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L’Acqua

di Elisa Mazzieri
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Pubblicato il 19/03/2022 05:27:35

 

L’acqua

 

L’acqua schizza dal rubinetto stride e precipita nel buco del lavello con un tonfo sordo.

Il rumore dell’acqua che scorre, pensava, deve essere lo stesso in tutte le case del mondo. Una volta qualcuno le disse che nell’altro emisfero l’acqua gira in senso contrario; per la rotazione terrestre, le avevano spiegato e lei  annuì, sicura che non avrebbe mai verificato e che non sarebbe mai andata dall’altra parte del mondo né in un posto qualsiasi, forse, oltre la sua provincia.

 

“Che fai Anita, dormi?”

“No. Pensavo all’acqua che…”

“Cosa?”

“Niente.”

“Allora sbrigati, è tardi!”

È tardi, già. E la sua amica è già pronta da un pezzo. Sono cresciute insieme, loro due, in quella città di mare che esplode di gente, l’estate, l’inverno di noia. La sua amica non ha finito neanche la scuola e gestisce il ristorante di pesce del padre che un giorno sarà suo. Lei no: Anita ce l’ha, il diploma, e anche qualche esame all’università, ma non ha mai inviato un curriculum. A Bologna era tutto diverso, era sempre freddo e non era abituata a condividere una stanza; da lei gli spazi erano enormi, a Bologna non si era davvero integrata, era troppo vicina a casa e ci tornava troppo spesso e per periodi sempre più lunghi. Anita lo sapeva, sarebbe stato meglio Milano o all’estero, ma all’estero, chissà, magari i suoi avrebbero fatto storie; così era andata a Bologna, per capire, si rassicurava. Dopo due anni aveva capito soprattutto che voleva una stanza singola e quell’estate cominciò a lavorare nel negozio di famiglia, per risparmiare, si diceva, ma aveva smesso di rispondere ai suoi amici dell’università e, anche quando venivano a ballare sulla costa, li evitava e alla fine dell’estate non era più tornata a Bologna. Così, sono sei anni che Anita gestisce il negozio di souvenir che un giorno, naturalmente, sarà suo e che già da ora è aperto solo in alta stagione, quando le strade si riempiono di biciclette e motorini e cani che ci corrono dietro, quando le case disabitate si colorano di asciugamani sbiaditi, i bambini si schizzano con il tubo dell’acqua, i ragazzini fumano le prime canne e le bambine si tingono già labbra e capelli: sempre più piccole, sempre più in fretta.

 

“Allora ti muovi?”

“Arrivo.”

Le mani a coppa si gonfiano di acqua ghiacciata e la gettano sul viso; una chiude il rubinetto e traccia qualche linea di nero sulle palpebre, l’altra stappa il flacone del suo conforto quotidiano. Una, due pasticche: è pronta per il solito tuffo in un’altra notte troppo lunga, colorata, appiccicosa; notte torbida di fine estate. È così diversa l’estate e così inutile che sembra di essere in un altro posto, forse proprio nell’altro emisfero.

La macchina è rossa, aperta, brillante; il motore ancora acceso, il portone già spalancato. La sua amica scende in fretta, i piedi di Anita tremano dentro le scarpe viola, lucide, strette, nuovissime. I tacchi sono troppo sottili, vorrebbe cambiarle ma le gambe si rifiutano, affrontano gli scalini ripidi di sbieco come locomotive esperte su binari sgangherati.

“Andiamo dai! Ma che hai stasera?”

“Niente.”

In macchina due uomini stretti in giacche scure, capelli lucidi all’indietro e una ragazza troppo bionda e giovane che trabocca da un vestito vermiglio sorridono. Le labbra della tipa sono piante carnivore grasse e fiammanti, si avvicinano per baciarla e Anita quasi si scansa, la sua amica si lascia inghiottire, distratta: ha l’aria di una che ne sa più di lei di piante carnivore e fiamme e, forse, ne sa più di lei in assoluto di tutto; lei che almeno da quella città non si è mai allontanata e adesso non sente la stretta allo stomaco di fine estate, né quella dell’inverno, niente. Anita no: lei è sempre stretta o larga. Anita non sa più a chi dare del lei o del tu, non capisce certe parole in dialetto, ha un accento diverso e l’aspetto delle sue coetanee la sconcerta. Da quella volta che ha scambiato una sua ex compagna di classe per la sorella, che ha almeno dieci anni di più, non chiama nessuna per nome e non capisce perché tutti quanti si ricordino tutto, dettagli invisibili di fatti lontani che a lei sembrano stralci di altre vite: il suo passato, questo presente, la pausa a Bologna e il suo uomo che prima era un ragazzo e non le piaceva, prima. Anita non sa a chi dare la colpa, neanche ai suoi. L’avevano lasciata andare e quando era tornata e rimasta erano stati contenti alla stessa maniera. Forse il padre di più. Forse, pensava, la madre era più contenta prima, quando aveva deciso di andarsene. Ma non era sicura neanche di questo e non aveva niente da rimproverare a nessuno.

“Ciao, ci mettete sempre così tanto?” la ragazza ride.

“Ciao!” risponde la sua amica “dipende” e ammicca.

