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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Gianfranco Martana

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 26/04/2015 12:00:00

 

Iniziamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autore qui intervistato è Gianfranco Martana, primo classificato nella Sezione B (Narrativa) con il racconto: Come Quando Fuori Piove

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (26/04/2015), Nicola Romano (03/05/2015: leggi), Mikol Fazio (10/05/2015: leggi), Emilio Capaccio (17/05/2015: leggi), Giulia Tubili (24/05/2015: leggi), Silvia Morotti (31/05/2015: leggi)

 

 *

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sarei tentato di rispondere “Uno dei sette miliardi di esseri umani che popolano la Terra”, ma non vorrei passare per uno snob. Diciamo allora che mi considero una persona che cerca ogni giorno di preservare ed esercitare la propria libertà, pur essendo a volte succube della pigrizia e degli sbalzi d’umore; sono anche insofferente nei confronti dei soprusi, dei ragionamenti illogici e delle responsabilità. Un’altra informazione importante: ho sempre vissuto sul mare, e dubito che potrei starne lontano a lungo. Anche quando ho deciso di lasciare Salerno per l’Inghilterra, ho preso in considerazione soltanto le città lungo la costa, come se di quella nazione non esistesse altro che il perimetro. È così che sono finito a Brighton.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Dopo aver divorato innumerevoli libri di avventura (Salgari, Verne e Stevenson su tutti), il primo libro “serio” che ho letto per scelta e non per costrizione è stato l’Ulisse di Joyce. Non è stata una grande idea, lo so; infatti l’ho iniziato a sedici anni e l’ho finito a ventidue. Credo che abbia davvero cambiato il mio modo di pensare, ma forse dipende solo dal fatto che in sei anni, a quella età, si cambia comunque. Il mio primo poeta è stato Pasolini, che pescai dalla piccola biblioteca di mio padre. I primi libri di poesia che ho comprato sono stati delle raccolte di Prévert, Lorca e Neruda, per poi passare alla Terra desolata di Eliot e alle Elegie duinesi di Rilke. Ho avuto una grande passione per Luigi Meneghello, un autore su cui ho scritto la mia tesi di laurea. Libera nos a Malo è un capolavoro di sapienza, oltre che di invenzione linguistica e narrativa. Roland Barthes è stata un’altra lettura importante, a cavallo tra filosofia e letteratura. I suoi Frammenti di un discorso amoroso sono stati “il” libro di un periodo della mia vita. Negli ultimi tempi ho cominciato a rileggere Calvino (ho appena finito Gli amori difficili), uno degli autori per me più importanti, per la sua capacità di scovare il lato fantastico del reale e la vivida asciuttezza delle descrizioni. Da lui, Pasolini, Pavese, Sciascia, Silone ho anche imparato a leggere letterariamente la storia e la cronaca del presente. Da quando il mio inglese è diventato sufficientemente buono sto provando a leggere o rileggere in originale alcuni classici recenti come i racconti di Carver, La fattoria degli animali di Orwell e Il giovane Holden di Salinger. Mi fermo qui, altrimenti rischio di diventare noioso.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

