Pubblicato il 23/11/2023 16:55:53
“L’ALTRO COME SCELTA” Il paradosso dell’ ‘autonomia individuale’, il ‘genere’ come costruzione sociale dinamica.– Sociologia – by Giorgio Mancinelli
“La cultura occidentale è sempre stata animata da una sorta di ottimismo nel futuro del progresso scientifico e sociologico, in vista di una radicale trasformazione – scrive U. Galimberti (1) – Oggi questa visione ottimistica è crollata. Scienza, utopia, rivoluzione, hanno mancato il bersaglio, affidato a una casualità senza direzione e orientamento. E questo perché se è vero che la scienza e la tecnica progrediscono nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci gettano in una forma di ‘inquietudine’ che ruota paurosamente intorno alla disgregazione e all’assenza di senso”. Si rende quindi necessario tornare ad esplorare tra le potenzialità globali e sperimentare entro i limiti delle società specifiche la ricerca di un nesso, che pur deve esistere, tra “il passaggio storico dal futuro come promessa, al futuro dell’integrazione sociale come ‘investimento’. Ciò a significare che la strada da seguire non è quella di “proteggersi e sopravvivere, bensì quella di costruire legami affettivi di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento, in nome degli ideali individualistici che paurosamente si vanno diffondendo” (2). Così come bisogna riaffermare quella ‘fiducia’ che un tempo era socialmente diffusa tra le persone e verso le istituzioni, e che oggi sembra venuta meno a causa di fatti contingenti, economici e politici, che ne hanno messa in discussione la credibilità. “È un fatto – scrive ancora Galimberti – che quanto più la società si fa complessa, quanto più diventiamo gli uni estranei agli altri, tanto più siamo costretti a muoverci e a vivere tra attività, organizzazioni e istituzioni le cui procedure e i cui effetti non riusciamo a controllare e a capire. E perciò siamo inclini a crederci esposti a pericoli invisibili e indecifrabili, con conseguente perenne stato d’ansia facilmente leggibile nei tratti tirati e circospetti dei volti di ciascuno di noi” (3). Viene qui da pensare a una sorta di cataclisma di tipo esistenziale che, per effetto contrario alla ‘globalizzazione’, anziché renderci tutti omologati, ci rende in qualche modo tutti disuguali, per via della distinzione delle tipologie socio-lavorative che abbiamo generata, della moltitudine dei contratti di lavoro che abbiamo sottoscritti, e che verosimilmente, sta creando profonde ‘differenze’ che oggi, sulla scia del cambiamento in atto del mercato mondiale, stanno sfaldando l’organizzazione del lavoro. È un fatto che il tessuto sociale risente di queste profonde discrepanze, dovute per lo più alla trasformazione ‘transnazionale’ (4) del mercato socio-economico e allo sviluppo di più vaste opportunità commerciali e imprenditoriali. Di conseguenza la struttura interna alle organizzazioni pubbliche e private (uffici, aziende, imprese ecc.) ha subìto un mutamento radicale, è per così dire diventata reticolare, di configurazione orizzontale, i rapporti di lavoro si sono fatti atipici. Nella realtà le nuove ‘strutture imprenditoriali’ hanno decretato il trasformarsi di molte aziende un tempo a conduzione famigliare, in organizzazioni complesse (multinazionali, corporate, grandi major economiche e finanziarie ecc.), caratterizzate da una forte varianza interna e da compagini sempre più articolate e diversificate (gruppi a progetto, team, task force, ecc.), per cui è difficile stabilire quali sono i reali confini di un rapporto di lavoro e chi ne risponde a livello decisionale. Di contro, quasi ad apparire un controsenso, si riscontra inoltre, una particolare tendenza al raggruppamento (gruppi di aggregazione, enti pubblici e imprenditori privati,) che, per quanto utile nell’accrescere il potenziale economico attraverso processi di alleanza, fusione e acquisizione che certamente rendono più articolata l’organizzazione d’impresa, di fatto ha cambiato i parametri consolidati dei modelli tradizionali, basati sulla concezione ‘fordista’ (5) dichiaratamente: “..un’organizzazione solida, stabile, in cui tutti, almeno in teoria, avevano il proprio ruolo, sapevano cosa fare e come farlo; l’azienda, quindi , era una grande fabbrica di produzione di identità e senso, tanto da caratterizzare un’epoca storica, definita, per l’appunto ‘Era Industriale’ ” (6). A fronte di ciò, il comparto lavoro, ormai suddiviso in appartenenze e ‘identità multiple’, è divenuto più flessibile, perdendo quel ruolo esclusivo che ha avuto finora; si è, per così dire ‘glocalizzato’, generando ulteriori interazioni sociali, per quanto diverse nella percezione dei lavoratori nei confronti delle aziende che hanno finito così per perdere le loro connotazioni centralistiche. Anche se, a fronte, il lavoro è diventato di per sé più professionale, più esperto, più competente, più specialistico, più intercambiabile ma anche più flessibile, quindi naturalmente e irrimediabilmente più precario. Sul piano strettamente organizzativo – scrive Z. Bauman (7): “L’identità di un’azienda è comunque un concetto sicuramente abusato ma difficile da delineare in maniera puntuale ed esaustiva. I caratteri propri di un’entità definibile complessa sono insieme la molteplicità (molteplicità di componenti e di relazioni tra di esse) e una qualche forma specifica di autonomia (un’entità è autonoma se ha un comportamento dipendente da regole proprie, non definite e non definibili dall’esterno); (..) tale combinazione rende i comportamenti di un ente complesso, imprevedibili in quanto è impossibile ricostruire la logica ad essi sottesa. (..) Le formazioni sociali, infatti, sono caratterizzate dalla molteplicità nonché dalla pluridimensionalità (pragmatica, semantica, confidenziale) delle interazioni linguistiche”. Spostandoci sul piano delle politiche di mercato, il senso non cambia, e l’identificazione serve, infatti, per definire e localizzare un’azienda a carattere ‘multinazionale’ che, nel mettere in atto la propria politica ‘globale’, tuttavia non riesce ad annullare quelle che