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Musica Etnica: Il deserto e i Popoli nomadi del Mediterraneo

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 24/10/2021 17:30:24

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA
IL DESERTO E I POPOLI NOMADI DEL MEDITERRANEO

La cultura di ciascun popolo è di per sé affascinante quanto lo è il risultato della sua fusione con le altre culture, a patto che queste risultino altrettanto interessanti sotto l’aspetto artistico, dell’organizzazione sociale, della religione, dei costumi e delle usanze tipiche, viste attraverso la formulazione dell’analisi etnologica. Considerando il profondo abisso che separa la cultura orientale da quella occidentale, è difficile pensare vi possa essere una tale diversità di intuizioni e concezioni tali da sembrare si stia parlando di un ‘pianeta’ diverso, lontanissimo dal nostro. Eppure è così. Un mondo di cui si parla già in una iscrizione del IX secolo a.C. e che durante il periodo medievale ha conosciuto un grandissimo splendore, non solo per le sue conquiste territoriali, ma e soprattutto nel campo della filosofia, della scienza matematica e astronomica, come nell’arte orafa e manifatturiera.
Lo storico inglese Arnold J. Toynbee (1) nel suo libro “L’uomo deve scegliere”, sostiene che “il maggior avvenimento del XX secolo è stato l’impatto della civiltà occidentale con tutte le altre forme di organizzazione sociale esistenti al mondo. Fatto questo in ragione del quale ci vede proiettati direttamente alla ricerca etnologica con il modo arabo e, nello specifico, con la cultura afferente alle popolazioni, un tempo nomadi, della fascia costiera del Mediterraneo che dal Maghreb si spinge fino al Medio Oriente.
Altrettanto è quanto affermato da Raymond Firth (2) la cui analisi dei contatti culturali e dei mutamenti sociali, attribuisce un peso notevole agli effetti della moderna tecnologia industriale …

“Ciononostante, anche se le sue influenze possono essere sostanziali e, sebbene le comunità locali, possano essere costrette a legarsi a strutture economiche, politiche e religiose esterne, i gruppi di ‘piccole entità’ (ad esempio tribali) tendono a conservare molti elementi culturali locali. Rimanendo per lo più attaccati alle cose consuete, del vivere comune, come la preparazione del cibo, il modo di dormire e salutare, il riconoscimento dei simboli appartenenti al loro gruppo, gli interessi che danno significato alla loro identità comunitaria.”

Tuttavia, senza addentrarci nelle differenze filosofiche e religiose, delle quali potremmo non finire mai di parlare, se prendiamo in considerazione la cultura araba nel suo insieme, possiamo facilmente riscontrare alcune diversità da quella occidentale. A incominciare da un certo ‘risveglio’ culturale e religioso che in tempi recenti, dopo il decadimento protrattosi per secoli, oggi conosce anche un risveglio artistico-culturale che va dalla comunicazione visiva, relativa alle esigenze estetiche che investono l’intera tradizione che contraddistingue il popolo arabo nel suo insieme.
Trattasi di un agglomerato di popolazioni diverse oggi unite dalla stessa identità islamica e musulmana che ha sostituito il termine ‘arabo’, derivato dal plurale ‘arab’ che li contraddistingue in quanto ‘nomadi’ abitanti del deserto. In realtà il termine è stato in genere usato (e abusato) per indicare qualunque musulmano di razza semitica la cui lingua si è poi fusa nell’Islam nel periodo della sua massima espansione, esortando le popolazioni “ad assimilare piuttosto che essere assimilate” …

“Dipende da loro prendere l’iniziativa di scegliere, tra gli aspetti del pensiero e della prassi occidentale, quelli che ritengono meglio adattarsi ai propri collaudati modi di agire e di pensare.”

