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La futile arte della dimenticanza

di Samuela Cittadini
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Pubblicato il 01/07/2021 16:01:17

La futile arte della dimenticanza



C’era questo balcone all’angolo nord-ovest della piazza, una sobria appendice anonima di Palazzo Sforza-Cesarini. Era nero e striminzito, in un ferro battuto dell’epoca; ci ero passata sotto migliaia di volte senza vederlo fino a quando, un giorno, avevo deciso di leggere Una donna[1] di Sibilla Aleramo.
Avevo scoperto anni prima, per puro caso e con offeso sconcerto, che la scrittrice era vissuta nella mia città. Che nella mia città si erano consumati i fatti più dolorosi della sua esistenza; fatti che avevano compiuto la metamorfosi da Rina in Sibilla. 
Ero offesa e sconcertata perché non potevo dimenticare l’interminabile noia di certe letture, tributo necessario e passivo per conservare il diritto di sedere sui banchi del ginnasio e guadagnarmi l’occupazione di quelli del liceo, dove sarebbero arrivati i grandi romanzi, il romanticismo, gli scrittori più amati d’Europa e nessuno mai, neanche una volta, aveva nominato Sibilla Aleramo. Perché?
La mia non era una città che vantasse decine di nobili natali e di artisti illustri, tanto da potersi permettere di dimenticarne qualcuno. Che cosa mai aveva fatto, lei, per essere ripagata con una tale invisibilità?  

Da questo balcone di Palazzo Sforza-Cesarini sul finire dell’estate del 1890 sua madre tentò il suicidio, salvandosi per miracolo.

E sebbene agli occhi degli estranei sarà giustificato come un incidente, l’episodio decreterà la conclamata malattia della donna, che finirà i suoi giorni in manicomio, e segnerà in modo feroce e indelebile l’adolescenza della futura scrittrice.
La cittàduzza di Mezzogiorno[2]  in cui ero giovane io non s’era ancora trasformata in una vera città eppure, durante gli ottant’anni passati, era stata tanto abile quanto la più consumata delle società nell’avvalersi, per annientare, non dell’aperto disprezzo bensì dell’arte di ignorare; agendo con una dimenticanza scientifica fino a far dubitare che Sibilla fosse mai veramente esistita.
L’avevo fatto anch’io, seppure per altre ragioni, rinviando l’incontro con la sua opera per letture ai miei sensi più urgenti. Una donna poteva aspettare.
Non potevo immaginare che aprendo quel libro sarei stata vittima di un sortilegio che, una volta stuzzicato, avrebbe fatto tornare in superficie in modo più prepotente ciò che era stato oscurato. Leggevo il suo romanzo e cercavo i luoghi in cui lei aveva vissuto. Scoprii cose che non conoscevo; la fabbrica abbandonata di bottiglie, primo esperimento di industrializzazione del luogo, dove suo padre era stato direttore. La stessa via della bottiglieria, nascosta alle strade principali e quasi dimenticata, era quella dove avevo vissuto con la mia famiglia, da bambina. E la villa protetta da un piccolo bosco di querce che vedevo dal mio terrazzino – dove avevo legato la mucca gonfiabile Carolina vinta con i punti della Invernizzi – era quella che, pur dopo svariati rifacimenti, suo padre aveva fatto costruire per sé e la sua famiglia. Anche Rina, non ancora Sibilla, ci aveva vissuto con il marito, dopo un breve esperimento romano. Quella villa, infine, era il luogo da cui era scappata per sempre, lasciando dietro di sé anche l’adorato figlio – le leggi dell’epoca impedivano che fosse affidato alla madre – e infliggendosi quella ferita che, mai cicatrizzata, avrebbe condizionato tutta la sua vita personale e artistica.
A ogni pagina scoprivo la mia città attraverso gli occhi di lei. Il ritratto spietato dei luoghi e dei protagonisti e della sua sofferenza di anima altra erano diventati la mia ossessione.
E riuscivo a comprendere, credo – ma non a giustificare – il motivo della sua messa al bando. La mia città era stata insultata dalle sue parole più di quanto lo fosse stata dalla sua condotta scandalosa. Il carattere e i modi degli abitanti erano stati da lei descritti con una tale tagliente precisione che era impossibile non riconoscere una parte di noi stessi e non sentirsi messi a nudo e oltraggiati.
Ma con le sue pagine, in realtà, Sibilla Aleramo ci aveva donato uno dei primi romanzi femministi del ‘900 portando allo scoperto, attraverso la propria storia, la condizione della donna, succube di mariti-padroni e di una legislazione svilente che le negava qualsiasi diritto civile.
Mi addormentavo con il suo libro in mano e sognavo le sue stesse parole che scorrevano dietro ai miei occhi chiusi come i titoli di coda di un film. Ma all’improvviso diventavano parole diverse; il suo racconto si trasformava impercettibilmente nel mio, o meglio, in quello del sogno che stavo facendo.
Era come se avessi spinto sulle pareti d’un tratto liquide del presente per scivolare nel suo passato e modificarlo, attraverso una sensibilità che non sapevo dove mi avrebbe portata.
Nel sogno era lei, ma ero anche io. E in definitiva era anche un’altra, una specie di risultato spirituale di noi due. Vedevo l’ufficio della bottiglieria e io – lei – giovane e moderna per i tempi, tenevo la contabilità. Il ragioniere ambizioso con cui dividevo la stanza, approfittando del fatto che fossimo soli, un giorno mi aveva spinta sul tavolo.
Poi scappò.