sono le differenze socio-culturali territoriali e geografiche, per loro costituzione così vaste e pervasive, da non permettere lo sviluppo di un unico modello di ‘governance’ (8), sempre che questo modello sia realizzabile e soprattutto utile (?). E, di fronte al quale, le implicazioni qui evidenziate, di carattere socio-culturale, non sembrano prevedere e, neanche permettere, un modello ‘altro’ di cultura, né il significato che ad esse generalmente si vorrebbe dare. F. Trompenaars e C. Hampden-Turner in “Riding the waves of culture” (9): “Ci sono dilemmi universali o problemi legati all’esistenza umana, ogni paese ed ogni organizzazione in quel paese affronta dilemmi diversi in relazione con le popolazioni di riferimento; in relazione al tempo e al clima; in relazione tra gli abitanti e l’ambiente naturale” – denunciano gli autori, nel rivisitare quei passaggi ed eventi che nel tempo si sono susseguiti e che hanno attraversato in orizzontale il passato e il presente di una ‘governance’ pur consolidata. Tuttavia, l tempo stesso, essi ci indicano la strada verso il futuro: “..ora abbiamo bisogno di accettare le influenze profonde delle nostre più intime convinzioni riguardanti il nostro mondo, l’analisi finale della cultura e del modo in cui i dilemmi sopra evidenziati siano riconciliabili, fino a determinare un diverso percorso, per ogni nazione, delle idee di integrità.” (10) In tutto ciò, la mia posizione è di riconciliazione e l’assunzione di responsabilità, senz’altro di avvicendamento alle nuove esigenze del mercato lavorativo, nella convinzione che ognuno ha da imparare e scoprire nuove realtà, come gli altri hanno fatto finora partendo dalla loro posizione. Purché vengano salvaguardati i principi di centralità territoriale e comunitaria dei paesi di origine, lì dove la ‘forza lavoro’ è in grado di assicurare un rendimento ottimale, consono al luogo nel quale (e alla gente con la quale), si intende avviare un’organizzazione imprenditoriale che rispetti i diritti di ‘cittadinanza’ e relativamente a questo, tenda a ridurre al minimo lo sradicamento e la migrazione di popolazioni autoctone in altri paesi. Lungi da me prendere una posizione ‘intollerante’ improntata al razzismo, il senso di questo mio discorso è puramente riferito al concetto di cooperazione e di sviluppo, lì dove la diversità organizzativa e la comunicazione interculturale richiedono una riorganizzazione del comparto lavoro. Cosa che, in verità, tutti auspicano (economisti, azionisti, imprenditori, ecc.), sia per il conseguimento di produzioni specifiche (di economia, consumo, credito, sviluppo), sia per una più fattiva ‘cooperazione internazionale’ (11) nei programmi, nei servizi, nelle infrastrutture ecc.), nei processi economici dell’imprenditoria del lavoro. “Diventa altresì essenziale identificare e comunicare, sia all’interno che all’esterno (delle aziende a carattere imprenditoriale), una nuova identità d’impresa, fondata su valori nuovi e adeguati a sviluppare nei paesi ospitanti, la cultura e le competenze necessarie per affrontare le nuove realtà sociali. L’azione di cambiamento, non riguarda dunque unicamente la definizione di nuove politiche strategiche aziendali, quanto invece comporta, e necessariamente, interventi impostati sulla cultura e sui valori diffusi al proprio interno dell’azienda stessa” (12). Onde per cui facilitare la convivenza tra persone sul proprio posto di lavoro, seppure appartenenti a culture differenti e stabilire una comunicazione efficace e positiva, significa creare il contesto e le premesse per superare le patologie comunicazionali insite nel processo di integrazione tra le diversità culturali presenti nel nostro paese. “È importante – scrive F. Casmir (13) – apprendere di più sui reali e concreti adattamenti degli esseri umani al mutamento e su come tutti noi serviamo di processi comunicativi nel nostro sforzo di produrre un cambiamento che sia continuativo, positivo e reciprocamente soddisfacente”. D’accordo con l’autore trovo che ciò spieghi (a me in prima persona) il senso del titolo che ho voluto dare a questa tesi “L’altro come scelta” e che infine dovrebbe lasciar evincere la mia personale posizione riguardo il riconoscimento di ‘identità’ degli individui tutti, e di quanto, a livello emozionale, io tenga in considerazione il benessere sociale di ognuno (etnia, razza ecc.) senza sottrarlo (forzatamente) alle caratteristiche peculiari che lo rendono riconoscibile, unico, inconfondibile. Per ‘benessere sociale’, almeno come io lo intendo, molto vale il fattore di ‘giustizia sociale’, in questo caso specifico riferito alla condizione della donna in ambito lavorativo e, in modo più diretto, alla costruzione del ‘welfare statement’, sviluppatosi dalle interazioni multiple, rese possibili da una proficua produzione di senso. Un punto di riflessione su questo proposito è dato dall’economista indiano Amarthia Sen (14) e alla sua definizione di ‘economia del benessere’, la quale, egli sostiene: “altro non è che l’ipotesi di un comportamento umano mosso unicamente dall’interesse personale, e che di fatto ha ostacolato fin qui la possibilità dell’analisi di relazioni più complesse e significative.” L’autore ritiene inoltre che un comportamento basato su ‘regole etiche’ salde, come il dovere, la lealtà e la buona volontà, possa essere estremamente utile per il raggiungimento dell’efficienza economica più in generale e, sul piano individuale del benessere così detto ‘well-being’, sostenendo una sua eccellenza all’interno e all’esterno delle moderne organizzazioni in quanto risorsa comunicativa. In altri termini una migliore valutazione dell’ ‘economia del benessere’ rivolta agli individui, (l’uomo e finalmente anche la donna) qui intesa anche in funzione di essere portatrice di ricchezza economica, potrebbe essere molto più produttiva in termini di ‘economia sociale’ se si facesse riferimento anche a ulteriori prospettive etiche e morali. Su questo tema riporto qui di seguito le parole di Edoardo Greblo nella sua ‘Introduzione’ al libro di M. Nussbaum “Giustizia