Un concetto questo affermato e sostenuto da personaggi di rilievo quali Leopold Sedhar Sengor, poeta e filosofo del Senegal, dal Mahatma Ghandi e il leader nero Martin Luther King per esortare i ‘fratelli’ non solo africani, sia quelli delle minoranze indiane nelle loro reazioni alle nuove forme di acculturazione. Tantomeno il termine ‘musulmano’ finì col riferirsi non a una specifica nazionalità, nonostante il comune patrimonio linguistico-culturale, intendendo con ciò la sola lingua classica, cioè l’arabo e tutto ciò che ruotava attorno al modo di vivere, notevolmente variegato, secondo la diversità dei popoli geograficamente interessati.
Alla base del patrimonio culturale comune di questi popoli sta dunque la ‘lingua’ utilizzata nella comunicazione quotidiana e pressoché dovuta all’espansione araba al tempo del profeta Maometto e, successivamente alla sua morte, all’adozione di una stessa lingua, pur senza necessariamente soffocare le lingue autoctone dei singoli popoli assimilati, seppure nell’alternanza di periodi di grandi fortune e periodi di decadenza che influenzarono non poco i popoli autoctoni.
La conquista araba del territorio avvenuta nel VII secolo, iniziata con il profeta Maometto, dapprima sostenuta con enfasi ‘spirituale’ trovò una fase d’arresto verso Oriente solo davanti a Costantinopoli e si concluse a Occidente con la resa di Poitiers, avvenimento che segnò la definitiva suddivisione delle tre religioni monoteistiche: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam. Ma com’era ovvio che accadesse, l’avvento dell’Islam influenzò moltissimo le religioni pre-islamiche sul territorio, che a sua volta assorbì elementi delle varie culture nel riconoscimento delle loro tradizioni etniche arcaiche. Ciò per quanto l’influenza islamica assicurò una certa omogeneità di costumi e l’assimilazione di una comune tradizione diffusa su tutti i territori conquistati.

La caratteristica più nota del mondo arabo è indubbiamente il Sahara, la cui espansione desertica abbraccia tutta la fascia mediterranea dell’Africa settentrionale, dall’Arabia Saudita all’Egitto, alla Libia e al Marocco, di cui occupa una parte considerevole del territorio. Un deserto a tratti roccioso interrotto da vaste zone formate da dune sabbiose punteggiate qua e là da oasi verdeggianti. Le estati sono lunghe e asciutte, gli inverni miti e piovosi, con brevi periodi intermedi in autunno e primavera. Pertanto le popolazioni che abitano le diverse zone pianeggianti e quelle che vivono le regioni montuose presentano abitudini e costumi che differiscono molto tra loro e danno luogo a una grande varietà di organizzazioni sociali.
Non in ultimo la creazione di frontiere e nuove esigenze politico-economiche hanno trasformato molti dei popoli che vivono sul territorio, un tempo tipicamente nomadi, in sedentari. Il nomadismo è oggi infatti praticato solo da una minoranza per lo più dedita alla pastorizia, i cui mezzi di sussistenza molto dipendono dall’allevamento di pecore e capre, o di cammelli e asini che poi vendono e/o scambiano con le popolazioni sedentarizzate che li utilizzano nei lavori domestici o, come avveniva in un tempo non troppo lontano, se ne servono per il trasporto nelle lunghe traversate del deserto.
Il processo di sedentarizzazione dei nomadi, nonostante i tentativi fatti dai governi degli stati ufficiali, non ha portato a una loro scomparsa definitiva, per quanto abbia accelerato enormemente la loro trasformazione in contadini, anche se una grande maggioranza di essi abbia accettato di vivere all’interno di villaggi urbanizzati. Acciò rimane che i nomadi abbiano mantenuto un assetto tribale, i cui membri sono uniti dalla discendenza da un antenato e/o capo-famiglia comune, costituente un’unità importante all’interno delle scelte politico-organizzative ed economico-sociali, nonché religiose che difendono, in certi casi, fino allo stremo.

Alcuni gruppi nomadi infatti continuano a vivere in tende di pelo di capra o di cammello agli estremi bordi delle grandi città e delle zone coltivate site ai limiti del deserto, spostandosi alla continua ricerca di pascoli, pur mantenendo uno stretto contatto con i popoli sedentari, con i quali scambiare, secondo l’antico metodo del ‘baratto’, bestiame e altri manufatti e ricevendone in cambio generi di prima necessità.
Ciò, per quanto, fatto questo da non sottovalutare, la vicinanza con il deserto offra loro una facile via di evasione verso le oasi più lontane, verso una ‘psicologica’ libertà da tutto e da tutti, intimamente sentita, propria della loro interazione con il ‘grande vuoto’ che il deserto rappresenta. Una reciprocità che influenza ogni momento della vita dei nomadi …

“..una immensa distesa di sabbia, solo apparentemente arida e inospitale, in cui abbandonare la propria anima al cospetto dell’universalità di Dio”.

