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Per certi versi

Argomento: Letteratura

di Fabrizio Oddi
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Pubblicato il 06/12/2017 10:42:11

A Roma, presso la storica Libreria Odradek (in Via dei Banchi vecchi n. 57 -  una traversa di Corso Vittorio Emanuele II), sabato 2 dicembre 2017 alle ore 18:00 c’è stata la presentazione del nuovo romanzo di Andrea D’Urso  La strada è un libro aperto.

 

Per la presentazione, con una buona affluenza di partecipanti, oltre all’autore, c’era l’editore della Vydia, Luca Bartoli, e il sottoscritto quale relatore.

 

Qui di seguito il mio commento esposto per l’evento.

 

“Con Andrea c’eravamo incontrati in precedenza in appuntamenti culturali, in particolare di letture poetiche, ed avevo poi avuto il piacere di presentare il suo primo romanzo, Just a Gigolò, che aveva avuto l’apprezzamento della critica, giungendo tra i finalisti, nel 2013, della XXVI edizione del prestigioso premio “Italo Calvino”. Il romanzo, dal titolo originario Nomi, cose e città, con la pubblicazione, a cura dell’editore “e/o”, aveva assunto poi il nome, un po’ ammiccante e in riferimento al particolare mestiere del protagonista, di Just a Gigolò.

 

Quel romanzo, come quello dell’odierna presentazione, La strada è un libro aperto, recentemente pubblicato, ugualmente di stile diaristico e narrato in prima persona dal protagonista, rivela indubbiamente (accanto a differenze) continuità rispetto alla precedente opera di narrativa, esprimendo il suo sguardo smaliziato verso l’esistenza, il mondo, le sue immagini e i suoi luoghi, verso la vita, in un viaggio continuo che man mano si dipana sotto gli occhi del lettore; ma sottintende, a mio avviso, anche una forte continuità con l’Andrea D’Urso poeta.

 

Andrea infatti, accanto a vari racconti, ha pubblicato poesie anche in diverse riviste francesi, canadesi e statunitensi, dando poi alle stampe la raccolta poetica Occidente Express (Imperia, Edizioni Ennepilibri, 2007), poi riedita in Francia (Le grand os, 2010). Sempre in Francia è stato pubblicato il suo testo poetico Hier est un autre jour (Collection Manos, 2010). Infine è dello scorso anno (il 2016) la sua nuova raccolta poetica rubinetteria (Eretica).

 

Scorrono via via innanzi ai nostri occhi contenuti, immagini, sentimenti, sensazioni, nelle pagine (ben misurate nelle varie parti) del romanzo, ove l’esperienza poetica è da ritenersi fondamentale in Andrea D’Urso romanziere.

 

[A tal proposito, durante la presentazione, Andrea D’Urso ha precisato che nel romanzo sono disseminate citazioni e riferimenti anche alle sue poesie: a partire da La stagione delle zanzare e Talete, che forniscono addirittura il titolo ad alcuni capitoli del libro, rispettivamente il 4° e 3°. Inoltre alla mia domanda sui rapporti per lui tra narrativa e poesia, essendosi l’autore cimentato brillantemente in entrambi i campi, lo scrittore ha riflettuto sulla circostanza che lo spunto primario del romanzo – sia pure a livello inconsapevole - gli è venuto proprio da una sua poesia Per certi versi, contenuta come le altre due citate nella raccolta poetica Occidente Express del 2007 (vedi pag. 191, pag. 193 e pagg. 145-146). Andrea D’Urso, anche su invito del pubblico presente, ha letto nel corso dell’evento la prima e la terza poesia menzionate]

 

Come nelle opere poetiche, nel presente romanzo vi è uno stile piacevole, ironico e arguto, e la quarta di copertina subito ci informa del nome e del cognome del protagonista e in sintesi della sua vicenda. In realtà, nella lettura del romanzo, il nome del personaggio principale, Arturo, ci viene svelato (se non erro) solo dopo alcuni capitoli (cap. 5, La materia dei sogni, pag. 49), mentre il cognome, Franchini, ci viene rivelato due capitoli dopo (cap. 7, La casa rosa, pag. 62), e ripreso (dopo altre citazioni) significativamente nell’ultimo capitolo (il cap. 13, Blanes, pag. 105). Ma torneremo poi su tale aspetto.