Rimasi immobile per qualche istante, ancora incredula e sopraffatta da un sentimento sconosciuto di mortificazione, nei confronti di quanto accaduto e di me stessa. Sentivo in modo confuso che la mia dignità e la mia fierezza, in un attimo, non mi appartenevano più.  Poi udii dei rumori nell’ufficio. Mi scossi.

La porta che era stata sbattuta su di me si riaprì piano. Era mio padre. Si immobilizzò nel vedermi mentre mi sistemavo le vesti nel silenzio scandito dalle lancette dell’orologio a muro sopra alle scrivanie. Infine parlò: “Chi?”

Era il febbraio del 1892 e avevo quindici anni e mezzo.

Ebbi paura per ciò che sarebbe potuto accadere nel momento in cui avessi pronunciato quel nome; paura per me stessa e anche per l’uomo che con la sua corte, dopo il tentato suicidio di mia madre, mi aveva aiutata a ritrovare un poco il mio sorriso. Da quando mio padre aveva assunto la direzione della bottiglieria in questa piccola cittadina di mare, era diventato un altro: severo e implacabile in fabbrica, con gli operai e a casa, con noi. Che tradiva la mamma, era stato il mio stesso violento corteggiatore a dirmelo. Forse stava cercando di attirarmi a sé, di annientare la stima che tuttavia ancora provavo per lui.

Forse aveva mire più ambigue di quelle di un qualunque innamorato, ma io ero troppo inesperta per immaginare le sue aspirazioni segrete.

Pensai invece che quell’uomo avesse cercato la via più facile, compromettermi, per sposarmi contro la temuta mancanza di consenso da parte di mio padre. E non sbagliava.
Mio padre sognava per me un’emancipazione e una libertà di pensiero che un eventuale matrimonio avrebbe solo dovuto esaltare. La cura dell’intelletto, il progettare grandi cose, e l’unione con l’altro – necessariamente subordinata all’incontro con uno spirito affine – erano gli insegnamenti di lui.

Invece in quei momenti stavo già considerando l’idea di sposare quell’uomo. Perché ormai, che alternative potevano esserci per me? Forse avrei trovato una quieta felicità nell’essere moglie, avere dei figli, essere una donna come tante altre.
Ma io non ero come le altre!

Tanti pensieri mi si affacciavano insieme, e in modo sconnesso, mentre mi sentivo pronunciare il suo nome.

Ma accadde qualcosa di inaspettato. Quel padre che si era allontanato da me e da tutta la famiglia con fredda indifferenza, si avvicinò e mi abbracciò. Parlò con una tenerezza che avevo dimenticato: “In un mondo di ignoranza e costumi primitivi, quello che è successo indica che ora niente sarà più come prima per te. Che un danno è stato compiuto. Che la riparazione è una sola. Guardami!”
Lo guardai.
“Ma appartieni a questo mondo, tu? Credi che possa essere una riparazione sposarsi con chi ti ha usato violenza? Che trovarti faccia a faccia ogni giorno con questo uomo possa essere una riparazione? O non sarebbe forse l’incubo peggiore della tua intera esistenza? Con queste premesse chi potrebbe sperare in qualche cosa di buono?”

Guardavo mio padre come in una trance ipnotica. Ogni sua parola colpiva direttamente il centro del mio essere e dipingeva davanti a me uno scenario realistico e tragico.

“No”, risposi infine. “Niente di tutto questo potrebbe essere una riparazione.”


Ora il ricordo di quei momenti sbiadisce i suoi contorni davanti a questo mare. La sua superficie brilla ai raggi del sole di mezzogiorno, increspata da impercettibili onde.
Non viviamo più in quella città.
Sono su una piccola spiaggia, è estate e presto avrò diciotto anni. A settembre frequenterò l’università di lettere, a Roma.

Mio padre fra poco chiuderà il suo ufficio alla colonia penale sulla vicina isola di fronte.
Oggi pranzeremo tutti insieme.

Mia madre, le mie sorelle e mio fratello sono a casa, la nostra casa sulla scogliera.

Io sto ad aspettarlo su questa piccola striscia di arenile, appena separata dal porticciolo da un basso promontorio di roccia calcarea.

