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Il plotone di esecuzione

di Luciano Rossi
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Pubblicato il 06/06/2021 14:54:18

 

 

Quel giorno lontano, quando fece parte, per la prima e unica volta, di un plotone d’esecuzione, Andrea, pochi istanti prima della scarica fatale, si chiese cosa pensasse il condannato in quel momento.
“Mi stai fucilando? Come può farlo, Andrea, amico mio?”. Ecco cosa stava pensando di sicuro Vanni Autieri, legato alla sua sedia, sguardo al muro.
Andrea, il suo migliore amico, aveva chiesto invano d’essere esentato da quel compito. Inutilmente. Non lo avevano nemmeno ascoltato. E ora era lì e tremava da capo a piedi inginocchiato in prima fila.
Né voleva proprio vederlo, il condannato, nella nuca o nella schiena. Così continuò a guardare, per quei lunghi attimi, solo i piedi della sedia a cui lo avevano legato. E si chiese se gli altri invece, il Vanni, lo guardassero tranquilli; gli altri, che lo conoscevano tutti come lui.
Poi per un attimo, ma un attimo appena perché la cosa era troppo orribile, Andrea si chiese come ci si deve sentire quando tutto quel piombo ti arriva dentro. Fra poco lo avrebbe saputo.

 


Nei giorni che seguirono si disse che non avrebbe più voluto ricordare quel momento.
Non voleva che questo dolore s’aggiungesse all’altro, che pure non trovava requie da mesi e solo lui sapeva. Lui che, quella strage di venti compagni, avrebbe potuto con più coraggio forse evitarla. Non era forse più colpevole di Vanni? Ma la sua responsabilità non era mai venuta fuori. Lui, per quella colpa, non aveva mai pagato: era rimasta una cosa solo sua, archiviata dentro di lui a doppia mandata, a far del danno.
Solo con la fine della guerra il dolore per quelle cose, non avrebbe saputo dire come, Andrea finì per dimenticarlo. Ma il dolore non si scordò di lui.

 


Avevamo fatto la Resistenza entrambi, anche se in due diverse vallate.
Dev’essere per questo che Andrea, il mio nuovo paziente, mi aiutò, senza volere, a mettere a nudo, per non dir di peggio, anche il mio cuore di psichiatra e a scriverne qualcosa. E così, pur sapendo, con Allan Poe, che scrivere di un “cuore messo a nudo” era impossibile e che nessuno oserebbe farlo o, ancora, che nessuno saprebbe scriverne se osasse, io ho immaginato di poterlo fare.
Ah, medice, cura te ipsum. Stefano, cura te stesso, prima ancora di curare lui!

 


Andrea mi aveva cercato un po’ di giorni prima. Non stava bene. Mi disse che da un po’ si svegliava quasi ogni notte in soprassalto, con un urlo soffocato – fucilate anche me! – e si ritrovava madido di sudore. Dopo di che si sentiva spossato tutto il giorno.
Occorre dire che lo avevo già incontrato una volta. Era stato l’anno prima, il nove maggio del ’45, il giorno della sfilata. Era un colosso, biondo e alto, e il lontano tormento in quei giorni pareva non lo toccasse più. I ricordi, per affiorare, hanno bisogno di silenzio. Per far tornare i tormenti, le mitraglie devono tacere. È allora, quando tutto tace, che non ce la fai più.
E anche quel colosso ora non ce la faceva più; aveva le gambe d’argilla. Il viso era pallido, gli occhi allarmati. Emanava da lui una pena angosciosa, alla quale la mia anima, credo, fece subito eco. Fu come una folgorazione: anch'io avevo ferite simili. Se si fosse fermato da me per anni, avrei fatto l’analisi a me stesso. Era, il mio, un disagio molteplice: diffuso come uno sciame che rannuvola l’aria settembrina, profondo come le mie radici, confuso come le parole che gli dissi. L’attaccapanni, la borsa, (posala pure lì), e un gesto senza parole che indicava la sedia su cui poteva sedersi. La mano che gli diedi, l’altra sulla maniglia, quella che mi diede lui, enorme, calda, sudata, i pochi passi per raggiungere la sedia.
Poi abbiamo cominciato.
E siamo andati avanti per due anni, fino a quando, improvviso, mi lasciò.

Non lo rividi mai più. Ebbi notizie, molti anni dopo, della sua morte dal giornale. Andrea si era sparato un colpo in testa nel suo studio di notaio. Le anime belle non reggono a certe cose. Per loro, ci sono fatti che restano sepolti per anni, ma poi chiedono il conto. Anche se Vanni Auteri aveva abbandonato il suo posto in combattimento per paura, lasciando scoperto il fianco dei compagni e meritasse così il plotone d’esecuzione, ecco… aver colpito a morte il suo migliore amico fu un ricordo che non lo abbandonò.
Quanto a me spero soltanto che mi avesse abbandonato per un altro psichiatra. Mi auguro che, dopo la nostra, breve, avesse fatto una seconda lunga analisi.
Di non essere, insomma, il solo responsabile del fallimento di una cura.

 

 


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