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Tamerisco II

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 12/10/2021 18:38:44

II

 

 

 Un monolite e una proposta

di gita al mare

 

 

La casa in cui stavo allora era un appartamentino di due stanze più cucinino e bagno, al quinto piano di un palazzo antico situato in Via Ariosto, proprio al confine del centro storico. Dalla finestra della cucina, esposta a nord, si potevano ammirare i tetti e più lontano il campanile del duomo e della chiesa di S. Stefano, protettore della città. Dalla finestra del salotto, esposta a ovest, si vedevano i terrazzi dei casermoni sorti lungo la ferrovia, scempio di una stagione di anarchia edilizia e spirituale di tutta la collettività. La mia casa aveva l’essenziale, solo ciò che serviva strettamente per vivere. Non c’erano suppellettili se non un vecchio quadro di famiglia di nessun valore, alcune riproduzioni di opere del Seicento, epoca di cui sono appassionato estimatore; i mobili erano ridotti all’osso, non avevo televisione né radio: il silenzio, dicevo, era per me la musica migliore. Queste parole facevano ridere Adelina e mandavano in bestia Guido, che era un melomane. Invece mi concedevo numerosi libri in edizione economica. Ero stato un accanito lettore di romanzi, poi di poesie.

 Appena rientrato, m’infilai nella doccia. L’acqua tiepida mi aiutò a rilassare la tensione che mi aveva procurato quella lunga conversazione sui problemi intimi di Guido. Sarei rimasto sotto l’acqua più a lungo se non mi fossi ricordato che doveva venire la donna che una volta la settimana ritirava la biancheria e me la riportava pulita e stirata, riponendola nei cassetti secondo un ordine da lei stessa stabilito.

Ero appena uscito dalla doccia e il campanello d’ingresso si era messo a suonare con insistenza. Attraversai l’ombra del salotto con i piedi nudi. Non era la donna che aspettavo. Sul pianerottolo riconobbi la sagoma piccola e la testa ricciuta della padrona di casa, accompagnata da due operai che reggevano una specie di monolite che pareva provenire da Stonehenge. Gina era una scultrice professionista, aveva il laboratorio e l’abitazione al piano di sotto: era molto apprezzata per i ritratti in creta e in bronzo che facevano bella mostra di sé nel cimitero cittadino su quasi tutte le tombe dei defunti degli ultimi cinque anni. Tuttavia lei considerava quella cimiteriale un’attività secondaria, a solo fine di sostentamento, riponendo ogni speranza di gloria e d’immortalità in una specie di stile informale, ipervolumetrico, come lo definiva lei stessa, di cui quella pietra enorme era l’ultimo parto creativo.

“Scusa se ti disturbo, Piero. Vedo che sono capitata in un brutto momento” disse, osservando l’asciugamano che mi avvolgeva i fianchi e la pelle che fumava di vapore rabbrividendo all’aria gelida delle scale.

“Puoi ospitarmi questa opera per qualche giorno?”.

Come avrei potuto dire di no a una signora, quando era un’artista e per giunta la padrona di casa?

Senza attendere risposta, ordinò agli uomini di portare dentro la pietra e di collocarla vicino all’ingresso: una specie di siluro nero, alto poco più di due metri, con una propaggine a mezz’altezza che a prima vista faceva pensare a un membro maschile. Lo scrutò chinando il capo su una spalla e poi sull’altra, soddisfatta della sua opera.

“ Non ti dispiace vero se lo mostro a Diego stasera?”.

Diego era l’uomo con cui viveva da alcuni anni. M’intimò di andare a vestirmi mentre lei, congedati gli operai, avrebbe preparato un tè caldo. Mentre sorseggiavo la bevanda bollente, stava in piedi, un po’ a osservarmi, un po’ a guardarsi attorno per la stanza, ritornando con gli occhi all’opera ultima di cui sembrava molto orgogliosa.

Nel frattempo che avveniva tutto ciò, Susanna percorreva il viale illuminato a tratti dalle lampade che spandevano una macchia gialla sul lenzuolo bianco della neve. Camminava spedita con i suoi doposci di renna, avvolta nella pelliccia di visone, saliva le scale di casa e, trovando la porta aperta, entrava con una sommessa domanda di permesso. Appeso il visone al membro del monolito, si fece avanti fino al tavolo, dove si svolgeva la mia cerimonia del tè, che nulla aveva a che vedere con quella misteriosa, simbolica rappresentazione dell’estremo oriente, essendo la mia fatta tutta di smorfie e boccacce a causa del calore che mi ustionava la bocca, m’inumidiva le narici, provocando una leucorrea nasale fastidiosa e imbarazzante. Poco dopo Gina si congedò promettendo che sarebbe tornata presto col suo uomo.

Offersi a Susanna il te nell’unica tazza pulita che mi rimaneva.

“Ti starai domandando il motivo della mia visita”. In effetti, Susanna non era mai venuta a casa mia e neppure sospettavo che ne conoscesse l’indirizzo.

“Spero per motivi intimi, magari di natura sessuale” scherzai.

“Ho visto che sei già in compagnia femminile”.

“E’ la padrona di casa, l’autrice di quell’affare dove hai appeso la pelliccia. Anzi, sta attenta che quando gli passa l’erezione dovrai raccoglierla per terra!” Scherzavo per vincere l’imbarazzo. Meno male che avevo smesso il perizoma per un paio di pantaloni e un golf di lana. La presenza di Susanna mi sconcertava e mi procurava una profusa salivazione. Sapevo che tra breve  non avrei potuto parlare senza sputacchiare in tutte le direzioni.

“Scherzi a parte, sono venuta fin qui per chiederti un favore: sabato sera ci sarà una festa al mare, nella villa dei Cabrini, cui non posso assolutamente mancare. Ti sarei eternamente grata se mi facessi compagnia, se potessimo andare insieme”.

“Ti direi di sì, ma ho alcuni problemi: il primo è che non so chi siano questi Cabrini; secondo è che non possiedo vestiti eleganti; terzo: non possiedo una macchina”.

I suoi occhi verdi e luminosi si erano ingrigiti, come sempre accade quando una preoccupazione o una delusione va a intorbidare la pozza della nostra mente. Con preghiere e dolci malie obiettava insistendo che lei pure avrebbe indossato jeans e maglione, perché i Cabrini, sebbene enormemente ricchi, erano gente semplice, sportiva ecc. e la macchina l’avrebbe procurata lei. Presi tempo andando in bagno a sputare la saliva. Proprio come aveva fatto Guido qualche ora prima, quando gli avevo domandato del fratello.

 

 

 

 

 

 

 


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