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Un grosso dito medio alzato

di Veronica Rosazza Prin
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Pubblicato il 03/05/2022 15:30:56

Non ricordavo che ci fossero tutte queste scale per arrivare al mio ufficio. Dopo i mesi a casa, il palazzone antico sembra ancora più alto e imponente. Eppure raggiungere il terzo piano è un gioco da ragazzi. Mi sono preparato e allenato a lungo per questo momento. Io e la mia fidanzata abbiamo scelto con cura l’abito da indossare: pantaloncini corti grigi con i tasconi, occhiali da sole e t-shirt con un bel dito medio giallo alzato.

Arrivo davanti alla porta d’ingresso e sconfiggo in un attimo la nausea che stava per prendere il sopravvento. Sì, perché non ho motivo di essere nervoso. Mille e mille volte mi sono immaginato questo momento, con la mia entrata trionfale e lo sguardo da “chettiguardi” che rivolgerò ai miei colleghi.

Tiro un ultimo respiro profondo ed entro di fretta, prima che i passi che sento salire le scale mi raggiungano. Solo che nessuno dei miei progetti di gloria si realizza: non gliene do il tempo. Non ho idea di cosa mi prenda, ma non riesco a rallentare il passo. Spedito sono entrato, spedito ho salutato e spedito mi sono seduto alla mia vecchia scrivania. Sono andato così veloce che quasi nessuno si è accorto di me. Accendo il computer cercando di calmare il respiro affannato, mentre la mia storica “vicina di banco” mi vede. «Ehy, c’è Paride!», urla.

Butto fuori tutta l’aria che ho nei polmoni e mi giro. È ora di tirare nuovamente fuori il piano che avevo studiato. Mi alzo lentamente, con un ghigno sornione e le braccia ben aperte. Sono il vincitore assoluto. Perché in fondo, tutte le urla di gioia, gli applausi e i fischi, le pacche sulle spalle, i baci delle ragazze, gli abbracci dei ragazzi, tutto ciò che mi piove addosso ora, me lo sono guadagnato. Ho sconfitto la morte e sono tornato trionfante alla vita. Nessuno più di me si merita la standing ovation dell’ufficio. Non oggi, non ora. Il sole splende sul mondo, oggi, e lo fa solo per me. Il vento sposta le nuvole affinché non mi facciano ombra. I bambini interrompono i loro giochi e gli animali indietreggiano per le strade: avvertono che c’è qualcosa di speciale in me. Qualcosa di bello e di incredibile, che lascia la notte a bocca aperta e che frena il flusso delle stagioni.

Solo Vasco può resistere all’energia che sprigiono. Infatti, subito dopo una veloce toccatina di spalla destra, aggiunge: «Ben tornato! Ti stavamo aspettando per iniziare un progetto».

L’atmosfera gioiosa si piega in mezzo secondo sotto il peso di quel rompiballe del capo, con un borbottio di sottofondo che si smorza via via che i colleghi tornano ognuno alle proprie postazioni.

 

Proporrei di introdurre il reato di “anticipo di riunione”: un meeting alle 9 del mattino di lunedì non è tollerabile. Tanto più se in call. E il fatto di usare parole inglesi per dire cose che in italiano si dicono benissimo da sole, sarà l’aggravante del reato! Se poi aggiungiamo che sono mesi che non metto piede in questo posto e mano al computer, scaraventarmi dentro un progetto sembra una vera cattiveria.

Dall’altra parte del telefono c’è Coso, uno nuovo della sede di Milano, uno di cui non ho neanche capito il nome, che mitraglia le orecchie dei presenti con tutte le informazioni su un cliente mai sentito prima, che non ho mica capito neanche di cosa si occupi.

«L’account del cliente vuole un evento super top per il team-building, in una location da urlo, possibilmente sulla spiaggia». Osservo gli altri annuire come se avessero chiaro tutto (o come se non avessero ascoltato una parola): forse mi sono perso più cose di quante avevo immaginato. Mi volto e dalla vetrata che separa noi e il resto dell’open space mi accorgo di non avere la minima idea di cosa sia successo in ufficio. Marta ha cambiato scrivania; Umberto non c’è più; una ragazza nuova è seduta a una scrivania comparsa vicino all’ingresso; il ragazzo che si trova ora dietro di me sembra uscito dalle scuole superiori. Ormai ho perso il filo del discorso che sta tenendo Coso da Milano, quando vedo il fantasma di Riccardo varcare la soglia dell’ufficio.

 

*

 

Non avrei mai pensato di tornare qui, in questo posto maleodorante di disinfettante, porcherie chimiche e aria umida. L’applauso che mi fecero l’ultimo giorno è stato il mio ricordo felice degli ultimi mesi. Ursula l’ha persino utilizzato come aneddoto principe durante ogni singola cena cui abbiamo partecipato. Abbiamo festeggiato e fatto progetti e cercato di avere un figlio. Se io fossi anche solo un po’ scaramantico, ora avrei paura di essermela tirata da solo. Per fortuna, scaramantico non sono e anche il mio dannato rientro in questa sala puzzolente mi sembra solo un ulteriore noia medica.