I medici aiutano a vivere in salute; gli architetti a vivere in ambienti più armoniosi e funzionali; gli scrittori a pensare meglio, e possibilmente a farci sentire parte attiva della famiglia umana. Bisogna però avere la fortuna di incontrare quelli giusti. Ognuno dà il contributo che le sue forze gli consentono, ma la responsabilità di come va il mondo è distribuita su così tanti livelli che è davvero un’impresa disperata definire l’ampiezza delle ricadute che il lavoro di ciascuno ha sulla comunità, piccola o grande, a cui si rivolge.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Tolti i temi delle Medie e del Liceo, che erano in genere verbosi, impeccabili e conformisti, direi che ho iniziato a scrivere con un minimo di consapevolezza soltanto all’università, soprattutto poesie d’amore influenzate da poeti come Sanguineti (leggevo e rileggevo il suo Stracciafoglio), piccoli appunti e brevi testi bizzarri, da cui talvolta ancora traggo spunto per i miei racconti. Per una serie di circostanze cominciai a scrivere soggetti e sceneggiature, e quella è stata per alcuni anni la mia attività “letteraria” prevalente. C’è stata poi una lunga pausa, coincisa con la mia decisione di trasferirmi in Inghilterra. E proprio nel momento in cui mi sono ritrovato in terra straniera ho sentito più forte l’esigenza di raccontare le storie della mia terra, che infatti costituisce lo scenario principale di molti miei racconti. Tolti brevi testi pubblicati su fogli locali e un paio di trattamenti cinematografici pubblicati su una rivista torinese in anni lontani, miei racconti sono apparsi in raccolte come «Toilet», nella rivista «Alibi» e in un ebook di autori vari con l’editore Autodafé. Incontri importanti, di persona, non ne ho avuti: sono sempre stato un solitario, tendenza accentuata dalla mia scarsa simpatia per gli ambienti letterari della mia città (ho sempre preferito la compagnia di pochi amici). Perfino quando ho avuto occasione di incontrare Meneghello, mi sono limitato a scambiare con lui poche battute: quello che aveva da dirmi, me l’aveva detto nei suoi libri. Certo, la telefonata con cui mi diceva di aver letto e apprezzato la mia tesi resta indimenticabile, ma il contenuto di quella conversazione preferisco tenerlo per me.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Questa è davvero la parte più misteriosa e interessante di tutta la faccenda. A volte parto da una scena a cui ho assistito, da un’immagine insolita, da due frasi scritte indipendentemente l’una dall’altra che poi, per qualche motivo, si cercano, si attraggono, come se chiedessero di far parte di un unico testo. Da lì comincia a svilupparsi una catena di associazioni che vanno nelle direzioni più disparate, e il lavoro più grosso è quello di tenerle a bada, di eliminare quelle che mi porterebbero troppo lontano o che non mi sento in grado di maneggiare. È un processo di gemmazione, che mi fa pensare a quei video a velocità accelerata nei quali si vede una pianta crescere e mettere boccioli, fiori e foglie. Una cosa che faccio spesso è riproporre alcuni elementi all’interno del racconto con piccole varianti o slittamenti di senso. Un esempio in Come Quando Fuori Piove è la “carriera militare” che accompagna diversi momenti della vita del bambino e poi dell’uomo, ma anche il titolo stesso, che ricompare nel finale in modo spiazzante. Un’altra regola alla quale cerco di non derogare è quella di non dividere mai i miei personaggi in buoni e cattivi: quasi tutti, come ognuno di noi, possiedono qualcosa di sgradevole e di attraente insieme. M’interessa di più guardare alle relazioni che si stabiliscono fra loro e con l’ambiente in cui vivono; al lettore chiedo eventualmente di giudicare quel mondo nel suo complesso, non di parteggiare per Tizio o Caio. Conclusa la prima stesura, che in genere faccio al portatile, stampo tutto e faccio una prima revisione “manuale” con una roller rossa. Sono particolarmente sensibile ai refusi e alle espressioni trite, che cerco di eliminare quanto più possibile. A volte faccio leggere il racconto a persone fidate per avere un primo punto di vista esterno. Spesso, se non sono del tutto soddisfatto, mi prendo qualche giorno di tempo prima di rendere pubblico il racconto. I punti deboli continuano a tormentarmi, e in genere le soluzioni migliori arrivano mentre sono in viaggio, che sia a piedi, in autobus o in treno: il tempo sospeso fra due impegni è quello in cui il pensiero può muoversi più agilmente. Il processo di revisione, però, è potenzialmente infinito; se e quando mi fermo, è solo per una specie di nausea, o perché, per fortuna, vengo attratto da nuove idee e nuovi progetti.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