Il deserto del Sahara è una superficie apparentemente interminabile che dà asilo a una popolazione di non più di un milione e mezzo di persone, la cui storia è scritta sulla sabbia ovviamente condizionata dalle variazioni climatiche dell’habitat in cui vive. Va qui considerato che l’urbanizzazione odierna e la considerevole industrializzazione, e in particolar modo lo sfruttamento petrolifero, hanno sottratto al deserto spazi un tempo territorio esclusivo delle popolazioni nomadi che, tuttavia, sono riuscita a sfruttare piccoli appezzamenti di terreno situate ai bordi delle oasi disseminate lungo le piste carovaniere, onde trovare dove pascolare i loro animali.
Uno dei primi esploratori di questa desolata immensità che è il Sahara, riferisce di una razza di ‘predoni nomadi’ Tuareg (3), una razza berbera di abili guerrieri tutt’ora quasi inaccessibili, che a causa della loro riconosciuta empietà erano chiamati ‘Tavarek’ ossia ‘uomini abbandonati da Dio.’ Più recentemente si è attribuita ai Tuareg così detti ‘Uomini blu’, l’accezione di nomadi dediti alla razzia, per quanto in passato fosse un’attività ritenuta regolare che dei ‘nobili guerrieri’ dovessero procurarsi di ché sopravvivere per loro, le proprie famiglie e per i loro animali.

I Tuareg sono berberi originari del Tassili, un massiccio di roccia friabile alla frontiera tra Algeria e Libia e/o in parte dell’Hoggar e le catene montuose più piccole come l’Air e l’Adrar des Iforas, appartenenti quindi, al contrario degli arabi veri e propri al ceppo linguistico camitico, ritenuti i discendenti dai più antichi abitanti dell’Africa settentrionale. Dacché le invasioni arabe si scagliarono contro le tribù berbere della Libia fino alla Mauritania, i Tuareg in fuga trovarono riparo nel ‘grande vuoto’ del deserto, scomparendo agli occhi dei loro assalitori, che li additarono col nome di ‘popolo misterioso’, tuttavia restando i padroni incontrastati del Sahara, temuti assalitori di chiunque si addentrasse nel loro sterminato territorio.
In seguito i Tuareg si dedicarono per gran parte, agli scambi commerciali, ed ancor oggi le poche tribù ancora esistenti, vivono quasi esclusivamente di commercio. Dopo l’occupazione di Timbuctu essi dominarono la parte centrale del corso del fiume Niger, fino alla definitiva sottomissione all’amministrazione francese dei territori algerini ottenuta non senza difficoltà, e che lasciò ai Tuareg alcune particolari concessioni, inoltre al riconoscimento di una ‘nobiltà di casta’.

In quanto segno di distinzione fu concesso a tutti gli uomini Tuareg di portare il tradizionale pugnale alla cintola, mentre solo ad alcuni, i capi riconosciuti, è lasciato di portare la sciabola del comando con l’impugnatura e il fodero di cuoio lavorato. Durante le manifestazioni tradizionali e le festività calendariali se ne vedono di bellissime con rifiniture d’oro e d’argento, abbinate agli scudi di pelle di orice, una specie di antilope che oggi sta scomparendo. Ciò vale per le tende che trasportano durante i loro spostamenti, le selle dei cavalli e dei cammelli, i finimenti di fruste e borse d’uso comune che spesso raggiungono un livello di altissima qualità manifatturiera, allo stesso modo delle placche di metallo e i monili in uso, realizzati con originale ricercatezza artistica, entrati a far parte integrante del costume Tuareg da tempo immemorabile, per quanto non se ne conosca l’origine.
Gli studiosi desumono si tratti di una delle più misteriose costumanze che si conosca, forse legata alla religione arcaica di questo popolo, unico nel suo genere, detentore di un alfabeto scritto detto ‘tifinag’ (4). desunto, secondo alcuni studiosi, dalla più antica scrittura punica, una scrittura che annota solo le consonanti. È singolare che esso sia oggi conosciuto soltanto dalle donne che, con la parola ‘tamashek’ indicano l’insieme dei dialetti berberi (tuareg, tamahaq, tamajeq, tamasheq) parlati dai diversi gruppi. Oggi si contano non più di 3.000/4.000 Tuareg politicamente distribuiti fra Algeria, Libia, Valle del Niger e nel Mali.

