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Suggestioni tricolori

di Michele Fiorenza
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Pubblicato il 12/09/2013 15:24:21

SUGGESTIONI TRICOLORI

All’atterraggio ero stato accolto da un profumo misto di salsedine e di fiori, con mia sorpresa e un po’ di dispetto.
Non avevo accettato di buon grado quella breve trasferta di lavoro, tanto meno l’incarico del mio collega di portare quel plico allo zio lontano:
- Avrai l’auto della Società e il paese di mio zio non è lontano dalla cittadina. Inoltre potrai visitare il monumento ai caduti della battaglia.
- Quale monumento, quale battaglia?
- La prima battaglia vittoriosa che portò i Mille all’unificazione! In effetti è un monumento dimenticato, ma ti piacerà.
Così, prima di rientrare, telefonai al famoso zio, che si premurò di venirmi incontro all’ingresso del paesino. Fu di una cortesia squisita, insieme alla moglie, la quale cucinò per me un paio di tipici piatti locali. Il vino era forte e aromatico.
Mi rimaneva il monumento, in località Pianto Romano. Era un pianto per i caduti? E perché Romano?
Temevo un po’ di confusione sul posto, un certo traffico, invece nulla, soltanto un po’ di foschia: pian piano mi arrampicai con l’utilitaria a noleggio sino in cima alla collinetta, mentre la foschia, man mano che salivo, si diradava. Da lontano avevo intravisto la punta di una guglia, ma, quando arrivai, quel monumento mi parve imponente.
Parcheggio completamente libero: ero solo. Cercai con lo sguardo una baracca di souvenir, un bar, qualche visitatore: niente e nessuno.
Il monumento era chiuso, e attraverso i vetri non si notava nulla all’interno in penombra. Più in là c’era un casotto piccolo e basso con una porticina e un cartello di cartone: CUSTODE. Bussai. Silenzio.
Da quel punto iniziava un viale fiancheggiato da cipressi e in fondo c’era un arco commemorativo. Volevo quasi andarmene, ma ormai avevo una certa curiosità. Bussai di nuovo.
Mi aprì una ragazzetta bionda:
- Mio padre è andato in paese, non so quando torna.
Mi sorpresi di non avvertire nella sua voce l’accento locale.
- Vorrei vedere il monumento.
- Posso indicarle il luogo della battaglia…
- Magari!
Mi accompagnò lungo il viale, verso l’arco. Procedeva silenziosa e sorridente nel suo semplice abitino bianco. Quando giungemmo alle quattro colonne, mi indicò la scritta in alto: “Qui si fa l’ Italia o si muore”. Al di là un dirupo.
- I Garibaldini erano laggiù, in quel cascinale. All’alba vennero qui sotto e si arrampicarono, sotto il fuoco dei Borbonici, che avevano i cannoni.
- Erano mille?
- Di più: c’erano anche i “picciotti” siciliani di Marsala e di altri paesi qui vicino.
- E vinsero?
Annuì col capo:
- Molti soldati borbonici erano in effetti siciliani, temevano Garibaldi e volevano soltanto salvarsi.
- E poi?
- Poi a Palermo scoppiò la rivolta e i Borbonici furono presi tra due fuochi: fuori e dentro. Altri picciotti si unirono.
- Mi piacerebbe vedere l’interno del monumento…
Tornammo al casotto, dove la ragazza prese una grossa chiave, salì per la ripida scala in pietra e aprì.
L’interno era semplice e silenzioso, appena illuminato dall’alto. A sinistra una lapide con i nomi dei caduti, parecchie decine, tutti molto giovani.
C’erano nativi di Sicilia, ma anche di Campania, Toscana, Liguria e Lombardia… con un gran numero di Bergamaschi!
Ne rimasi turbato: che cosa si può fare per un ideale, valido o no che sia! Persino dare la vita…
Lei disse: - Erano Italiani di tutta Italia…
La guardai e notai i suoi occhi azzurri.
- Com’è che hai gli occhi azzurri?
Mi guardò perplessa:
- Mia nonna aveva gli occhi azzurri, e anche mia zia e mia cugina ce li hanno azzurri.
- Com’è che non c’è un negozio, un bar qui vicino?
Scrollò le spalle: – Non lo so, ma è meglio così: loro possono riposare meglio.
Poi mi indicò un nome sulla lapide, un giovane nativo della mia stessa provincia:
- Quello era il più giovane, il mio fidanzato…
Sorrisi a quello scherzo, poi la vidi seria e pensai che la ragazzina si fosse lasciata suggestionare dal luogo, in tanti anni, e allora tacqui.