poetica: immaginazione letteraria e vita civile” (15): “Se ci si pone nella prospettiva che vi sia mutuo sostegno fra una teoria delle emozioni e una teoria etica normativa, le persone cessano di essere oggetto di considerazione morale solo in quanto espressione di interessi, e il legame sociale che nasce dal riconoscimento reciproco non si esaurisce nelle nozioni di contratto, scelta razionale e massimizzazione del profitto, del vantaggio o dell’interesse. Laddove l’assunzione utilitaristica e contrattualistica di fondo consiste nell’idea che i corsi d’azione passibili di regolazione normativa possano essere modellati, in definitiva, solo nella prospettiva della prima persona dell’individuo che agisce”. (..) “Non c’è dubbio che, tra i diversi modi dell’affettività, M. Nussbaum assegni un ruolo decisivo alla ‘empatia’, che richiede condivisione e compartecipazione , un orizzonte di valori comuni entro il quale si conosce e si comprende il vissuto dell’altro come qualcosa che rimane estraneo e inassimilabile, appartenente all’altro e inviolabile”. Partendo da un esame critico dell'economia del benessere, A. Sen ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla ‘teoria dell'eguaglianza e delle libertà’. In particolare, ha proposto le due nuove nozioni di ‘capacità e funzionamenti’ come misure più adeguate della libertà e della qualità della vita degli individui, come appagamento dei desideri, felicità o soddisfazione delle preferenze, (comunemente etichettate come concezioni welfariste o benesseriste, di cui uno degli esempi più noti è l'utilitarismo). Inoltre, egli propone, in contrasto con una teoria del benessere sociale centrata sull'appagamento mentale soggettivo e non coincidente necessariamente con livelli adeguati di vita, una prospettiva tesa all'effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani. Grazie ai suoi studi si viene infatti a delineare un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita. Che tutto questo accada a causa delle diversità sessuali (pur esistenti) tra l’uomo e la donna? – mi chiedo. Domanda cui cercherò di dare più di una risposta, pur nell’ambito ristretto di questo paragrafo, relativamente alla soluzione del ‘problema’, finora irrisolto, del riconoscimento delle ‘pari opportunità’, di cui l’esperienza maschile ha finora costituito lo ‘standard’ sul quale confrontare i processi psicologici, veri e/o presunti, propri di entrambi i sessi. Pertanto, le risposte che qui di seguito darò, risentono delle risposte di soggetti maschi, che, inevitabilmente, distorcono il pensiero morale delle donne e non lo rappresentano adeguatamente. “Si può affermare che la sessualità sia in un modo o nell’altro la chiave della civiltà moderna?” – si chiede Antony Giddens (16) nel capitolo intitolato “Sessualità, repressione, civiltà”, di cui fornisce una ragguardevole opinione: “Per rispondere a questa domanda in particolare, occorre investigare qual è l’origine della sessualità, cosa è la sessualità e attraverso quali processi è diventata qualcosa che appartiene agli individui. (..) La maggior parte delle persone, donne e uomini, arriva a fare della sessualità, una variabile che si apre alla pluralità di relazioni ed espressioni (diverse), dove la nozione di ‘relazione’ emerge con la stessa forza tra la popolazione tendenzialmente eterosessuale”. In nessun caso le nuove spinte della sessualità (omosessualità, lesbismo, trans, gay o le problematiche sorte attorno ai movimenti femministi ed ai pacs) mi sembra contrastino oggigiorno, sebbene entro certi limiti, quella che è considerata una selezione dinamica dell’umanità, all’interno delle conflittualità lavorative. Le nuove sfide educative, tra parità di diritti e doveri in seno alle istituzioni (quote rosa), nella scuola come nel lavoro (pari opportunità), hanno portato semmai a una maggiore consapevolezza sociale e all’accettazione delle ‘diversità’ lì dove sussisteva una scissione in termini di ‘relativismo culturale’, quando riferito all’identità individuale. È ancora Z. Bauman (17) a offrirci la chiave di lettura del problema, che egli riferisce all’identità. Scrive in proposito: “L’identità è una lotta al tempo stesso contro la dissoluzione e contro la frammentazione; intenzione di divorare e allo stesso tempo risoluto rifiuto di essere divorati. (..) Il liberalismo e il comunitarismo, quantomeno nella loro essenza pura ed esplicitamente dichiarata, sono due tentativi opposti che demarcano i poli immaginari di un continuum in cui tutte le pratiche identitarie vengono elaborate, (..) ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la ‘libertà’ di scelta e la ‘sicurezza’ offerta dall’appartenenza da un lato; (..) la libertà di autodefinizione e autoaffermazione dall’altro”. L’equazione così postulata potrebbe sembrare in contraddizione con la comprensione di quanto affermato precedentemente, tant’è che lo stesso Bauman sente la necessità di una ulteriore spiegazione: “...i diversi significati annessi all’uso del termine ‘identità’ contribuiscono a minare alla base il pensiero universalistico”. (..) E aggiunge: “Le battaglie d’identità non possono svolgere il loro lavoro di identificazione senza essere fonte di divisione almeno quanto lo sono, o forse più, di unione. Le cui intenzioni inclusive si mescolano (o per meglio dire si complementano) con le intenzioni del segregare, esonerare ed escludere” (18). “Lo spettro più spaventoso è quello dell’inadeguatezza!” e, niente di più profetico è stato mai detto fino a oggi, anche alla luce dello stravolgimento in corso della società come corpo di una comunità di individui tendente ad abbandonare i legami sociali per ‘liquefarsi’, da cui quella “società liquida” teorizzata dal sociologo polacco. Indubbiamente molteplici sono gli aspetti trasformativi della ‘personalità’ cui questa affermazione fa riferimento, e che rendono difficile ogni tentativo di classificazione all’interno d’una problematica più ampia, qui rappresentata dalla ‘carenza di potenzialità’ di intervento della società. Diverse infatti sono le cause che possono produrre questa