Originariamente di culto ‘animista’ come molti popoli preislamici convertiti all’islamismo relativamente tardi, le popolazioni berbere hanno assimilato superficialmente la religione musulmana conservando all’interno di essa alcune delle loro credenze, quale ad esempio, quella degli ‘andgelousen’, una specie di angeli, e quella nei ‘dijnn’ una sorta di spirititelli maligni che vivono nelle rocce e negli alberi isolati. Superstizioni che hanno permesso loro di adempiere a una religiosità frammista di animismo e di atti simbolici che li accomunano a una dichiarata ‘empietà’ e/o a una ‘generosità’ di tipo universale, sociale e collettiva insieme, sottolineata da strani aspetti singolari.
Come, ad esempio, al ritorno dai loro lunghi e assai pericolosi viaggi attraverso il deserto, usano donare parte della loro mercanzia, talvolta frutto di razzie, a parenti e amici in forma di regali e/o prestiti che portano a un complesso sistema di obblighi reciproci.
Va inoltre riconosciuta ai Tuareg una diversità fisica dalle altre popolazioni arabe, infatti sono alti di statura e snelli come gazzelle, scuri di pelle ma non neri come gli africani, adeguatisi alle alte temperature del deserto che d’estate salgono oltre i 50° gradi centigradi sulla sabbia, mentre sulla roccia raggiungono i 75°/80° gradi. Acciò, utilizzano accorgimenti cosmetici che li difende dal sole cocente, e un vestiario che li protegge dalla seccura dei venti. Gli uomini indossano pantaloni rigonfi di cotone blu o nero, sorretti da una cintura di cuoio colorato finemente decorata, un’ampia camicia bianca di puro cotone, e una svolazzante ‘gandura’, un mantello lungo che gli scende fino ai fianchi.
Nella regione montuosa del Nord e i massicci rocciosi dove le gelate notturne sono più frequenti, gli uomini indossano il ‘kashabir’ di lana a strisce nere o marroni e un enorme ‘burnus’ una sorta di mantello con cappuccio di pelo di cammello. Ma ciò che più colpisce nell’abbigliamento Tuareg è il velo portato da tutti gli adulti. Si tratta di una striscia di tessuto bianco o nero lunga cinque metri che essi drappeggiano attorno al capo fino alle spalle, in modo da lasciare libera soltanto una stretta fessura per gli occhi.
Fasciatura che diventa blu indaco per i guerrieri Tuareg che la indossano nelle ricorrenze più importanti e che balugina alla luce del sole con un luccichio violaceo quasi metallico, da cui il mito degli ‘uomini blu’. L’appellativo che li riveste di un alone di mistero è dovuto al colore indaco dei veli con i quali i Tuareg si coprono il viso, e che stingendo a contatto con la pelle, dona ai loro volti e alle barbe degli adulti il colore bluastro che li distingue.
L’uso del ‘velo’ maschile ha certamente un’origine pratica che non esclude, nel modo di indossarlo, una preminenza rituale. Nell’attraversare il deserto ci si rende conto della sua necessità di difendersi dall’aridità dell’aria durante la stagione più calda. Tuttavia, la sua sistemazione è diversa secondo le occasioni. Alla presenza di estranei al proprio gruppo, ad esempio, l’assetto dato al velo è particolarmente complesso, fatto in modo da coprire quasi completamente gli occhi ma in modo da lasciare loro la possibilità di bere senza mostrare le labbra. Sugli occhi sia gli uomini che le donne Tuareg, ma più in generale tutti gli arabi dell’Africa settentrionale, portano i segni del ‘Khol’, un estratto vegetale che incupisce maggiormente lo sguardo ma che mantiene integra la sua azione rinfrescante e protettiva.
Le donne Tuareg indossano una sorta di camicione nero con una striscia dello stesso tessuto sul capo, fermata da un peso che scende sulla spalla e che di solito è la chiave decorata della borsa portata dai cammelli. Lo stesso può dirsi per le più benestanti, appartenenti alla casta privilegiata dei guerrieri, che invece indossano uno scialle color indaco al posto di quello solito di colore nero. Uomini e donne portano sandali di cuoio finemente decorati e attorno al collo una sorta di astuccio con all’interno una o più frasi del Corano, il Libro sacro dei maomettani.
Un altro aspetto non meno rilevante della ricerca fin qui avanzata, afferente all’etnomusicologia araba preislamica è indubbiamente l’avvenuta fusione con quella islamico-musulmana. Sebbene le tribù berbere, abitanti le catene montuose, hanno conservato proprie caratteristiche nella costruzione e nell’uso di alcuni strumenti tipici ancora oggi in uso. Come, ad esempio, l’‘inzad’, una sorta di violino a una sola corda, la cui cassa di risonanza è ottenuta tendendo la pelle su una valva di recipiente cavo; un altro strumento in uso è un tipo di ‘tambura’ formato da una pelle tesa sul mortaio per il grano, entrambi utilizzati per l’accompagnamento nei canti e nelle danze esemplari.

Altri strumenti utilizzati sono il ‘santur’ (anche: santûr, santoor, santour, santouri o santîr) è uno strumento musicale iraniano, diffuso in tutto il Medio Oriente; il ‘tar’ un particolare strumento persiano a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d'ottone, aveva normalmente cinque corde, la sesta venne aggiunta dal grande musicista iraniano Darvish Khan.
È consuetudine assai comune nelle adunanze e nelle sere passate sotto il cielo stellato davanti al fuoco dell’accampamento, cantare accompagnandosi al suono di uno strumento a fiato come il flauto di legno o con il semplice battimani per dare ritmo alla danza. Una di queste è dette ‘danza degli Aurès’ e prende il nome dal massiccio montuoso dell’Algeria orientale dove è conosciuta da gran parte dei popoli del Mediterraneo.