Nell’andar via volevo darle una lauta mancia, ma lei rifiutò nettamente. Mi seguì con lo sguardo, mani in grembo, mentre mi allontanavo con l’auto. Tornai in hotel.
Ero ancora sazio dell’abbondante pranzo, quindi presi soltanto un cappuccino, seguii in TV un documentario sull’unità d’Italia, ma circoscritto alle fasi finali, poi spensi.
* * *
Con quelle dannate camicie rosse eravamo troppo in vista e gli sparuti ulivi non ci riparavano abbastanza. Soltanto l’entusiasmo ci faceva andare avanti, insieme all’incitamento del Generale, che era sempre davanti a tutti, insieme al luogotenente.
Loro non avevano paura, non avevano nessuno da perdere, mentre il mio pensiero andava sempre a quel visetto da bambina che avevo lasciato ai piedi delle Alpi.
Le palle di cannone ci sorvolavano con frequenti rombi, cadendo a valle. I fucili colpivano, sì, ma sulle camicie non si notava bene il sangue e, chi poteva, andava avanti, un albero dopo l’altro. C’erano molti liguri in prima fila e i toscani provavano a superarli. Di chi sarebbe stata la maggior gloria?
Lassù i Borbonici sparavano, ma tacevano. Noi, sparpagliati a tingere di rosso la collina, gridando “Viva l’ Italia! Viva il Re!”, dovevamo sembrare tanti diavoli arrivati direttamente dall’inferno. E i rimproveri salaci, sferzanti dei Toscanacci risuonavano tra noi come scherno.
Non importava la vita, importava il coraggio. Quando un fiorentino mi diede del moccioso, tolsi la bandiera di mano a un ferito grave e presi ad avanzare tra i fischi dei proiettili. La bandiera non può restare indietro! Il Generale mi notò e con un cenno m’invitò ad andargli vicino.
Un colpo di fucile e un salto, un altro colpo e un altro salto, ogni due colpi la ricarica, all’ombra della Bandiera. La consapevolezza di essere sempre tra la vita e la morte, il mio stesso coraggio mi esaltavano, come fossi un ubriaco, un folle in un delirio crescente: ” Italia, Re!”
Il Generale si era pian piano spostato a sinistra: proprio sopra di noi un codardo Borbone armava il cannone e sparava senza convinzione. Chi avrebbe potuto fermare i Diavoli Rossi?
Affiancai il Generale e mi sentii un eroe. Nella mia mente la mia ragazza bionda, ora più grande, ora orgogliosa, ora pronta a generare figli Italiani, mi sorrideva… Pochi metri dal cannone, potevo prenderlo. Il Generale sussurrava: “Piano, prudenza, aspetta gli altri, ci siamo quasi.”
Io vedevo soltanto quel cannone, una preda a portata di mano, e il mio fucile era carico: sparai un colpo a un Borbone, l’altro all’altro e saltai su, bandiera alta, gridando: “Viva l’ Italia!”
Mi voltai a destra e… due, tre, dieci fucili nemici spararono!
* * *
Mi svegliai. Dalle persiane filtrava l’aurora e io ero sudato. Bevvi un bicchiere d’acqua minerale per ripulire lo stomaco dagli ultimi residui. Feci una doccia, mi sbarbai, scesi, pagai e salutai.
Come si chiamava il fidanzato della biondina? Certo non come me. Però avevo un paio di domande da porle.
Mi arrampicai per la collinetta di Pianto Romano nella consueta solitudine dei campi, giunsi alla base del monumento e parcheggiai. L’anziano custode mi venne incontro. Dopo qualche laconico convenevole, elogiai la sua figliola per le spiegazioni del pomeriggio precedente, vedendolo stupirsi:
- Io non ho una figlia.
Sbalordii a mia volta:
- Era qui, biondina con gli occhi azzurri, quindici o sedici anni…
Lo vidi commuoversi:
- Avrebbe avuto quest’età, se non fosse morta dieci anni fa per una meningite… Anch’io la sogno ancora, durante i miei pisolini pomeridiani!
Tacqui, dubitai, ripensai al mio sogno, mi confusi, poi gli chiesi di rivedere l’interno del monumento. Aprì, mi voltai subito verso la lapide affissa, rilessi il nome del “fidanzato”, poi la data di nascita: appena diciottenne, indubbiamente il più giovane.
Ringraziai, girai lo sguardo intorno, poi andai via. Dopo la prima curva mi accorsi che dal limite del piazzale superiore, sopra l’erba verde si intravedeva un abitino bianco, indossato da una ragazzetta che sventolava un fazzoletto rosso.

F i n e

Michele Fiorenza


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