che ci si appresta a lasciare brulicava di segreti che nessuno aveva mai scoperto prima; altro non era che un «minuscolo zoo» composto da esseri innocenti e felici. Solo i due esseri umani, che si apprestano a separarsi dopo aver dormito a lungo rivolti verso due opposti punti cardinali, vi hanno vissuto da animali infelici.

Per quanto con un certo disagio e con venature di comprensibile nostalgia che lambiscono persino la gatta della protagonista, bisogna addentrarsi nella foresta metropolitana, affrontare l’altrove con occhi che dovranno farsi diversi. Compiere, con passi non più «tardi e lenti», ma con attenzione ai mutamenti di prospettiva, il nuovo cammino che la vita ci pone davanti.

Il viaggio verso la città, lo stanziarsi nel nuovo nido dell’universo metropolitano, si rivela perciò come una grande allegoria polisemica dove trovano naturale collocazione persino le domande più drammatiche che ogni essere umano si pone: «Mi chiedo dove comincia il luogo, / lo zero della morte.»

 


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