Come nella maggior parte delle culture dei paesi che affacciano sul Mediterraneo e in parte in Arabia, culla dell’Islam, si è conservata una naturale predilezione per la cosmesi sia maschile che femminile, la sua prima citazione è rintracciabile in un passo del Corano, in cui il profeta Maometto vede per la prima volta le Uri del paradiso islamico, descrivendole “...di una bellezza raffinata rappresentare quanto di più bello esiste sulla terra …”.

Scrive il noto cosmetologo Paolo Rovesti (5) nelle cui opere fornisce molte informazioni a riguardo, e alle quali si è qui attinto a piene mani: “Fin da tempi immemorabili l’Islam fu celebrato per i suoi cosmetici e profumi, quali la mirra, l’incenso, la cannella, il nardo, che venivano esportati dalla Sabea in tutto il mondo antico, l’antico paese preislamico corrispondente allo Yemen attuale che diede il nome alla famosa regina di Saba”.

Ben sappiamo come “in Arabia inoltre che in Etiopia e particolarmente in Egitto e in Turchia, il frequente uso di bagni odorosi da sempre hanno avuto una qualche rilevanza religiosa, come ad esempio, nelle abluzioni, nelle aspersioni e nelle fumigazioni rituali. Negli harem come nei ginecei, fino ai più attuali hamam e nelle odierne saune, la cura del corpo assume tra gli arabi una forte rilevanza nell’utilizzo di profumi, gomme idrosolubili, allumi astringenti, oli e creme di bellezza della pelle”.
Della ‘bellezza’ si legge nella letteratura araba accreditata fin dall’antichità, a iniziare dal poeta persiano Firdusi (6) il quale nel suo “Libro dei Re” parla di quanto l’uso di prodotti di bellezza esalti i valori estetici dell’amata …

“Sotto le tue mani, le tue labbra e le gote s’avvivano / i tuoi occhi s’approfondiscono, se io t’amo così come sei / quanto, dimmi, te ne dovrò volere dopo?”.

Scrive il poeta persiano del sufismo Ibn El Nakib (7) alla sua donna:
“Di un punto di rosso color sangue / ella ravviva il rosa delle sue labbra. / Di una crema odorosa di gelsomino / ella ammorbidisce la seta delle sue guance. / A me, che l’attendo oltre il ruscello, / la brezza porta il profumo incantato / di lei, sempre più bella”.

Come nella maggior parte delle culture, anche qui l’ornamento raggiunge il suo culmine nella manifattura di gioielli e nei preziosi capi d’abbigliamento in occasione del ‘matrimonio’, uno dei più importanti avvenimenti della vita comune. Al pari di un ‘grande spettacolo popolare’, questo avviene in gran pompa e vi partecipa gran parte della popolazione …

“La sposa, col volto, mani e piedi sapientemente dipinti, si adorna di tutti i gioielli accumulati in dote, ed anche di quelli che le numerose famiglie della tribù d’appartenenza mettono a sua disposizione, i cui membri giungono da ogni parte per prendere parte ai festeggiamenti”. (cit. Rovesti)

Le spose arabe di condizione benestante arrivano ad ornarsi con tatuaggi, dipingendo con l’henné molte parti del proprio corpo inoltre alle mani e le piante dei piedi ornandoli di preziosi anelli e monili, e dipingendosi le unghie con smalti colorati, in aggiunta all’uso di proteggersi con amuleti porta-unguenti e astucci porta-rossetti manufatti in cuoio e/o in filigrana d’oro e d’argento, ricchi di cesellature e lavorazioni di un gusto assai ricercato …

“Le donne in generale, tengono ai capelli, noti per la loro lucentezza ottenuta con oli di papavero, di cotone e di sesamo, nonché con l’uso di alcune emulsioni detergenti semigrasse. Il contrasto tra il turbante e i veli chiari e il nero ebano dei capelli conferisce bellezza e fascino alla loro persona. Inoltre, si truccano gli occhi con il ‘Khol’, già citato per gli uomini, e a volte si dipingono il volto con polvere d’ocra che dona loro un innaturale splendore”. (cit. Rovesti)