difficoltà, ed è interessante esaminarle in questo contesto, seppure solo in parte, al fine di accrescerne la comprensione. C’è una valutazione che però bisogna fare, riguardo al principio fondamentale che regola la nostra vita psicologica, secondo cui l’individuo: “tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, risvegliando quegli elementi che sono opposti o complementari a quelli dominanti” (19), all’interno del proprio ‘Io persona’. “Nella riflessione sociologica – scrive Elena Besozzi (20) – così come nella ricerca empirica, il carattere sessuato dei soggetti – la distinzione tra maschi e femmine – viene considerato un elemento significativo di comprensione della realtà sociale, nel senso che consente di arricchire la descrizione e la spiegazione del variare di atteggiamenti, opinioni e comportamenti. (..) Tuttavia, a ben vedere, alle ‘differenze’ tra i due universi maschile e femminile, si può ascrivere di fatto uno scarso incremento di conoscenza e, quindi, il permanere di una sorta di opacità nella comprensione delle differenze stesse nei diversi spazi e tempi sociali e culturali. (..) Ciò che sfugge, è il dinamismo dei rapporti tra i sessi e dentro ciascun sesso, ma anche la complessità dell’intreccio tra formazione e ambiti diversi ma oltremodo collegati, come il mondo del lavoro «un improvvido isolamento del campo formativo dagli altri ambiti esperienziali che contribuiscono alla formazione degli individui» (Boffo-Gagliardi-La Mendola)”. Con ciò – prosegue E. Besozzi - “si intende qui considerare la dimensione sessuata dei soggetti non solo come pura iscrizione, bensì come esperienza e attribuzione di senso, costruzione e comunicazione di realtà. «In questa prospettiva, l’appartenenza di genere trasforma il dato ascritto e può anche essere considerata in larga misura variabile ‘dipendente’, cioè dimensione sulla quale insistono fattori sociali e culturali a dar conto di orientamenti e concezioni di sé e della realtà» (V. Burr)”. Sta di fatto che possiamo considerarla una sorta di ‘costruzione sociale dinamica’ cui riferire ogni forma di rapporto, quali ad esempio, quello che si basa sull’organizzazione della famiglia, l’educazione nelle scuole, le politiche del lavoro, le iniziative che riguardano la cultura, come anche la ‘non discriminazione’ di razza, di colore, di sesso, l’abbassamento dei rischi sociali, il recupero di consapevolezza, l’accettazione delle commistioni sessuali, fino alla risoluzione dei conflitti extra individuali tra popoli e tra stati. Per così dire, di tutte quelle differenze che l’identificazione di ‘genere’ vede incluse come diversificate immagini del ‘sé’ nel futuro confronto con le altrui esperienze, con le vicissitudini del quotidiano, con le relazioni interpersonali, comunitarie e socialitarie. Quelle medesime che dovrebbero offrire ad ognuno, uomini e donne, le risorse per comprendersi, nella condivisione di quel percorso che va dal rispetto ecologico sostenibile dell’habitat, alla costruzione della propria ‘identità culturale’ che risulta in larga misura opaca, perché priva dei necessari elementi significativi di spiegazione, e che finora non a riguardato, in alcun modo, il lato educativo della conoscenza. Come sostiene Barbara Marbelli (21) in “Il divenire donna o uomo, non è un processo lineare. La vicenda tra i sessi, dato che è vicenda di culture e di vite, è soprattutto educativa, per questo una pratica pedagogica che offra ‘ascolto’ e restituisca centralità alle ‘parole’ (e quindi alle persone), è l’unica che possa offrire possibilità di comprensione di quel che accade e cambia”. Valutare ciò consente una maggiore chiarezza cognitiva che va man mano ampliandosi nel tipo di informazioni e di linguaggio a vantaggio della comprensione e ottimizzazione degli strumenti messi in campo come, appunto, può essere la riutilizzazione del sapere (conoscenza), sia in senso trasversale interdisciplinare (esperienza), sia in senso verticale, di una qualsiasi struttura aziendale, tra l’apice e il pedice di ogni comparto sociale, interessato all’interscambio delle esperienze specifiche acquisite dall’uno e dall’altro sesso. Come, anche, di una maggiore capacità di ‘stima’ delle disponibilità oggettive delle ‘risorse’, in ambito lavorativo, delle dinamiche produttive, nella misura in cui se ne colgono le funzioni possibilistiche in termini di essenzialità, trasferibilità, spendibilità sul mercato. Ne sono un esempio la conoscenza delle prevedibilità comportamentali dei diversi soggetti uomo/donna, basata sul riscontro oggettivo, delle ‘mappe concettuali’ (22) e le strategie comunicative messe in atto dall’uno e dall’altro soggetto, nella ricerca di una ‘misura’ individuale e professionale, nella ricca pluralità di offerte che li vede impegnati nella rincorsa all’adesione programmatica della società: funzionalista o sistemica, o conflittualistica che sia. C’è in tutto questo una sorta di ‘consapevolezza sociologica’ che talvolta supera il livello reale delle ‘possibilità individuali’, che s’innesca nell’impalpabile e nell’astrazione, e che genera teorie se vogliamo anche affascinanti, ma non scientifiche, perché non verificabili con i dati della realtà. Cosa questa, che mi fa dire che, ogni ‘costruzione sociale’ corrispondente della realtà, equivale a un fare speculativo che è tipico della politica, per cui la ‘costruzione’ della realtà trova nel sociale il suo innesco politico nelle istituzioni e negli ordinamenti giuridici. Questo, malgrado la sociologia abbia da sempre speculato sull’esistenza di una vita sociale distinta dal sistema politico, caratterizzata da opinioni, stili di vita, tradizioni, norme sociali che – secondo il mio modesto parere – non si autoescludono dall’essere forme politiche tout-court. Semmai la confusione tra politica e società è generata dal fatto che la società è una realtà diversa rispetto ai singoli individui che la costituiscono e non è riducibile a ciò che i singoli membri pensano e fanno. Diversamente la politica è esattamente l’opposto. Scrive Luciano Verdone (23): “La società ha una consistenza