“No” aggiunge Anita, in ritardo. Nessuno ci fa caso, gli uomini ridono: hanno firmato qualche contratto con qualche gran costruttore; le donne si avvinghiano, Anita guarda i loro corpi dilatarsi come attraverso una palla di vetro per pesci. Eppure credeva si fossero appena conosciute.

 

Le luci di semafori e locali ingurgitano la strada in un vomito di colori artificiali. Il vento strappa qualche lacrima nera di mascara, taglia la pelle e i capelli delle donne, quelli degli uomini no: quelli restano scolpiti. La vista si appanna, a tratti rivela profili troppo netti, come un ritocco a basso costo o un ritaglio di giornale sfuggito al vento.

 

La macchina inchioda nel vicolo. A fianco, il locale sputa e inghiotte corpi accalcati in file ondeggianti, odore di fritto, sudore, profumo indiscreto e lacca, odore di gente fusa; sopra, una nuvola tossica asfissiante. La vista si sfuoca di più.

“Anita ma che hai?” chiede l’uomo che guidava.

“Niente” 

“Ho io qualcosa per te”
Non fa in tempo scuotere la testa che ha già sulla lingua il sapore amaro di un altro veleno familiare: un’altra caramellina di fiele dolcifica la notte, scava la gola e va in fondo, ottunde e risale e trascina la mente. La vista  ritorna e va oltre la sala, le mura, i palazzi, la città, oltre i volti e ancora più in là fino alla spiaggia e più giù, verso il fondo del  mare.

“Andiamo sbrigati, conosco uno che ci fa entrare subito” le dice qualcuno. Una mano la afferra, sente il solco delle dita nella carne, le sembra quasi di percepire l’odore dello smalto appena messo, è una mano di donna, la voce non l’ha riconosciuta però. La fila intorno si dissolve e sono già dentro, i piedi scendono a precipizio le scale ripide arabescate di moquette fluorescente e macchie, la pista luccica di corpi rallentati o convulsi.

“Anita, vai in bagno, c’è una sorpresa” grida la sua amica più forte delle casse.

In bagno c’è la bionda di prima che mormora qualcosa: braccia aggrappate al lavandino, testa in avanti e labbra lucide rosse contratte in un riso demente. Le passa una banconota arrotolata e indica una striscia di bianco su bianco. Anita sbaglia la mira, le sanguina il naso, la tipa ride più forte, Anita tenta con l’altra narice, sale la botta rosata di sangue e anfetamina. Ancora un assaggio di veleno e tutto è insonorizzato, ancora un altro assaggio, la ragazza sparpaglia la polvere sul lavandino e ci ficca il naso dentro.

“Non esagerare!” bisbiglia Anita. L’altra scoppia in un rantolo stridulo.

“Io non esagero mai, e tu?” Anita non risponde. Lo specchio rimanda due colature nere di trucco dagli occhi agli angoli della bocca e due rosse dal naso alla fossetta del labbro superiore. Il rubinetto non funziona, esce una goccia d’acqua per volta.

“Tieni” la ragazza le passa una bottiglietta di plastica “è solo acqua!”

 Anita ne versa un po’ dentro gli occhi.

“Sei matta!?”La ragazza non ride più. Le strappa la bottiglia di mano e, forse, grida qualcosa. Anita distingue solo la smorfia del labiale, è una smorfia di terrore. Sente ancora la mano che la trattiene, qualcuno si avvicina ma lei vuole andare.

La porta del bagno è inchiodata, i piedi slittano, le luci roteano in un limbo abbagliante, le facce, i corpi si attraggono e respingono risucchiati in una spirale lattiginosa. Dalle casse arriva l’eco di un lamento fossile.

“Ehi sta attenta, ma che fai? Guarda che sta proprio fuori questa qua!”

Qualcuno la urta. Un bicchiere si sgretola muto a rallentatore. Anita fa per raccoglierlo, stavolta le scarpe non reggono. Il pavimento è freddo, inondato da un diluvio di luci. Adesso è tutto fermo davvero, giusto un attimo. Volti scuri dai lineamenti confusi la soffocano, poi chiari, poi niente. La musica riprende. Qualcuno le sfila le scarpe e la porta in braccio. Il ritorno è un vortice rosso ventoso, sapore di bile e frammenti viola tra le mani, sono ancora le scarpe o le luci. Poi il buio

 

“Sei sveglia?”  

Anita solleva appena le palpebre. Il giorno filtra in rettangoli tra le persiane. Riconosce la camera: è quella dell’uomo che guidava. Sente fresco sulla fronte, l’uomo le sta cambiando la borsa del ghiaccio.

“Anita, è la terza volta in due mesi che ti succede. Alla fine ci resti!”

 

Anita finge di dormire e non risponde, non vorrebbe parlare mai più. Guarda la stanza e considera che la fine non dà resti. In fondo, la porta del bagno socchiusa scopre un triangolo di maioliche verdemare e uno specchio che riflette il suo corpo sdraiato sul letto dell’uomo.

L’uomo si allontana, entra nel bagno e svuota la borsa del ghiaccio nel lavandino, poi apre il rubinetto e l’acqua comincia a tuffarsi nel solito modo.

Il tonfo dell’acqua che scorre, comunque, fa sempre lo stesso rumore, è sicura,  in tutte le case del mondo.

 


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