La scrittura per me è principalmente una sfida e una terapia. La sfida è quella di riuscire a rendere comprensibili a me stesso e poi comunicare a un pubblico ideale di lettori alcune intuizioni sullo stare al mondo. È una terapia perché creare dei personaggi, comprendere le ragioni delle loro azioni, investirli di una forma di pietas va incontro al mio ideale di fratellanza universale, e compensa qualche mia pigrizia nei rapporti umani, che mi fa apparire a volte come una persona scontrosa, anche se mi illudo di non esserlo affatto. Non credo che lo scrittore debba trasmettere “messaggi”, semmai condividere scoperte: non è un educatore, ma un esploratore. Anche quando scrivo racconti che toccano temi socialmente “sensibili” non lo faccio mai con intenzioni moralistiche o pedagogiche: la scrittura nasce da un movente drammatico, che può prodursi nell’incontro/scontro fra due o più persone, e allora avremo un racconto “intimista”, o fra una persona e la comunità in cui vive, e allora avremo un racconto “sociale”, con tutte le possibili intersezioni e sfumature del caso.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Devo dire che sono ancora molto impegnato a setacciare il Novecento, sono rimasto un po’ indietro, soprattutto con gli autori italiani più recenti, anche perché, vivendo in Inghilterra, non posso più andare in libreria a sfogliare libri come facevo un tempo. L’unico che in questi anni ho seguito con una certa regolarità è Erri De Luca. Amo molto la sua scrittura per la capacità di coniugare concretezza e simbolismo, quello che tento di fare anch’io, senza riuscirvi altrettanto bene. Vista la portata limitata del mio osservatorio, però, non mi sento in grado di fornire una risposta sensata alla domanda. Posso dire soltanto che spesso mi capita di trovare in rete racconti di autori italiani più o meno affermati; mi sembra che la linea prevalente sia quella di un “minimalismo depresso” che vorrebbe ispirarsi a Carver, ma in cui mi sembrano assenti gli elementi simbolici, l’ironia e la teatralità. Ecco, da questo punto di vista mi sento abbastanza inattuale.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Forse la mia ossessione letteraria è “trovare posto nel mondo”. Per questo molti miei racconti hanno per protagonisti bambini, adolescenti o giovani adulti, che vivono con più acutezza lo scarto fra aspettative e realtà, ingenuità e consapevolezza. Insomma, il contrasto e l’integrazione fra reale e fantastico sono per me degli elementi letterariamente irresistibili. Trovo più difficile rispondere alla seconda domanda: faccio fatica a vedere dei cambiamenti, anche perché continuo a seguire almeno due linee di scrittura, una più “intimista” e una più “sociale”; pertanto, dovrei dire che cambio continuamente, ma non è così. Forse l’unica differenza percepibile è la velocità di esecuzione. Qualche anno fa scrivere un racconto m’impegnava qualche settimana. Ora a volte mi basta una notte. Probabile che ciò dipenda, banalmente, da una maggiore esperienza e sicurezza. Non dico che sia un progresso, perché magari definisco “sicurezza” una pericolosa spavalderia, ma lo registro come un dato di fatto.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Ho praticato l’una e l’altra, poi a un certo punto ho smesso con la poesia. Non saprei dire nemmeno io quando e perché. Forse quando l’amore (le mie poesie parlavano tutte a questa o quella donna) ha smesso di essere per me un tema centrale e ho cominciato a trovare più interessante rivolgermi a un pubblico plurale. Questo passaggio non mi è riuscito in poesia, mentre ho trovato nella scrittura cinematografica prima e nella narrativa poi delle forme espressive più adatte allo scopo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Moltissimo, è una continua fonte di ispirazione. D’altra parte, il dialetto è stato la mia lingua materna al pari dell’italiano, non potevo tenerlo fuori dalla mia scrittura. Anche per questo Libera nos a Malo, che racconta dell’infanzia “VI-fona” (ovvero in cui la lingua materna era il dialetto vicentino) di un bambino durante l’affermazione del fascismo, è stato una scoperta sensazionale. Come lo è stato il Pasolini delle storie romane, che mi ha fatto anche scoprire il discorso indiretto libero, che utilizzo spesso. Quello che della mia terra mi stimola, letterariamente parlando, è il contrasto fra le bellezze naturali e certi riti rassicuranti da un lato (la passeggiata al lungomare, i bagni in costiera), e dall’altro la devastazione dell’ambiente e delle coscienze voluta dall’incuria, dall’ignoranza o dall’avidità dei più, che hanno trasformato un piccolo paradiso in un purgatorio. Napoli e la Campania hanno generato nel corso del Novecento autori di grande valore, noti e meno noti: La Capria, Prisco, De Simone, Ramondino, Erri De Luca, oltre a un gigante come Eduardo e al mio concittadino Alfonso Gatto, che è stato sia poeta sia narratore di grandissimo talento. Aver potuto leggere i loro testi conoscendo la realtà e la lingua di cui si sono nutriti è stato ed è un grande privilegio.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Il reale si costruisce immaginandolo, proprio come l’immaginazione stilla dalla realtà. Insomma, credo che il confine tra questi due mondi sia meno netto di quanto comunemente si pensi. Per non addentrarci troppo in discorsi filosofici, diciamo che uno dei compiti possibili dello scrittore è quello di rivelarne, attraverso il testo, l’inestricabilità, l’interdipendenza talvolta paradossale. Più o meno quello che ha fatto Platone duemilaquattrocento anni fa.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Ho cominciato a proporre i miei racconti da relativamente poco tempo. Devo dire che quando li ho sottoposti singolarmente per la pubblicazione, ho avuto quasi sempre riscontri positivi. Ora ho due raccolte pronte: una che affronta temi più socialmente rilevanti, con racconti quasi tutti ambientati a Salerno e dintorni; un’altra, che considero il mio personale “ciclo dei vinti”, è caratterizzata da un tono più patetico e/o surreale, con ambientazioni meno definite. Da qualche mese ho cominciato a inviarle a diversi editori, vedremo se ci sarà un interesse. Più travagliata è la storia del mio primo romanzo, che ho finito di scrivere alcuni anni fa, ed è stato ignorato o respinto da varie case editrici. Recentemente, però, è piaciuto a un piccolo editore digitale di Milano. Dopo un leggero editing, siamo quasi arrivati alla correzione delle bozze...