propria rispetto agli individui. Una volta che un gruppo sociale si costituisce, vive di vita autonoma, dando luogo a un ‘sistema sociale’, cioè ad una realtà che va al di là della volontà e delle intenzioni dei singoli, con una sua propria identità ‘diversa’ dalla somma degli individui che lo formano”. Possiamo dire, quindi, che è di per sé una ‘cosa’, un ‘fatto’ che, nel momento in cui interagisce con altri ‘gruppi’ in maniera oggettiva (concretezza), diventa interfaccia della ‘realtà’ facente politica ed ha potere di condizionare i singoli per il fatto stesso che esiste. Come del resto l’aveva già inquadrata Émile Durkheim (24), secondo il quale i processi di crescita e di socializzazione non possono prescindere dal contesto di riferimento in cui avvengono. Questo vale in ogni tempo e in ogni luogo, per cui la ‘realtà sociale’ si definisce in base a tre caratteri costitutivi: “oggettività come ‘fatto’ e come tale distinto dai soggetti che concorrono a crearlo”; “trans-individualità: esterna e indipendente dagli individui”; “coercizione: condizionante l’individuo sia dall’esterno, con norme e usanze, sia dall’interno, con l’interiorizzazione delle norme, la coscienza ed il senso di colpa” (esistenza in essere, oggettività). A significare che esiste una stretta correlazione tra la vita del singolo individuo e il contesto sociale in cui è inserito, rapportato alle dinamiche della realtà sociale, considerata come qualcosa che vive a sé, ma che si comporta e si trasforma secondo regole date dalla società in cui si trova ad agire. La ‘fenomenologia del lavoro’ nella sua pur ricca pluralità dei contributi che su di essa convergono, sembra prevedere una certa comunanza di ‘oggetto’ e di ‘metodo’ che pur vede implicate scienze psico-sociali quali sociologia, psicologia, antropologia culturale, etologia, storia, economia, scienza della politica, non esclude però il paradosso dell’ ‘autonomia individuale’ all’interno del ‘soggetto di genere’ come quello qui individuato, la cui realtà sociale è studiato da angolature e con obiettivi ed accentuazioni diverse. Ne fanno bensì una sorta di ‘costruzione dinamica’ che le convalida tutte nella propria funzione, nel proprio impegno come nella responsabilità dei propri metodi intuitivi, in cui teoria e ricerca infine risultano coniugate. La verificabilità e la dimostrabilità delle ipotesi e delle teorie scientifiche di riferimento al lavoro è dunque frutto di verifiche sperimentali ma, ancor più, di indagini ‘sul campo’ svolte sul confronto tra momenti diversi delle attività lavorative e delle diverse tipologie di società che si vuole indagare, attraverso il ‘metodo della comparazione’ (25), o nella ricerca matematica delle ‘frequenze di tendenza’ (26) di un certo comportamento sociale. Il suo contesto culturale (sociologico) è dunque di tipo omogeneo di una società intesa come ‘unità’ organica ed armonicamente ordinata cui fa riferimento. Per cui, alla fin fine, “ogni realtà sociale può essere ricondotta ad un individuo che agisce” (Weber), per comprendere la quale (realtà sociale), è necessario interpretare l’intenzionalità dell’individuo ‘agente’ e ‘comprendente’ la consistenza della società in cui vive e lavora. Se Auguste Comte (27) è considerato il padre della scienza sociale, in quanto ha avuto la fortuna di coniare il termine ‘sociologia’ e dobbiamo a E. Durkheim l’oggettivazione della decisione consapevole degli individui di stare insieme nella realtà sociale (contratto sociale); è a Max Weber (28) che dobbiamo l’aver indicato la realtà sociale nell’ ‘agire’, o meglio, nel “l’individuo agente avente una certa intenzionalità”, portatore del senso delle cose, “con le sue azioni aventi significato sociale, che agisce socialmente attraverso l’interpretazione dei significati intenzionali dell’agire sociale dei singoli” e per questo ‘comprendente’ la realtà sociale dei molti, come ‘genere’ dinamico operante nella costruzione sociale. Giunti a questo punto, potremmo dire di ‘essere alle solite’, i cosiddetti ‘problemi’ che sono stati appena individuati, sono tutti ancora qui davanti a noi: il riconoscimento, l’uguaglianza, la giustizia sociale, la libertà, l’autorità individuale, i diritti delle donne. E allora, che fare? Non mi resta che cercare ancora, documentarmi, relazionarmi, leggere, studiare i classici del ‘pensiero libero’ moderno, per trovare quelle risposte che forse troverò ma che alla fin fine potrebbero restare sospese in aria come le nuvole di Aristofane. Sebbene l’utopia del grande poeta satirico è all’apice della commedia “Le donne al parlamento” (29) in cui si narra di un gruppo di donne, con a capo Prassagora, che decidono di tentare di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio di loro, che stanno invece portando la città alla rovina. Il che contrasta con l’altro poeta satirico Giovenale (30)che in “Contro le donne”, si trasforma in rabbioso fustigatore di costumi, tralasciando una certa attitudine superba negli uomini di farsi beffe della morale. È così che (per mia fortuna) scartabellando mi imbatto in Bertrand Russell (31), in cui il filosofo dibatte sull’etica individuale e l’etica sociale, affrontando il tema del rapporto tra le libertà del singolo e la necessità di un’organizzazione sociale, dove egli afferma che “troppa poca libertà porta al ristagno e troppa libertà porta al caos” e dove inoltre sottolinea i limiti della giustizia: “c’è giustizia dove tutti sono egualmente poveri, così come là dove sono egualmente ricchi, ma sarebbe vano rendere più poveri i ricchi, ove questo non servisse a rendere più ricchi i poveri”. Non c’è che dire, utile da far comprendere a più d’un politico, che ai nostri giorni si riempie la bocca riproponendo le ‘quote rosa’ e ‘le pari opportunità’ pensando che queste, possano da sole, risolvere la profonda recessione culturale economica e politica in atto. Ci vuole ben altro, e a furia di cercare, qualcosa alla fine viene sempre fuori. Come nel caso di un libercolo dal titolo “Sui diritti delle donne” di Mary Wollstonecraft (32) che mi fa gridare ‘eureka!’