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Il senso

di Elisa Mazzieri
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Pubblicato il 05/01/2015 00:23:25

C’era traffico stasera, come sempre, ma stasera che importa. Ferma al semaforo abbassa lo specchietto e si scruta, occhiaie profonde e una ruga nuova all’angolo delle labbra, tira una lunga boccata dalla sigaretta ormai alla fine e la getta fuori dal finestrino. La città è già tanto sporca, un mozzicone in più, considera, che importa. Davanti al locale c’è la solita calca di gente e macchine, a cercare parcheggio neanche ci prova, lascia la sua in doppia fila, accosta lo specchietto e si avvicina all’entrata. Sulla soglia c’è uno più sdraiato che seduto, quasi ci inciampa, una volta avrebbe avuto l’istinto di sferrargli un calcio, ora no, lo attraversa e tira dritta al bancone.

“Ciao”

“Ciao bella, che ti do?”

“Whiskey”

“Intero?”

“Doppio”

Si guarda intorno. A percorrere tutto il locale ci vuole poco, a tratti lo sguardo si incaglia su qualcuno, pochi secondi e la corsa riprende, uno, due, tre giri del locale ma lui non c’è, che importa, arriverà, più tardi arriverà. L’aria intorno è densa di fumo e umida di pioggia.

 Quel pomeriggio è uscita prima dal lavoro e si è messa a passeggiare sotto l’acqua, la prima dopo un’estate torrida. Ha camminato per le vie dietro l’ufficio, spiando nelle vetrine dei negozi angoli di altre vite. La zona dove lavora è abitata soprattutto da persone anziane, le stradine là intorno sono ammassate di mercerie e negozi di casalinghi, le proprietarie sono tutte donne e tutte nonne, dentro  ogni negozio un passeggino, una carrozzina. Ha spiato i rimasugli di quella quotidianità e il solito dolore l’ha invasa. Il solito struggimento che si fa incontenibile nel crepuscolo e si placa solo dopo, con il buio e un certo numero di whiskey. Ha provato a chiamarlo più volte, oggi, per dirgli che era uscita prima e che potevano vedersi a casa direttamente. Lui non ha risposto, non era raggiungibile, come troppe altre volte. Avrebbe voluto dirgli che era stanca, tanto stanca e che lo sarebbe stata sempre di più, che non c’era molto tempo, qualche mese le avevano detto, sei, forse otto, ma lei non si sarebbe accanita, quindi, forse anche meno. Avrebbe voluto dirglielo guardandolo fisso e dirgli ancora che averlo incontrato era stata una ricchezza e quei mesi, quei pochi che restavano… su questo non aveva ancora deciso. Aveva ripensato più volte, lei stessa non sapeva che desiderare né se desiderare avesse ancora senso. Aveva anche paura di quello che lui avrebbe potuto dirle, risponderle col suo solito cinismo per soffocare il dolore e forse lei non avrebbe retto stavolta. Restava soltanto che al telefono non aveva risposto e al locale non si faceva vedere e lei era già al  terzo whiskey.

 

Il cielo fuori ora è nero e compatto e quella morsa allo stomaco si è sciolta nell’alcol. Ancora lo sguardo percorre il locale, si ferma sulla porta. Lui sta entrando, cammina girato di lato e parla col suo amico, non l’ha ancora vista. Lei vorrebbe dirgli tutto quello che si è preparata ma le parole si incastrano in gola. Esce solo un “non è possibile che non ti si riesce a telefonare mai, mi sono stancata, non ne posso più!”

“Stai calma piccola! Hai bevuto?”

“Non abbastanza per sopportarti!”

Il suo amico si mette in mezzo e la cosa finisce lì.

 

Più tardi staranno per litigare ancora perché lui le dirà che non tornerà da lei stanotte. Lei gli griderà in faccia che la sua casa non è un albergo e si odierà nel sentirselo dire. Avrà ancora quella sensazione che le parole le siano uscite di bocca senza controllo, darà la colpa all’alcol senza esserne convinta. Comincerà a detestarsi per quel suo bisogno di voler rimettere le cose a posto, una volta ancora, come se fosse lei a sbagliare. Lui non ci farà caso, avrà solo un moto di fastidio per quel suo insistere e berranno ancora, fino alla chiusura, come sempre. L’ultimo bicchiere in plastica, fuori, sotto la pioggia sottile di ottobre. Si baceranno.

“Hai lo sguardo della morte” le dirà lui.

“Lo so, ci siamo trovati per questo no?... vieni da me?”

“Non posso”

“Perché?”

Silenzio. Silenzio e un ultimo sorso. Ora è abbastanza ubriaca per sopportare. Ora non ha più importanza. Lui l’accompagnerà alla macchina e lei gli dirà ancora qualcosa sulla sua voglia di mare e di caldo, ora che sta per iniziare l’inverno, sì, soprattutto ora e che potrebbero andare da qualche parte dove sta per iniziare l’estate. Lui le dirà che non può. Lei potrebbe, ora, sbattergli in faccia quella verità inevitabile, ottenere da lui tutti i sì che non ha avuto, ma non lo farà, ora ha deciso, non gli dirà niente. Lo bacerà a lungo e salirà in macchina.

Lui la guarderà andare via, la macchia scura mescolarsi all’asfalto e svanire. Aspetterà un po’ e la chiamerà. Lei a casa sentirà il telefono squillare, lontano, ovattato. Non ha la forza per rispondere. Potrebbe essere lui. Importa, ora?

Allora lui salirà sulla moto e andrà da lei. Non è mai accaduto. Che lei non risponda, che lei non aggiusti, credeva fosse lì per questo, come sua madre. Sputa. La saliva resta attaccata un attimo sul casco prima di mischiarsi con la pioggia. Si ricorda di una sera, qualche settimana prima. Era tornato da lei in piena notte, come adesso, dopo averle detto che non poteva  e quella volta sulla moto aveva pianto.

“Ho pianto venendo qui” le aveva detto.

“Per cosa?”

“Per me.”

Quella sera aveva ripensato alle richieste di lei scivolate sempre più nei silenzi e aveva considerato che la sua casa era calda. Lo aveva detto più volte quella notte, che era una casa calda e che lui aveva sempre vissuto in case freddissime. Lei continuava a sorridergli accarezzandolo, ma aveva gli occhi tristi e si era lasciata prendere senza voglia.  Era stata la prima volta, in tanti anni. Lui si era sentito invadere dalla paura di perderla, all’improvviso. Si era ripromesso che le cose sarebbero cambiate e lo aveva detto anche a lei. Lei non gli aveva creduto, o forse sì, ma le cose non erano cambiate. Va da lei e ripensa a quella sera, al suo sguardo nero, a lei che sembrava nuotare in un pozzo. Ha un morso di paura e accelera.

 

La casa è immobile, l’aria densa come un sogno alla morfina. La chiama, non risponde. Accende una luce, un’altra, la vede nel letto, voltata di fianco, solo i capelli e una mano fuori dalle coperte. Si avvicina, si inginocchia dal suo lato e la chiama ancora. Niente. Le prende il viso tra le mani e la bacia. Le prende la mano e la porta alle labbra, è gelida. La chiama di nuovo, la stringe. Lei non si muove, le coperte non si muovono, la sua mano scivola a terra. Nell’altra stringe la foto di una bambina che sorride. Ci sono due date. Una è quella di oggi, l’altra qualche giorno prima di molti anni fa. Cerca in testa fra la giostra dell’alcol. Non ha mai ricordato i suoi compleanni, neanche l’ultimo.


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