 

Arturo ha un approccio con il mondo apparentemente cinico, direi realista, sdegnoso dell’ovvio, ma anche malinconico: ad es. col ricordo del suo amore con la bibliotecaria Virginia, come pure del rapporto con la sua compagna di liceo e vicina di banco, Giovanna Rubini, con le quali nel corso delle sue vicende ha un nuovo incontro, di cui però non svelo nulla. E anche un’avventura occasionale si profila all’orizzonte, verso la fine del romanzo, presso la cittadina di Alassio in Liguria (provincia di Savona), con Teresa, una donna “alta e slanciata” e “ricca”, interessata ai libri.

 

Il narratore, Arturo, nonostante tutto, non mostra alcuna resa rispetto a quanto gli prospetta la sua vita, che affronta senza maschere, finzioni, andando avanti per il suo percorso con grande coraggio.

 

Il titolo dell’ultimo romanzo di Andrea,  La strada è un libro aperto, racchiude, a mio avviso, l’essenza del libro stesso, con i suoi tre elementi, che si rivelano illuminanti.

 

La strada: il percorso di Arturo (come quello di Pino, il gigolò del precedente romanzo), che lavoricchia qua e là, vivendo ancora con i genitori, con il suo viaggio itinerante verso le tombe di scrittori generalmente poco conosciuti, ai quali dona il proprio omaggio “libresco”, o nel caso di autori più noti offre un ricordo forse poco noto, ma per lui altamente significativo.

 

Il secondo elemento è il libro, e dunque la lettura e la scrittura, che nel protagonista (e in Andrea sicuramente) assurgono ad una parte fondamentale della propria esistenza e ne improntano il cammino e la direzione, come una mappa del tesoro.

 

E tale strada verso il “libro” si svolge a partire dal 2° capitolo, Il pane non fa ingrassare, con il grande scrittore italiano del ‘900, il frusinate e disconosciuto dalla critica, ma non da un altro grande scrittore, americano e contemporaneo, qual è Paul Auster, che lo inserisce nel novero degli scrittori da lui più amati e meritevoli di nota in una sua intervista (rinvenibile su YouTube), Tommaso Landolfi. Nel romanzo viene chiamato affettuosamente Tommasino, con il suo Racconto d’autunno, con le sue Le due zittelle o col suo Il mar delle Blatte. Si giunge infine a Blanes, città spagnola in provincia di Girona, patria di un autore, invece riconosciuto e osannato (giustamente) dalla critica, quale Roberto Bolaño, col suo poderoso romanzo 2666. Di tale autore però non si hanno precise notizie sulla sepoltura e dunque Arturo dovrà trovare un sistema del tutto particolare per dedicare e lasciare in omaggio il suo capolavoro, 2666, per l’appunto. Ogni autore una città, un luogo, che il protagonista visita e descrive.

 

Ma i libri con i quali il nostro eroe omaggia i suoi scrittori, come indica il terzo e ultimo elemento contenuto nel titolo, non sono chiusi, ma aperti. Il libro è aperto, con la sua vita, il suo preziosissimo contenuto, sempre diverso e mai uguale, unico (come nella forma del resto), nei percorsi degli autori, quelli che valgono però, e deve permeare la propria esistenza ed essere rivelato.

 

Nel primo capitolo introduttivo, infatti, significativamente intitolato Il senso della vita, Arturo si interroga sulla domanda su quale sia questo senso, cui circolarmente occorre ritornare (pag. 9):

 

“Una notte di maggio guidavo costeggiando costeggiando quel che permaneva della pineta di Castel Volturno e mi ponevo la domanda più antica del mondo. La domanda di sempre, in grado di sorprendermi in qualsiasi momento […] La domanda che mi veniva da porre anche agli atri, indiscriminatamente […] volevo sapere, di tanto in tanto ti interroghi sul perché del tuo essere in vita? […] La domanda di sempre, la risposta di sempre: nessuna.