. Fortemente avversata dagli uomini in un momento storico, il XVIII sec., nel quale si tende a dimenticare quanto lunga sia stata la ‘schiavitù’ femminile, e quanto dura e difficile sia stata la via per l’emancipazione delle donne, e ancor più incompresa dalle donne della sua epoca, M. Wollstonecraft è oggi finalmente considerata per il suo ruolo intellettuale e anticonformista, sostenitrice caparbia dei diritti delle donne e tenace nemica di ogni forma di iniquità, dispotismo e oppressione. È ancora oggi stupefacente leggere in apice al suo libro: “Al fine di dar conto e giustificare la tirannia dell’uomo, sono state avanzate molte idee ingegnose volte a dimostrare che i due sessi, nel raggiungimento della virtù, devono impegnarsi a forgiare caratteri differenti; per dirla in modo più esplicito, alle donne non è accordata forza d’animo sufficiente per acquisire ciò che veramente merita il nome di virtù. Tuttavia, concesso che le donne abbiano un’anima, sembrerebbe esserci un unico sentiero, tracciato dalla provvidenza, che conduce l’umanità sia alla virtù che alla felicità” (33), quasi si volesse qui dire di essere pronta, se proprio l’uomo lo richiede, a recitare una parte. Alla quale sembra però voler rispondere Vivien Burr (34) con la dolente nota: “Così facendo (la donna), ha modo di comprendere che il suo stato mentale, le sue attitudini e aspettative, in breve la sua visione della vita, altresì possono essere modificate assumendo un ruolo diverso – e pur tuttavia – esercitare un ruolo è molto più che recitare una parte”. Non lo pensate anche voi? È così che sono giunta a Luce Irigaray (35) e al suo libro “Etica della differenza di genere”, la quale al capitolo ‘Una differenza trascurata’, procede: “Vi è una relazione particolarmente costante tra femminilità e vita pulsionale, che non voglio trascurare. Nella donna la repressione – o la censura? – dell’aggressività, prescrittale dalla sua costituzione – cioè? – e impostale dalla società – quale , in che modo? - … Insomma non ci sarebbe nessuna forma d’aggressività consentita alla donna. Ma, di nuovo, la mobilitazione d’argomenti così eterogenei, come ‘la società’ e ‘la sua costituzione’ , induce a indagare su come l’una, la società, detti prescrizioni alla rappresentazione, sull’interesse che l’una ha nel farsi di supporto, la complice d’una valutazione sulla ‘costituzione’ (proibitiva) femminile”.
NOTE
(1) Umberto Galimberti, ‘L’ospite inquietante’, op.cit. (2) ibidem (3) ibidem
(4)‘transnazionale’, è un diverso modo per indicare multinazionale. Entrambi indicano un interesse (economico, sociale ecc.) di un gruppo (di società, di persone, di associazioni) che opera in molte nazioni e continenti. Il gruppo può anche avere una sede operativa, un “cuore” in una sola nazione ma senza che vi siano per questo precise identità nazionali. Nelle politiche sociali dell'Unione Europea con l'aggettivo transnazionale si indicano i programmi che sono realizzati con la partecipazione di diversi stati appartenenti all'Unione Europea. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.
(5)‘fordista’, da ‘fordismo’, l’attuazione pratica in campo industriale dell’intuizione taylorista di Henry Ford (1863-1947), industriale americano attivo nei sttori automobilistico, aerospaziale, elettronico e finanziario, che standardizzò la catena di montaggio a Detroit nel 1927, e lanciò il primo modello di vettura utilitaria. Cfr. “L’Universale” – Garzanti 2003.
(6)‘era industriale’, profondo e rapido cambiamento nella vita economica che si verificò in Europa con l'affermazione dell'industria quale settore più dinamico e, infine, dominante. Si tratta, dunque, della fase di avvio o decollo dell'industrializzazione. L'epoca di questo cambiamento iniziò verso il 1780 e si concluse con i primi decenni (e secondo alcuni i primi anni) dell'Ottocento. Dall'Inghilterra questa grande trasformazione si propagò a tutte le economie del continente: al Belgio, alla Francia, alla Germania, all'Italia, alla Russia. L'aspetto distintivo di questa rivoluzione è costituito dal rapido aumento della capacità produttiva grazie all'introduzione nei processi lavorativi di tecniche sempre più perfezionate ed efficienti. Proprio in ciò sta la differenza fra la vita economica che procedette la rivoluzione industriale e quella che la seguì. Prima la crescita della popolazione cozzava, a lungo andare, nel tetto dei limitati beni economici a disposizione, più o meno stabili a causa del lentissimo aumento della produttività. Sarebbe un errore, tuttavia, concentrare l'attenzione solo sul quadro inglese. In realtà si trattò di un fuoco che dal luogo dove all'inizio era divampato si propagò rapidamente a gran parte dell'Europa. Condizioni favorevoli dovevano, perciò, esistere anche fuori dell'Inghilterra. La rivoluzione industriale fu figlia di una lunga serie di cambiamenti intervenuti nell'economia e nella società europea a partire dai secoli centrali del Medioevo: lenti progressi nell'agricoltura, più rapidi cambiamenti nell'industria, allargamento delle relazioni commerciali all'interno e fuori del continente, attenzione crescente al problema delle soluzioni tecniche nelle attività economiche. Quella dell'industrializzazione fu solo la fase in cui tante trasformazioni quantitative lente provocarono un vero salto di qualità. Cfr. in T.S. Ashton, “La rivoluzione industriale” 17601830, Laterza, Bari 1969; P. Deane, “La prima rivoluzione industriale”, Il Mulino, Bologna 1971.
(7)Zigmunt Baumann, “Società liquida”, op. cit.
(8)‘governance’ equivalente di ‘governanza’, si intende quella parte del più ampio governo d'impresa che si occupa della gestione dei sistemi cosiddetti ‘ TI’ (ossia di Tecnologia dell'Informazione) in azienda; il punto di vista della IT governance è rivolto alla gestione dei rischi informatici e all’allineamento dei sistemi alle finalità dell'attività. Il governo d'impresa si è molto sviluppato in seguito ai recenti sviluppi normativi che hanno avuto notevoli ripercussioni anche sulla gestione dei sistemi informativi. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.