Mentre gli uomini tengono moltissimo alla barba che curano in modo particolare arrivando a giurare su di essa e, pertanto, si sottomettono a cure speciali, inoltre all’uso di profumare gli abiti con l’incenso che lascia agli indumenti un sentore di freschezza; le donne utilizzano “In genere le profumazioni usate sono per lo più distillati di fiori”.
Acciò è interessante ricordare che la distillazione fu descritta per la prima volta da Avicenna (8), un medico e filosofo musulmano nativo persiano che, con l’alambicco, ottenne la prima essenza di rose. […] Negli antichi ricettari arabi è affermato di poter mantenere belle le donne, con pelle giovanile e fresca sino alla più tarda età”. (Rovesti)

Come riporta ancora il prof. Paolo Rovesti: “Una simpatica tradizione è conservata fra i maghrebini, così detta ‘dei venditori di fumo’. Questi particolari individui hanno libero accesso in tutte le case sia berbere che arabe, così come negli attendamenti dei nomadi berberi, con i loro incensieri e i loro profumi aromatici, e per pochi soldi offrono la profumazione degli ambienti d’uso comune che compiono in chiave rituale. Gravi e seri, questi putiferi ambulanti, impongono tacitamente la loro merce, comparendo in una nuvola di fumo iniziale d’incenso e benzoino. Essi appartengono a una setta di filosofi che nelle volute azzurrate del fumo, simbolo dell’oblio, dispensano un piacere olfattivo che giudicano importante per la gioia dello spirito. Quindi se ne vanno avvolti in una nebbiolina azzurra dopo aver saturato ogni luogo di gradevoli profumazioni riprendendo il loro andare e dispensare altro piacere e altre illusioni”.

Come ha rivelato uno dei ‘venditori di fumo’ intervistato …

“In un ambiente sanificato e profumato si vive meglio, si ama meglio, si sogna meglio. Un buon profumo conduce verso valori estetici eterei, surreali, accentua l’euforia, immerge il corpo in un bagno aereo di bellezza, di benessere e di piacere”.

Uniti da caratteristiche etniche simili, derivate dalla fusione di popoli un tempo dediti al nomadismo, e che oggi occupano le coste dell’Africa nord-occidentale comprese tra il Mediterraneo e il Sahara, nell’area più conosciuta come Maghreb, costituiscono un crogiuolo di razze diverse, in quanto commistioni successive in prevalenza turche ed europee. Siano essi berberi o beduini, maghrebini /mauri o arabi, la cui discendenza dalle tribù nomadi del passato, quasi tutti restano amanti del loro isolamento e della loro indipendenza.
Seppure oggi vivono in insediamenti urbani relativamente recenti, molti di essi hanno conservato un forte legame di discendenza da un loro unico antenato, anche se lontanissimo, dal quale, verosimilmente hanno ereditato la terra, i nomi, le usanze e le consuetudini, ossia i valori fondanti la comunità.
Contrariamente a quanto sta accadendo in Occidente, dove si tende alla famiglia mononucleare che esclude persino i parenti un tempo considerati ‘prossimi’ e/o ‘diretti’, in questi stati, sia i nuclei famigliari considerati sedentari che quelli nomadi e semi-nomadi si considerano uniti da vincoli di parentela, anche se assai deboli, di cui vanno particolarmente fieri.

Fortemente attaccati ai loro tradizionali costumi patriarcali, seppure questi differiscano da tribù a tribù, in particolare i nomadi delle oasi per cui l’agricoltura è alla base della sopravvivenza; e quelli che vivono spesso isolati perché arroccati sulle montagne, attribuiscono all’istituzione famigliare valori profondi, divenuti d’appartenenza di ogni singola comunità. Di fatto le comunità riconoscono la linea ereditaria maschile e il capofamiglia gode di una notevole autorità.
Da sempre, mentre gli uomini sono impegnati nei lavori agricoli e all’allevamento del bestiame, le donne arabe sono per lo più dedite alla tessitura dei tappeti, esperte nell’uso della filatura e della coloratura di cui detengono un primato significativo e che ha raggiunto un alto livello artistico. In special modo, hanno padronanza dei diversi significati dei disegni utilizzati nella simbologia artistico-creativa afferente al culto religioso, diversa per i tappeti ‘da preghiera’ da quelli di uso comune, nonché nel replicare alcuni tappeti per così dire d’‘autore’ molto richiesti sul mercato interno ed anche da quello Occidentale.