 

Tuttavia, negli ultimi tempi, riconsideravo il senso della domanda stessa. Il senso inteso non come significato, ma come direzione. La mia direzione restava la mia vita, che proverò qui a spiegare, ma non assicuro nulla.”.

 

E Arturo nel primo capitolo racconta la sua “scoperta del libro”, come leggiamo a pagina 12 e 13 del romanzo:

 

“I miei genitori. A loro non dovevo unicamente la mia sussistenza, ma anche la mia propensione per i libri. Quand’ero bambino non c’era orma di un libro a casa nostra, uno che fosse uno, neanche una selezione del Reader’s Digest. In salotto dominava la scena, incontrastata, una corpulenta quanto dozzinale enciclopedia verde pisello, ma non si trattava di libri, quella per mio padre era il Sapere. In camera mia annoveravo un paio di oggetti colorati con delle figure che chissà chi aveva introdotto, ma nemmeno in quel caso potevano essere definiti libri; mia madre, per dire, li chiamava i cartoni animati. A scuola guerreggiavamo con un testo onnisciente, che da solo sfondava la cartella per quanto era ponderoso e voluminoso: ma non era un libro, era il sussidiario. I libri veri, quelli piccoli e di colore diverso, ognuno col suo titolo e la sua storia, non esisteva modo di farli entrare a casa nostra, non si capiva se non volessero entrare loro o non li facevamo entrare noi, fatto sta che non entravano. Talvolta in televisione si materializzavano alcuni signori che ne discutevano, li glorificavano o li stroncavano, mentre i miei seduti a tavola prestavano attenzione reverenziali e circospetti — li osservavo — percepivano che quei signori avevano studiato e avevano ragione, come d’altronde tutte le persone che parlavano in tv. Ma, a parte questo, non è che percepissero granché.

 

Quando un pomeriggio andai a casa di un amichetto e mi accorsi dell’esistenza di quelle polverulente creature. Stavamo giocando a nascondino e mi nascosi appunto dietro una cosa che venni a sapere più tardi prendeva il nome di libreria. Alzai la testa e li analizzai uno per uno. Non stavano lì per bellezza, anche perché non erano così belli a vedersi. Probabilmente servivano a qualcosa, dato che si sfilavano e poi si rimettevano a posto; quello, nient’altro che quello, doveva essere il meccanismo alla base di tutto che avevo intuito come per istinto. Ma che cos’erano? Qualunque cosa fossero, la famiglia del mio amichetto li possedeva e noi no, e già solo questo particolare, in sé, m’intrigava. Tu li aprivi e trovavi scritto qualcosa, anche se la sensazione che mi colse fu quella che continuò a cogliermi per sempre: che mi parlassero. Sì, dentro si racchiudeva qualcuno che ti parlava e tu non dovevi che ascoltarlo. Un dato statistico: la maggior parte di quelli che ti parlavano erano morti. Ecco, connaturatamente, in quel dato, scintillava il nesso: preferivo i morti ai vivi, con loro mi sentivo più a mio agio.”.

 

Rileggo allora una parte del passo del romanzo appena letto a pag. 13.

 

“Tu li aprivi e trovavi scritto qualcosa, anche se la sensazione che mi colse fu quella che continuò a cogliermi per sempre: che mi parlassero. Sì, dentro si racchiudeva qualcuno che ti parlava e tu non dovevi che ascoltarlo.”.

 

Il libro non può rimanere chiuso ma deve essere sempre riaperto dal lettore, come ci illustra il filosofo francese Jean-Luc Nancy nel suo chiarissimo saggio  Del libro e della libreria del 2006.

 

Sempre nel primo capitolo Arturo ci illustra come si dipana la sua vita, a pag. 10:

 

“La mia vita fondamentalmente si divideva in due fasi cicliche. Nella prima ammonticchiavo soldi, nella seconda li spendevo. Nella prima lavoravo (quello che capitava) e leggevo (non quello che capitava). Nella seconda partivo e non facevo nulla. Nella prima dormivo a casa, nella seconda dormivo in macchina o nelle stanze d’albergo. Qualche riga più su ho scritto che nella seconda fase non facevo nulla. Beh, ho scritto male, perché nella vita, per quanto ci si possa sforzare, è impossibile non fare nulla.