(9)F. Trompenaars e C. Hampden-Turner, “Riding the waves of culture”, N. Brealey Pub. – London 1998.
(10)ibidem
(11)‘cooperazione internazionale’, “La cooperazione internazionale allo sviluppo è tante cose. C’è la cooperazione dei governi (bilaterale) e quella dei grandi organismi internazionali come l’ONU (multilaterale). E c’è quella non governativa, promossa dalle ong o più recentemente dagli enti locali e da nuove forme di associazionismo. Tutte si confrontano su cosa sia lo sviluppo e su come si possa promuovere efficacemente. Perché ormai sessant’anni di cooperazione internazionale hanno mostrato che gli aiuti, da soli, servono a poco. Per non essere dannosi, vanno accompagnati da un reale radicamento nelle comunità locali. (..) La nascita della cooperazione internazionale allo sviluppo è fatta risalire alla metà del secolo scorso con il Piano Marshall. Si tratta del grande ponte di aiuti umanitari e finanziari che dopo la seconda guerra mondiale supporta la ricostruzione dell’Europa occidentale, segnandone al contempo fedeltà e dipendenza verso gli Stati Uniti d’America. Analogamente si comporta l’Unione Sovietica coi paesi del Patto di Varsavia, e ben presto molti stati di entrambi i blocchi si dotano di un proprio sistema di aiuti al “terzo mondo”. Nasce così la cooperazione bilaterale, cioè quel sistema di relazioni create tra le autorità centrali di due paesi dove uno, il “donatore”, aiuta l’altro, il “beneficiario”, trasferendogli soldi, beni o conoscenze tecniche attraverso un dono oppure un credito agevolato”. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.
(12) E. Invernizzi, “La comunicazione organizzativa: teorie, modelli e metodi”, Giuffré Edit. 2000.
(13) F. Casmir, “Una prospettiva di comunicazione interculturale”, in “Comunicazione globale, democrazia, sovranità, culture” – UTET 2001.
(14) Amarthia Sen, in Wikipedia, the free enciclopedia – economista indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998, Lamont University Professor presso la Harvard University. Ha insegnato in numerose e prestigiose università tra le quali Harvard, Oxford e Cambridge. È stato, inoltre, docente presso la London School of Economics. È membro del Gruppo Spinelli per il rilancio dell'integrazione europea.
(15) Edoado Greblo, in M. Nussbaum “Giustizia poetica: immaginazione letteraria e vita civile” – Mimesis 2012.
(16) Antony Giddens, “Teoria sociale e sociologia moderna”, op. cit.
(17) Z. Bauman, “The Individualized Society” - op. cit.
(18) Z. Bauman, “Intervista sull’identità”, op. cit. (19) ibidem
(20) Elena Besozzi, “Il genere come risorsa comunicativa”, Franco Angeli 2008. Insegna Sociologia dell’Educazione e Sociologia dei processi formativi e comunicativi presso l’Università Cattolica di Milano. Tra le sue opere: ‘Crescere tra appartenenze e diversità’ (Angeli 1999) ed ha partecipato con articoli in “Creare Comunicazione”.
(21) Barbara Marbelli, docente di ‘Pedagogia delle Differenze di Genere’ all’Università Bicocca di Milano: Il "Centro Studi differenza sessuale, educazione, formazione", istituito nel 2010 e ora attivo presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia, Psicologia, ha finalità di ricerca, documentazione, progettazione e formazione nei diversi ambiti dell'educazione, dell'istruzione scolastica e superiore, della produzione culturale e del ‘lifelong-learning’, nella prospettiva della differenza di essere donna/uomo intesa come differenza fondante e significante ogni esperienza umana, storica e sociale. In particolare il Centro ha come obiettivi: * incrementare la consapevolezza della non neutralità della conoscenza scientifica, la coscienza del valore della differenza sessuale (e delle differenze) nel far ricerca, nel produrre pensiero, nel partecipare alla creazione e alla circolazione di saperi e di competenze; * creare occasioni di scambio e di conoscenza nell'ambito della produzione scientifico-culturale di donne e uomini attenti alla differenza sessuale e ai suoi liberi significati; * rappresentare un punto di riferimento per la ricerca e la formazione di studentesse e studenti di tutti i cicli universitari; * rappresentare una risorsa di informazioni e di conoscenze per docenti e ricercatrici/ricercatori interessati alla progettazione di percorsi didattici e di ricerca che tengano conto della differenza sessuale; favorire lo sviluppo di rapporti scientifici e di collaborazione multi-e transdisciplinare tra le Università, con enti pubblici, privati, e del privato sociale, promuovere scambi con singoli e gruppi esterni di ricerca, partecipare a reti di ricerca internazionali; sviluppare, alla luce della categoria "differenza sessuale", progetti di ricerca in relazione a temi/problemi rilevanti della contemporaneità.
(22)‘mappe concettuali’, al singolare è uno strumento grafico per rappresentare informazione e conoscenza, teorizzato da Joseph Novak negli anni settanta. Non è altro che una rappresentazione grafica (un disegno schematico, un quadro riassuntivo) di un ragionamento che abbiamo fatto e che vogliamo comunicare agli altri. Le mappe servono per rappresentare in un grafico le proprie conoscenze intorno a un argomento secondo un principio cognitivo di tipo costruttivista, per cui ciascuno è autore del proprio percorso conoscitivo all'interno di un contesto, e mirano a contribuire alla realizzazione di apprendimento significativo, in grado cioè di modificare davvero le strutture cognitive del soggetto e contrapposto all'apprendimento meccanico, che si fonda sull'acquisizione mnemonica. Le teorie del prof. J. D. Novak sono infatti fortemente collegate a quelle di David Ausubel, per cui una mappa deve riuscire a trasmettere informazioni chiare e dati utili.
(23) Luciano Verdone, “Elementi di Sociologia”, op. cit.