È quasi deserto. Solo un piccolo capanno di bambù e paglia si erge verso la fine del litorale e alcune donne vestite di scuro, immerse nell’acqua fino al ginocchio, camminano avanti e indietro, chiacchierando. I loro bambini, in camiciola bianca, riempiono secchielli di sabbia, forse alle prese con la costruzione di un castello. Appena arrivata, per un attimo le donne mi hanno osservata, poi non hanno più fatto caso a me. Accovacciata sulla battigia, contemplo il verde abbagliante; al limite dell’orizzonte si scorge una grande nave.

È un mare affatto diverso da quello che conoscevo. Più morbido. Abituata a nuotare nelle acque selvagge di quella piccola città dove tutto accadde, e al senso di sfida che provavo nell’andare al largo, qui invece ho la netta sensazione che non vi sia nessuna sfida da vincere; nessun dubbio sul mio ritorno, salva, alla riva.
Qui il mare è vita, è cura. È casa.

E pure se la colonia penale, che si staglia contro la gioiosa azzurrità del cielo, è ben indovinabile con le sue massicce pareti a strapiombo e il suo inevitabile carico di umanità angustiata, la bellezza iridescente di questo luogo non ne è scalfita in alcun modo.

Indosso un abito di lino leggero che mi ha suggerito mia madre. Sorridendo lei mi ha detto: “Lo so che farai il bagno, mentre aspetti il papà. Metti qualcosa di pratico!”
L’ho guardata, sopraffatta da un sentimento d’amore che quasi mi spezzava il cuore. Non c’era più nulla di tragico in lei. La malattia odiata, di cui tutti avevamo paura, non s’era più manifestata. Qui mia madre aveva ritrovato la serenità. E mio padre, a contatto con quella moltitudine tormentata, aveva ritrovato i suoi ideali e soprattutto la sua umanità più bella.

Sfilo il vestito dalla testa e rimango in sottoveste. Slaccio i sandali, mi alzo e finalmente entro in acqua. Il mare è basso e caldo e comincio ad avanzare fino a quando non mi arriva alla vita, prendo un profondo respiro e mi immergo.

Nuoto con gli occhi ben aperti. Emergo quel che basta a riprendere fiato. Torno sotto, voglio vedere la meraviglia dei piccoli pesci che a banchi danzanti passano intorno al mio corpo. Nuoto fino alla fine della baia, dove è più profondo, eppure trasparente, e riesco a vedere il fondale appena roccioso. Il silenzio ovattato e la luce filtrata attraverso la superficie mi avvolgono con affettuosa complicità.  Riemergo e rotolo su me stessa, guardo verso la spiaggia. Le signore vestite di scuro, forse con un filo di sgomento, stanno osservando nella mia direzione. Nel punto in cui ho lasciato i miei vestiti vedo mio padre, la sua figura alta ed elegante. Con una mano si ripara gli occhi, mi guarda. Alza un braccio in segno di saluto e io faccio lo stesso. Le donne ora osservano lui.
Mi avvicino velocemente alla riva ed esco dall’acqua.
All’improvviso, so con certezza di essere felice. È una sensazione tattile, concreta.
Il babbo mi scompiglia i capelli e mi bacia sulla fronte, attento a non bagnarsi il bel vestito.

“Sei diventata davvero brava, Rina. Ma sei andata troppo lontano. Chi ti avrebbe salvata se ti fossi trovata in difficoltà? Quelle signore laggiù non mi sembrano capaci di nuotare.”

“Mi sarei salvata da sola, babbo.”

“La mia Rina! Sei diventata davvero coraggiosa.”

“Me l’hai insegnato tu!”

Lui sorride, orgoglioso.

“Ora rivestiti, siamo attesi.”

“Babbo”, gli chiedo, mentre ci incamminiamo sulla ripida salita che porta al paese, “forse c’è sempre un’alternativa e si può guarire?”

“Non sempre si può guarire, figlia mia. Non sempre esiste un’alternativa. A volte non basta neanche il coraggio.”

Il tono pensieroso e grave delle sue parole mi induce a smettere di camminare. E mentre osservo la sua figura di spalle che, ignara, prosegue senza di me, mi rivedo in quella stanza in cui una violenza di pochi attimi pretendeva di cambiare il corso di tutta la mia vita.
Ma non ce l’aveva fatta.
Sospiro forte di sollievo. Mi sento così leggera che potrei volare. Basterebbe una piccola rincorsa sulla strada e potrei sollevarmi, planare al di sopra degli alberi, e di questo mare. E di questa isola e del mondo intero. Libera, senza passato né condizioni.
Mi rigiro nel letto nello slancio che presto mi solleverà.

All’improvviso mi sveglio.

 

  



[1] S. ALERAMO, 1921. Una donna. Terza Edizione. Firenze: R. Bemporad & figlio.

 

[2] Ibidem, pag. 21

 


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