 

Nella mia seconda fase visitavo le tombe degli scrittori. Di quelli che piacevano a me. Sceglievo una delle loro opere — non necessariamente la più famosa o la mia preferita — e gliela deponevo, come un fiore. L’opera comunque me la ricompravo. Nel frattempo, tra una tomba e un’altra, prima di ritornarmene alla base, non era detto non succedessero delle cose. Per esempio, quando terminavo i soldi e avevo voglia di vagabondare qualche altro giorno, battevo la zona alla ricerca di un conosciuto-semisconosciuto parente o di un vecchio presunto amico (vecchio perché di amici nuovi non ne contavo, né sunti e né presunti) al fine di scroccare un pranzo, un letto, o tutte e due le cose insieme, perché no?”.

 

Nel passo prima richiamato Arturo riflette che “la maggior parte di quelli che ti parlavano [vale a dire degli scrittori] erano morti.”

 

Questo richiama alla memoria la famosa Lettera XI di Niccolò Machiavelli (del 10 dicembre 1513) a Francesco Vettori, ove il famoso storico, filosofo, scrittore e drammaturgo italiano, vissuto tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, scrive queste stupende parole:

 

“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.”

 

Come pure riecheggia, col viaggio del protagonista verso le tombe dei suoi scrittori, il tema sepolcrale del grande Ugo Foscolo, nella sua celeberrima opera in versi Dei Sepolcri (del 1807), trattato già dai preromantici inglesi, sul significato e la funzione che la tomba assurge per i vivi a celebrazione di quei valori e ideali che possono e debbono dare un significato alla vita umana, il senso della civiltà e della poesia.

 

Avevo detto prima alle “tombe dei suoi scrittori”, di quelli che piacciono ad Arturo, perché non deve sfuggire il particolare emerso nella breve citazione delle due fasi “cicliche” della vita di Arturo Franchini:

 

“Nella prima lavoravo (quello che capitava) e leggevo (non quello che capitava).”.

 

Non bisogna dunque leggere quello che capita (o comunque esserne consapevoli), ma sicuramente fare una cernita tra autore e autore, operazione questa piuttosto difficile in questa nostra società postmoderna e (il termine da me non è molto amato) liquida, secondo la nota definizione di Zygmut Bauman, sociologo, filosofo e accademico polacco, morto appena a gennaio di quest’anno. In queste osservazioni del protagonista è presente dunque una critica (che è la critica di Andrea D’Urso) all’odierno mondo letterario ed editoriale italiano e no.

 

La vita “bifasica” e ciclica di Arturo Franchini, descritta nel primo capitolo e divisa tra lavoro (più o meno occasionale, più o meno gradito) e il mondo delle lettere (lettura/scrittura) è peraltro quella della stragrande maggioranza degli scrittori di narrativa e poeti di oggi (penso allo stesso Andrea, al mio amico Giovanni Ricciardi, autore di libri polizieschi, professore di latino e greco in un liceo di Roma, e anche del sottoscritto invero): chi è che in questo nostro periodo vive unicamente di letteratura? Solo pochissimi e a certi livelli.

 

Sul mestiere dello scrittore emerge poi e viene sottolineata la grande fatica della scrittura, di cui ha parlato il grande poeta, nostro contemporaneo e ancora vivente, Elio Pecora, sabato 23 dicembre scorso ad un incontro poetico, al “Piccolo Teatro della Parola” (in Via Castelforte n. 4, a Roma), al quale era presente lo stesso Andrea. Infatti, nel capitolo 4°, La stagione delle zanzare, vi si fa riferimento (nelle pagg. 34-35) nel richiamare ironicamente da parte di Arturo i “tentativi” di scrivere il suo “grande romanzo”:

 

“Oltre a lavorare, leggere, catalogare tombe, tentavo di scrivere il mio grande romanzo. Scrivevo dei gran bei avvii, che lì per lì mi spumantizzavano dentro […] Il problema stava nel fatto che a ogni inizio mi fermavo, non mi spinsi mai oltre la pagina sette. D’improvviso la mia scrittura si pietrificava, il flusso si arrestava e le visioni si disperdevano. D’improvviso mi ritrovavo in una strada chiusa, sbarrata, cieca. Dovevo ritornare indietro e ricominciare tutto da capo.”.