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Una volta completato un testo, il dialogo con i lettori è la cosa che m’interessa di più. Mi piace molto confrontarmi, e non temo le critiche negative: se ben motivate, sono molto più stimolanti dei complimenti, quando questi si riducono a semplici esclamazioni. Negli ultimi due anni ho pubblicato i miei racconti (più altri testi di vario tipo) su una piattaforma per scrittori, dove avevo qualche affezionato lettore. I miei testi venivano regolarmente commentati, ed era una cosa che trovavo molto piacevole. Recentemente me ne sono allontanato perché non tolleravo certe dinamiche che si stavano sviluppando fra i suoi membri, quindi ora mi manca un po’ questo tipo di riscontro. Spero che gli utenti della Recherche vogliano essere così gentili da colmare questo vuoto.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono pienamente d’accordo. Dico di più: io leggo per poi scrivere. Spesso mi capita di “leggere alzando la testa” (R. Barthes), ovvero di interrompere la lettura per fantasticare a partire dalle suggestioni offerte dal testo. Da quelle fantasticherie vengono fuori a volte delle buone idee. Insomma, più un testo è coinvolgente, più mi riesce difficile finirlo. Un bel paradosso, no?

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

No, mai, se non in maniera molto informale. Da uno scrittore mi aspetto che mi offra un nuovo sguardo sul mondo, o anche su una minima porzione di esso. E non importa che lo faccia con un testo drammatico, ironico o comico, o con una mescolanza di questi elementi (che è in genere quello che faccio io); l’importante è che si veda una ricerca, un’immaginazione originale al lavoro, e non una banale ripetizione di vecchi stilemi. Ecco perché ogni grande scrittore è un innovatore, e questo non ha nulla a che fare con quello che normalmente si definisce “avanguardia”.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Come dicevo, ho un rapporto anomalo con la critica: per me quella più bella è la più motivata, non importa se positiva o negativa. È quella che mi dà la possibilità di iniziare un dialogo con un lettore, per capire qualcosa di più del mio modo di scrivere e comunicare, e quindi per migliorarmi. Se proprio devo fare un esempio, mi viene in mente un episodio di un secolo fa. Avevo consegnato a mano una mia sceneggiatura a un piccolo produttore, che mi richiamò un paio d’ore dopo perché voleva parlarmi. Tornai subito al suo ufficio, e fui accolto con queste parole: “È una delle cose più sconclusionate che io abbia mai letto, però c’è del buono. E non è facile trovarne”. Poi non se ne fece nulla, ma quelle parole, tutt’altro che celebrative, sono state le prime a farmi pensare che forse ero capace di scrivere. Come tutte le “prime volte”, quell’episodio è rimasto profondamente inciso nella mia memoria. Sulla vanità dello scrittore, poi, tengo sempre a mente la reazione del giovanissimo Pasolini quando seppe che Contini avrebbe recensito favorevolmente la sua prima raccolta di poesie: “Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno”.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Come accennavo sopra, il mio primo romanzo (il titolo non è stato ancora deciso con certezza) dovrebbe uscire a breve in ebook. Si tratta di una storia drammatica con risvolti gialli e noir, ambientata a Salerno. Nel frattempo ho cominciato a trasformare in romanzo la mia sceneggiatura Mammaliturchi!, che è stata finalista al Premio Solinas 2004 e che, nonostante questo importante riconoscimento e l’appassionato lavoro di un produttore come Sergio Pelone (ha prodotto, tra gli altri, L’ora di religione e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio) non è mai diventata un film. È una commedia corale ambientata in un’immaginaria cittadina del Cilento, a sud di Salerno; uno di quei casi in cui faccio uso del dialetto e provo a mettere in scena il bello e il brutto della mia terra.