Mario Fresa, la traduzione come autobiografia spirituale
di Prisco De Vivo
L’ultimo numero del semestrale “La Revue des Archers” di Marsiglia, diretto da Dominique Sorrente, ha dedicato l’apertura ad alcuni testi poetici di Mario Fresa, uno dei nomi più significativi della nostra poesia più recente. Dopo essere apparse, negli ultimi anni, sulle principali riviste letterarie italiane ( “Paragone” , “Nuovi Argomenti”, “il verri”, l’ “Almanacco dello Specchio” di Mondadori) le poesie di Fresa sono dunque approdate in Francia, grazie alla traduzione di Viviane Ciampi. Lo abbiamo intervistato.
Come si può leggere una poesia, oggi?
«Senza la pretesa di sciogliere per intero gli enigmi che essa nasconde sempre. Il lettore deve ricordare che nessuna poesia è parafrasabile o spiegabile con altre parole rispetto a quelle che sono state scelte dal poeta. Si deve accettare, insomma, l’ipotesi che una parte della poesia che si legge possa rimanere misteriosa o non del tutto comprensibile né, tantomeno, “comunicabile” ad altri: è impossibile, secondo me, cercare di “insegnare” a leggere compiutamente una poesia; la responsabilità della sua lettura è personale, appartiene solo al lettore».
La poesia può essere letta senza traduttore?
«Sì, ed è la cosa migliore. Sarebbe opportuno conoscere la lingua nella quale una poesia è stata scritta, e poi tradurla personalmente, senza affidarsi al lavoro altrui. Studiare e tradurre da soli una poesia scritta in un’altra lingua è un esercizio critico entusiasmante; e infinibile».
Come si è accorto di avere una predilezione per la traduzione dei testi?
«Ho sempre voluto interrogare e analizzare i testi originali in modo diretto. Perciò, di solito, dopo averla studiata a lungo, tendo ad accantonare la lezione del traduttore e mi metto a ritradurre daccapo il testo che decido di approfondire, ricorrendo, se possibile, ai dizionari e ai vocabolari storici, cioè quelli che risalgono al tempo del poeta e dell’opera da esaminare. È una sorta di amorosa lotta a corpo a corpo con la lingua dell’Autore».
Quanto le ha insegnato, per esempio, tradurre i “Fiori del Male” nel suo recente libro “Alfabeto Baudelaire”?
«Mi ha insegnato ad amare ancor di più le vertiginose altezze belcantistiche dei versi baudelairiani (studiati da più di vent’anni: il primo saggio di traduzione apparve su di una rivista, nel 1997); e mi ha insegnato, soprattutto, quanto siano fallimentari l’ambizione del calco isometrico, o il desiderio di imitare la struttura metrica o prosodica o fonica di quei potentissimi testi. Non si deve imitare o ricalcare: ma evocare, o rievocare, senza fingere di riprodurre l’atmosfera stilistica o espressiva del tempo dell’Autore. Il passato non può mai ritornare: e il traduttore non è un restauratore o un mago o un Medium. Un traduttore è un interprete e un critico e non può e non deve mai sostituire il poeta che traduce».
La traduzione poetica può pareggiare la bellezza del testo originale?
«È qualcosa di diverso, di altro. La traduzione è pericolosa e affascinante perché può trasformarsi in un gioco bizzarro, un “gioco di ruoli”. Una cosa da nevrotici: succede allorquando il traduttore, per un attimo, pensa di essere diventato un altro, cioè l’Autore che sta traducendo. Come gli attori che pensano di essere, sulla scena, i personaggi che stanno interpretando. C’è qualcosa di folle, in questo mascheramento, in questo gioco a nascondersi e ad essere un altro da sé stessi. Ma ciò può essere terapeutico. Parlare con la bocca di un altro è una confessione mascherata, differita, apparentemente non sincera. Ma ogni confessione mascherata nasconde l’inizio (e l’indizio) di un’autobiografia inconscia, cioè spirituale: dunque, profondamente vera. Le maschere, tutte le maschere che noi indossiamo, siano diurne siano notturne, servono a questo: a dirci chi siamo, procedendo nel buio».