 

Abbiamo accennato prima alla necessità di discernere nella lettura.

 

Nel capitolo 4° appena citato, il narratore menziona un fenomeno molto particolare che prende il nome di aNobii (v. pagg. 33-34).

 

Qui diciamo che “gioco in casa”, perché sulla piattaforma di aNobii, creata nel 2006 ad Hong Kong (l’anobium punctatum è l’insetto che si nutre della polpa del legno - cellulosa, emicellulosa e lignina -  deponendo le uova le cui larve forano le pagine dei libri di cui si nutrono per poi volare via) e acquisita da qualche anno dalla Mondadori (come l’altro sito gratuito dei lettori Goodreads è stato acquisito dalla Amazon), sono iscritto dal febbraio 2009. Si parla spesso di social network, ma invero la dizione esatta per tale realtà è (in inglese) social reading, trattandosi dell’incontro di lettori che leggono, commentano e discutono tra di loro i libri che amano. Come dicevo sono iscritto da un po’ di anni e ho avuto modo varie volte di discuterne, ad es. con la giornalista e scrittrice Loredana Lipperini, con la compianta giornalista della la RepubblicaAnnalisa Usai (venuta a mancare il 23 novembre 2011) e, in modo più burrascoso, con il giornalista de “Il Sole – 24 Ore”, Stefano Salis (in occasione di un sondaggio del domenicale del quotidiano sul “miglior libro dell’anno 2009”: non voglio entrare nei particolari).

 

Ma ecco il brano relativo al nostro “portale dei lettori”.

 

“In quel periodo iniziai a sondare i testi orientali. Al di là che gravitassi in un’età perfetta per la conversione, lo zen, così come il buddismo, si effondeva accattivante, si faceva ben volere, ti lasciava carta bianca, essenzialmente dovevi rimanertene tranquillo, dopodiché potevi comportarti suppergiù come ti pareva, un po’ come l’ama e fa ciò che vuoi di Sant’Agostino, nel loro caso non eri obbligato ad amare, bastava che ti preservassi pacato e impassibile. Ma non leggevo soltanto i libri, orientali o occidentali che fossero, leggevo anche le recensioni degli utenti. Praticavo una nuova abitudine: rovistare tra le librerie di Anobii. Mi si sbottonò un mondo: gente che affastellava libri bellissimi, inconsueti, sofisticati, esiliati. E sapeva parlarne, eccome se ne sapeva. Gente vivificata non solo dalla passione, ma anche da un’invidiabile e perspicua perizia. Gente apolide, colta e sapiente. Gente che magari faceva il cassiere al supermercato, il dentista, l’impiegato di banca. Nello stesso tempo, le pagine culturali e non dei giornali più prestigiosi erano un festival di articoli vuoti e recensioni fasulle. Che cosa significava allora? Che era tutto capovolto? Che gli ultimi erano i primi come nel regno dei cieli? Non esattamente. Poteva capitare che il guardiano notturno fosse un letterato e il letterato fosse un cazzone, ma poteva capitare pure il contrario. Innegabile che il genio contemporaneo simpatizzasse per un certo fare sotterraneo, ai limiti del catacombale, ma simpatizzava ancor di più per l’assenza di ogni possibile corollario. Il genio contemporaneo si prestava a tutto, tranne che alle semplificazioni. Il genio contemporaneo si snodava alquanto complesso nell’apparente grossolanità delle sue trame. Il genio contemporaneo era un vaso cinese frantumato sul pavimento e hai voglia a chinarti per raccogliere i pezzi. Il genio contemporaneo ti faceva venire il mal di schiena. Il genio contemporaneo era come quei grossi cubi negli autogrill. Se vi affondavi il braccio dentro, in mezzo ai Cugini di Campagna, Richard Clayderman e le hit dell’estate dell’86, potevi esumare Paolo Conte o le Variazioni Goldberg di Glenn Gould.”.