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Negli ultimi anni sono stato impegnato attivamente con un gruppo Facebook della mia città che fa controinformazione sulle vicende salernitane. È stata una grande palestra, che mi ha portato, nonostante la lontananza, a contribuire al dibattito pubblico, e talvolta a svelare qualche menzogna propalata dal potere politico locale. In conseguenza di ciò, ho avuto l’occasione di collaborare con un quotidiano, fino a quando non sono stato messo alla porta per “incompatibilità di carattere”. Nel frattempo avevo cominciato a cimentarmi con le illustrazioni satiriche. Nel giro di un paio d’anni credo di averne realizzate almeno un centinaio. Essendo incapace di disegnare, lavoravo modificando e assemblando immagini trovate in rete, a cui aggiungevo brevi frasi o slogan. Poi ho abbandonato quest’impegno perché il mio equilibrio psichico cominciava a risentirne... Più di recente ho sfruttato le mie nuove abilità grafiche per realizzare le copertine dei miei racconti, una cosa che mi diverte moltissimo. Infine, mi piace correre nel parco vicino a casa, quando riesco a vincere la pigrizia. Non lo faccio solo per tenermi in forma fisicamente: correre e camminare sono per me due potenti stimolatori del pensiero.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Il vostro è stato il primo concorso al quale ho partecipato con un racconto, e devo dire che mi è andata più che bene. Per me i concorsi sono innanzitutto un modo per farmi leggere e per confrontarmi con altri autori, un modo per valutare il potenziale della mia scrittura. Quando ho avuto notizia del vostro bando, i motivi che mi hanno spinto a partecipare sono stati, nell’ordine: la gratuità (questa per me è una precondizione), l’ampia e qualificata giuria, l’anonimato, il premio in denaro (all’ultimo posto, giuro). In genere sono molto sospettoso ed esigente, trovo spesso nei bandi qualcosa che non mi convince, e allora rinuncio. Altre volte vengono richiesti racconti molto brevi, e faccio davvero fatica: il fenomeno di gemmazione di cui sopra finisce sempre per farmi scrivere troppo. Riguardo al ruolo dei premi nella comunità culturale, molto dipende dal loro grado di onestà e credibilità, e non aggiungo altro.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono un novizio della Recherche, ho appena cominciato a orientarmi. In ogni caso, avendo io stesso reso disponibili in rete i miei racconti (sono tutti su una piattaforma americana che si chiama Scribd, e qualcuno è anche sulla Recherche) ed essendo prossimo alla pubblicazione di un ebook, evidentemente non ho alcun pregiudizio negativo nei confronti dell’editoria digitale. Il problema principale è quello che riguarda anche il cartaceo: la possibilità di essere letti da un numero quanto più alto di lettori, non solo e non tanto per riuscire a campare scrivendo (quello riesce solo a pochissimi autori, e non sempre i migliori), ma perché solo così si può riuscire a incidere minimamente nel dibattito culturale. Il rischio, insomma, è quello di scrivere per i venticinque lettori di cui parlava Manzoni. Solo che lui faceva un esercizio di modestia, mentre molti faticano davvero ad arrivare a quel numero. In definitiva, il mio consiglio (ammesso che abbia una qualunque legittimazione a darne) è il seguente: pubblicate sulla Recherche, perché avrete subito una platea più o meno ampia di lettori, ma siate aperti alle critiche e ai suggerimenti, e siate pronti a darne onestamente; in caso contrario, non vi servirà a nulla.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Sì, c’è! “Quando smetterai di scrivere?”. Mi rispondo citando il Parise dell’Avvertenza ai Sillabari: “dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A. e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore”. Ecco, io mi auguro di seguire il suo esempio. Intanto voi potete sempre smettere di leggermi, o non cominciare affatto.

 

 

Grazie Gianfranco.

 


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