Oggi assistiamo al rifiorire di un maggiore interesse per le arti e per i mestieri manifatturieri legati alle tradizioni, così come al recupero della musica cosiddetta ‘classica’ degli antenati, fatta di pochi strumenti suonati in a-solo e di quella d’accompagnamento alle danze tipiche, al tempo stesso ricca di sonorità diverse e talvolta entusiasmanti quando suonate in ‘ensemble’, dalle orchestrine nelle parate ufficiali e ‘in-concerto’ durante le feste calendariali; se bene il progressivo sviluppo e l’emancipazione in corso abbiano portato una certa commistione degli stili musicali in favore di quelli occidentali, avviandosi verso grandi contrasti sociali …

L’importanza delle feste è data dalla lettura della ‘sūra’ relativa nel Corano ad ognuna delle 114 ripartizioni del Libro; ogni ‘sūra’, a sua volta, si divide in ‘āyāt’ o versetti ai capitoli del libro sacro musulmano. L’usanza vuole che l’uomo si rechi in Moschea almeno il venerdì, mentre in molte parti del mondo arabo le donne pregano soltanto in casa. La festa ha inizio con la preghiera del mattino nella moschea dove si raccolgono in preghiera numerosi i fedeli e si cantano inni religiosi. Quindi si fa visita alle tombe dei propri defunti e solo in seguito gli uomini tornano a unirsi alla famiglia per la colazione e per dare inizio ai festeggiamenti dove vengono regolarmente consumati i dolci devozionali preparati in gran quantità e si beve il tradizionale tè alla menta. Inoltre al più conosciuto ‘Ramadan’, quelle più seguite sono ‘id al-Fitr’ che mette fine al mese di digiuno, e ‘id al-Adha’ durante la quale si commemora l’episodio in cui, secondo la religione islamica, Abramo sacrificò un montone al posto del figlio Ismaele, ritenuto il capostipite delle tribù arabe.

Per l’occasione delle feste “le donne, spesso assai belle, dagli occhi brillanti e la carnagione nocciola più o meno scura, usano trattare i propri capelli con l’henné, una pianta dal potere colorante di rosso. Ogni donna tiene in modo particolare alla propria acconciatura tribale del proprio gruppo etnico: le donne berbere, ad esempio, portano una specie di cono nei capelli, mentre le donne beduine per rialzare la massa dei capelli usano grandi trecce di lana che aggiungono all’acconciatura che stringono intorno alla testa”. (cit. Rovesti)

In rispetto alla festa le donne indossano i loro costumi tradizionali, questi sono per lo più in tinta unita arricchiti con guarnizioni e frange damascate, con aggiunta di un gran numero di monili, talvolta veri e propri gioielli in filigrana d’oro e d’argento a forma di medaglia o dischi incisi, del tipo usati per le cerimonie di matrimonio. Alla vestizione è inoltre praticato il tatuaggio in segno della maturità sessuale degli individui diverso per le donne da quello degli uomini, la cui reputazione è un segno non solo attitudinale quanto di vicendevole rispettabilità. Così avviene per recarsi al mercato che le compere vengono per la maggior parte fatte dagli uomini. D’altro canto, quando di giorno gli uomini sono fuori, le donne si scambiano visite fra loro, ma, ad esempio, nei paesi più tradizionalisti le madri di famiglia compiono queste visite in gruppo, in ogni caso le visite troppo frequenti sono disapprovate.

Allo stato attuale delle cose le donne arabe indossano il ‘chador’, il velo che ricopre la testa e il viso. La religiosità islamica obbliga specificatamente la donna di nascondere il proprio corpo ma non di coprire il volto. Tuttavia in alcuni paesi il velare il volto è rigorosamente in uso, dove il costume vuole che la donna porti oltre al velo una maschera di tessuto sul volto. Ciò è legato al concetto di ‘onorabilità’ famigliare e di pudore femminile, che proibisce alle donne di avere qualsiasi contatto che non sia di breve durata e il più superficiale possibile, eccetto con il proprio marito e i parenti più prossimi, anche se con il cambiare dei costumi nazionali di alcuni paesi, anche la vita sociale sta rapidamente cambiando.
Un esempio pratico è qui dato dal fatto che prima delle recenti riforme avvenute in alcuni stati, i mariti potevano divorziare a proprio piacimento, se pure la legge civile oggi lo sconsiglia e, in certi casi, lo proibisce. Quanto fin qui detto è decisamente voluto, in quanto oltre a una risvegliata coscienza nazionale, valida per alcuni stati moderni, vuoi per gli effetti degli incontri delle politiche sociali su scala internazionale, vuoi per gli scambi culturali tra oriente e occidente alla base del reciproco progresso religioso, filosofico, artistico e scientifico, assistiamo oggi a una globalizzazione che consente di smussare certe diversità e ostentazioni verso un arricchimento spirituale profondo.