 

Come nel 13° e ultimo capitolo, Blanes, verrà ripreso anche il cognome oltre al nome di Arturo, vale a dire Franchini (pag. 105), così nell’excipit di quest’ultima tappa del nostro protagonista, con la ripresa del tema del viaggio che inizia con Arturo che sta guidando (pag. 9):

 

“Una notte di maggio guidavo costeggiando quel che permaneva della pineta di Castel Volturno e mi ponevo la domanda più antica del mondo.”,

 

e nell’ultimo capitolo (pag. 109):

 

Guidavo verso il ritorno e mi sentivo propositivo.”,

 

c’è la risposta alla domanda che il protagonista si pone, indicata anche nel titolo del 1° capitolo Il senso della vita.

 

Ma per conoscerla dovrete arrivare all’ultima pagina (la 110a) del bel romanzo di Andrea D’Urso.

 

Vi consiglio di assaporarlo piano piano, di entrare in punta di piedi nel mondo del protagonista Arturo, per gustare lo stile di Andrea, così particolare, fatto di iterazione, metrica e discontinuità, elementi questi, non poteva dubitarsene, in comune con l’Andrea D’Urso poeta.

 

Ad es. nel Cap. 4° La stagione delle zanzare, a pag. 32,

 

un esempio di discontinuità

 

“L’estate non era la stagione degli amori, delle camminate sulla spiaggia, dei cinema all’aperto.”,

 

che mi ha richiamato alla memoria (anche perché suonata spesso recentemente alla radio) la recente canzone L’estate di John Wayne, il singolo del cantautore italiano Raphael Gualazzi, pubblicato nel 2016:

 

Torneranno i cinema all’aperto e i riti dell’estate

 

Le gonne molto corte

 

Tornerà Fellini e dopo un giorno

 

Farà un film soltanto per noi”

 

[Come sottolineato dall’autore durante la presentazione il riferimento era piuttosto a Franco Battiato – ritengo al brano Summer on a solitary beach del 1981 – ove sentiamo:

 

Passammo l’estate su una spiaggia solitaria

 

E ci arrivava l’eco di un cinema all’aperto

 

E sulla sabbia un caldo tropicale dal mare.”.

 

Probabilmente – notavo - in Gualassi sarà riecheggiata la famosa canzone del grande Battiato.];

 

e in tutto il capitolo vi sono continui fenomeni di iterazione

 

(come nel capitolo 4°, La stagione delle zanzare, a proposito de “L’estate” o nel capitolo 7°, La casa rosa, in merito alla “casa rosa” di Guido Morselli, per fare degli esempi).

 

Per chiudere questo mio intervento, e potrà Andrea riprendere i punti ed elementi che io ho toccato, mi piace citare alcune frasi del nostro protagonista che riflette sulla sua vita:

 

“non facevo nulla”, anche se “nella vita, per quanto ci si possa sforzare, è impossibile far nulla”;

 

“[Nel database dei soggetti funzionali alla causa per scroccare un pranzo, un letto, o tutte e due le cose insieme, nel viaggio verso le tombe dei suoi scrittori] Come dire perseguivo una mia decadenza. Il problema era che per decadere bisognava cadere da qualcosa, mentre io mi guardavo intorno e non vedevo che una sterminata piana di inconsistenze.”;

 

“i libri mi dicevano […] chi non ero”

 

(tutte nel Cap. 1, Il senso della vita, rispettivamente, pag. 10 e pag. 14);

 

“Durante il viaggio di ritorno [dalla casa degli zii] ripensavo alla mia vita. Il solo aspetto che non disdegnavo, che in qualche modo salvavo e difendevo, stava nella sua implausibilità”

 

(Cap. 8, Il grande freddo, pag. 72).

 

Se in nostro (anti)eroe, Arturo Franchini, avrà alla fine la sua “redenzione” resta solo a noi scoprirlo, leggendo il bellissimo nuovo romanzo che ci è stato regalato da Andrea D’Urso: La strada è un libro aperto.

 


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