(24) Émile Durkheim, in “Breviario di sociologia” – Casa del Libro edit. 1989. Sociologo francese, insegnò filosofia alle Università di Bordeaux e Parigi, cercò di elaborare una sociologia che costituisse non tanto una teoria generale di una realtà sociale, quanto un modello teorico di riferimento per una corretta amministrazione. La sua opera è stata cruciale nella costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell'antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale. Durkheim si richiama all'opera di Auguste Comte (sebbene consideri alcune idee comtiane eccessivamente vaghe e speculative), e può considerarsi, con Karl Marx, Vilfredo Pareto, Max Weber, Georg Simmel e Herbert Spencer, uno dei padri fondatori della moderna sociologia. È anche il fondatore della prima rivista dedicata alle scienze sociali, “L'Année Sociologique”, nel 1898.
(25)‘metodo di comparazione’ o anche ‘metodo comparativo’, il quale acccanto al ‘metodo sperimentale’ la comparazione rappresenta uno dei mezzi fondamentali di acquisizione delle conoscenze, che può essere utilizzato per illuminarci e per favorire il progresso nelle diverse scienze. Nel campo delle scienze sociali, in effetti, non è facile tentare degli esperimenti che gli interessati potrebbero non accettare o dei quali rischierebbero di fare le spese e di essere le vittime; sarà invece sempre possibile osservare come i rapporti sociali sono organizzati in posti diversi, per ricavare una lezione dai risultati, felici o meno, ottenuti.
(26) ‘frequenza di tendenza’, è utilizzata nelle discipline ambientali, in analisi matematica e di statistica; nella singolare accezione qui usata è quell’elemento di tipo omogeneo di una società intesa come ‘unità’ organica ed armonicamente ordinata per comprendere la realtà sociale.
(27) Auguste Comte, filosofo e sociologo francese, Discepolo di Henri de Saint-Simon, è generalmente considerato l'iniziatore del ‘positivismo’. Coniò il termine ‘fisica sociale’ per indicare un nuovo campo di studi. Questa definizione era però utilizzata anche da alcuni altri intellettuali suoi rivali e così, per differenziare la propria disciplina, inventò la parola ‘sociologia’. Comte considerava questo campo disciplinare come un possibile terreno di produzione di conoscenza sociale basata su prove scientifiche. Il libro che secondo la maggior parte degli storici segna l'inizio del Periodo positivista è il “Corso di Filosofia Positiva”.
(28) Max Weber, è stato un economista, sociologo, filosofo e storico tedesco. È considerato uno dei padri fondatori dello studio moderno della sociologia e della pubblica amministrazione. Personaggio influente nella politica tedesca del suo tempo, fu consigliere dei negoziatori tedeschi durante il Trattato di Versailles (1919) e della commissione incaricata di redigere la Costituzione di Weimar. Larga parte del suo lavoro di pensatore e studioso riguardò la razionalizzazione nell'ambito della sociologia della religione e della sociologia politica, ma i suoi studi diedero un contributo importante anche nel campo dell'economia. La sua opera più famosa è il saggio “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo”, con il quale iniziò le sue riflessioni sulla sociologia della religione. Weber sosteneva che la religione era una delle ragioni non esclusive per cui le culture dell'occidente e dell'oriente si sono sviluppate in maniera diversa, e sottolineava l'importanza di alcune particolari caratteristiche del Protestantesimo ascetico che portarono alla nascita del capitalismo, della burocrazia e dello stato razionale e legale nei paesi occidentali. In un'altra sua importante opera, “La politica come vocazione”, Weber definì lo Stato come "un'entità che reclama il monopolio sull'uso legittimo della forza fisica", una definizione divenuta centrale nello studio delle moderne scienze politiche in occidente. Ai suoi contributi più noti si fa spesso riferimento come "Tesi di Weber".
(29) Aristofane (450 a.C. circa – 385 a.C. circa) è stato un commediografo greco , uno dei principali esponenti della Commedia antica (l'Archaia), nonché l'unico di cui ci siano pervenute alcune opere complete.
(30) Decimo Giunio Giovenale, (Aquino, tra il 55 e il 60 – Roma, dopo il 127), è stato un poeta e retore romano. Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale. (31) Bertrand Russell, cfr. ‘Autorità e individuo’, in “Storia della filosofia occidentale” – Longanesi 1983; filosofo, logico e matematico gallese. Fu anche un autorevole esponente del movimento pacifista e un divulgatore della filosofia. In molti hanno guardato a Russell come a una sorta di profeta della vita creativa e razionale; al tempo stesso la sua posizione su molte questioni fu estremamente controversa. È generalmente considerato uno dei fondatori della filosofia analitica, fin da quando, assieme a George Edward Moore è stato protagonista della "rivoluzione contro l'idealismo" della filosofia anglosassone d'inizio Novecento (che fu echeggiata trent'anni dopo a Vienna, dalla "rivoluzione contro la metafisica" del positivismo logico). Russell e Moore hanno lottato per eliminare quello che essi ritenevano una filosofia incoerente e priva di significato e per raggiungere la chiarezza e la precisione del ragionamento. Gli scritti logici redatti assieme a Whitehead hanno continuato questo progetto. Fu, inoltre, maestro di Ludwig Wittgenstein tra il 1911 e il 1914. L'opera e il pensiero di Russell hanno influenzato i lavori di Willard Van Orman Quine, Karl Popper e molti altri. (32) Mary Wollstonecraft, “Sui diritti delle donne”, in “I classici del pensiero libero” – Corriere della Sera 2010. è stata una filosofa e scrittrice britannica, considerata la fondatrice del femminismo liberale. Visse amicizie di grandi dedizioni ed ebbe relazioni tempestose fino al matrimonio con il filosofo William Godwin, precursore dell'anarchismo, dal quale ebbe la figlia Mary, nota scrittrice e moglie del poeta Percy Bysshe Shelley. Antesignana del femminismo, è nota soprattutto per il suo libro ‘A Vindication of the Rights of Woman’ nel quale sostenne, contro la prevalente opinione del tempo, che le donne non sono inferiori per natura agli uomini, anche se la diversa educazione a loro riservata nella società le pone in una condizione di inferiorità e di subordinazione. (33)ibidem (34)Vivien Burr, “Psicologia delle differenze di genere”, op. cit.
(35)Luce Irigaray, “Speculum”, op. cit.
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