Come abbiamo avuto modi di leggere, il modo arabo, è un ‘pianeta’ di indubbi contrasti seppure non necessariamente insormontabili, oggi messo davanti a una svolta decisiva, quella di dover affrontare cambiamenti repentini e la possibilità di perdere la propria identità culturale. È questo uno dei tanti motivi delle lotte che infieriscono in molti paesi, dove si fronteggiano due opposte concezioni di vita: la tendenza verso il nuovo e l’attaccamento ai propri valori ancestrali a quanto pare irrinunciabili.

Note:
1) Arnold Joseph Toynbee è stato uno storico inglese. Appartenne alla corrente britannica dello storicismo diffusasi nella seconda metà dell'Ottocento e che vide in Toynbee uno dei suoi massimi esponenti. Tra i suoi libri vanno citati “The study of History” - Oxford University Press 1934; “Civiltà al paragone” – Bompiani 1948; “L’uomo deve scegliere” – Bompiani 1988; “La rivoluzione industriale” – Odradeck 2004.
2) Raymond William Firth è stato un etnologo neozelandese. Fu professore di Antropologia alla London School of Economics, e si ritiene che abbia creato da solo una forma di antropologia economica britannica. Il risultato del lavoro etnografico di Firth, ha permesso di capire che il reale comportamento delle società (organizzazione sociale) è separato dalle regole idealizzate del comportamento all'interno di società particolari (struttura sociale). Tra le sue opere: “Noi, Tikopia”, Laterza – 1976; “Alcuni principi di organizzazione sociale”, in L. Bonin, A. Marazzi (a cura), Antropologia culturale, Hoepli, Milano, 1970.
3)I Tuareg o Tuaregh sono un gruppo etnico, tradizionalmente nomade, stanziato lungo il deserto del Sahara. La lingua tuareg e le sue varietà sono dialetti del berbero.
4) Tifinag è la scrittura dei tuareg, popolazione berbera del Sahara. La scrittura discende dalle più antiche forme di alfabeto libico-berbero, già attestate nelle iscrizioni libiche del I millennio a.C.; propriamente, tifinagh è il plurale di tafineqq, termine di uso più raro, che indica una sola lettera di tale alfabeto.
5) Paolo Rovesti, biologo, cosmetologo, italiano prof. Emerito della Sorbona, ha svolto ricerca sui cosmetici dei popoli primitivi, studi sulla cosmetica antica e sui profumi. Noti sono i suoi libri in collaborazione con Gianpiero Bonetti: “Alla ricerca dei cosmetici perduti “– Blow-up 1977; “Alla ricerca dei profumi perduti” - “Blow-up 1980 e “Alla ricerca dei cosmetici dei primitivi” - Blow-up 1977. Tre libri enciclopedici che ripercorrono le tappe della etnologia della cosmesi ma anche delle canzoni e delle poesie dedicate alla ‘bellezza’.
6) Hakīm Abol-Ghāsem Ferdowsī Tūsī, più noto nella traslitterazione Firdusi, Ferdowsi, o Firdowsi, è il maggior poeta epico della letteratura persiana medievale, forse il più celebrato poeta persiano. Fu autore dello “Shāh-Nāmeh”, “Il Libro dei Re” - Luni Editrice 2020, è la grandiosa sistemazione poetica, nella lingua letteraria della Persia dell’XI secolo, del patrimonio epico-storico dell’Iran, anteriore alla conquista araba e all’islamizzazione del paese. Una saga e una cronaca insieme, che riconduce in uno schema dinastico l’intera storia della civiltà persiana, dai più remoti miti cosmogonici, attraverso leggende e tradizioni orali, fino alla protostoria e alla storia della Persia preislamica.
7) Abū Sa῾ī´d ibn Abī l-Khair è un Mistico poeta persiano (Maihana, Khorāsān, 967 - ivi 1049). Fautore della corrente panteistica persiana del sufismo; in poesia, è uno dei primi autori di quartine (rubā'iyyāt) allegoriche, ove le effusioni mistiche sono presentate sotto immagini erotiche e bacchiche. Incluso nel libro “Poesia d’amore turca e persiana” – Epidem 1973.
8)Ibn Sinā, alias Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina più noto in occidente come Avicenna, è stato un medico, filosofo, matematico, logico e fisico persiano. Le sue opere più famose sono “Il libro della guarigione” 1025 e “Il canone della medicina”1027 - UTET.

Nota d’autore:
Per una migliore comprensione dell’assetto musicale dei popoli citati, sono presenti sul mercato discografico numerosi album in vinile e CD, purtroppo non facilmente reperibili, indicativi per una classificazione della musica araba nel contesto etnomusicologico di base.



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