Molte delle facce che avevo imparato a conoscere, ora non ci sono più. Il fatto di non sapere se questa sia una buona o una cattiva notizia mi fa crescere un senso di disagio nello stomaco. Mi sembra quasi di dover correre in bagno, mentre l’agitazione mi divora dentro. Se fossi uno di quelli che si arrendono, forse ora sarei più tranquillo. Mi siederei sulla mia poltroncina, allungherei il braccio e mi leggerei un libro, mentre il veleno mi scorre nelle vene. Invece sono sempre stato uno di quegli sciocchi che si attaccano alla vita come se fosse la cosa più preziosa che abbiamo, illudendo mia moglie che tutto sia possibile.. Anche adesso, non ho voglia di lasciarmi andare. In fondo, non è forse questo il regalo che ti fa la malattia? Ti apre gli occhi, ti fa capire che non sei eterno, che devi vivere senza rimorsi e rimpianti, che non devi rinunciare neanche a un sorriso, perché potresti non poterlo fare più. Presto.

Quindi passo la mia mezz’ora a fare battute sceme con la mia nuova vicina di seduta. È la sua prima infusione, è agitata, sola e non sa cosa aspettarsi. Fare finta che il problema non esista non è quella grande idea che alcuni credono.

«Comunque piacere, Riccardo», le dico.

«Ludovica», mi risponde con un filo di voce. Avrà 50 anni, con dei bellissimi capelli biondi in mezzo cui fanno capolino alcuni fili bianchi. Gli occhi verdi che mi guardano a fatica.

«Allora… Per cosa sei dentro?» le chiedo ridendo. Se riuscirò a farla sorridere, mi riterrò soddisfatto della giornata. Il problema è che lei non sembra condividere il mio senso dell’umorismo: mi guarda stupita, senza parlare. Emette solo un leggero suono, gutturale e intermittente, che mi fa capire che non ha proprio capito la domanda.

«Che tipo di cancro hai?», specifico.

«Oh… Alla mammella».

Sono sul punto di lasciar perdere la conversazione monodirezionale e girarmi verso il collega alla mia sinistra, quando aggiunge un timido «Tu?»

“Allora c’è speranza”, mi dico.

«Io? Io li ho fatti tutti! Ma guarda, ti dirò… Non tengo neanche più il conto! Di recente ho fatto un’acquisizione da record. Posso vantare così tante metastasi, ma così tante metastasi, che, guarda… non te lo sto neanche a dire!»

A quanto pare, la mia nuova amica Ludovica ce l’ha l’umorismo. Di una forma macabra, ma ce l’ha.

 

Lunedì vado a lavoro in autobus. Tra la guida spericolata del conducente, i ragazzini con la musica e gli anziani che nessuno ha fatto sedere, arrivo in ufficio più provato e sudato di quando usavo la bicicletta. E non ci penso neanche a fare le scale. Sarà l’ascensore a fare la fatica al posto mio, fino al terzo piano. Varco la porta, saluto e mi lascio sprofondare nella mia scomodissima sedia girevole.

«Ehy, Richi! È tornato il Parid!», urla Emmuccia dall’altra parte dell’ufficio.

Paride… Certo che Nero di seppia porta sfiga, eh. In questa azienda siamo in due con il cancro, più un altro Milano. Paride però è guarito, infatti a quanto pare Vasco l’ha già trascinato in sala riunioni.

Mi volto e vedo che mi guarda. Alzo la mano e lui risponde con un lento cenno del capo.

 

*

 

Non vorrei fare altro che stare a casa, oggi. Non ho voglia di uscire, vedere la gente che mi guarda, che sussurra parole di pena alle mie spalle, che si avvicina per commentare “Che peccato per i tuoi bei capelli”. Non ho voglia, oggi, di andare a un funerale.

Anita mi ha lasciato davanti alla chiesa, mentre lei va a cercare parcheggio. Il sagrato è pieno di gente. Ragazzi molto più giovani di me che trattengono a stento le lacrime. Una coda di persone con il mento stretti al petto si è radunata, ordinata, per sfilare davanti a quella che immagino essere la famiglia. Il padre, la madre, la sorella, Ursula con un accenno di pancia. Non mi unirò al cordoglio per la famiglia. Non sono qui per loro. Sono qui per il mio amico, per ricordarlo e per fargli sapere quanto gli sono grata.

Mia figlia arriva giusto in tempo per accompagnarmi a prendere posto in chiesa. Ci sono tutti i suoi colleghi, in piedi, vicino all’ingresso.

«Porgi l’orecchio, Signore misericordioso, alle preghiere che umilmente ti innalziamo: al tuo servo Riccardo, che nella vita terrena hai voluto associare al tuo popolo, concedi la dimora della luce e della pace e rendilo partecipe della gioia dei tuoi Santi.

Per Cristo nostro Signore».

«Amen».

 

Non sono mai stata credente, ma ammetto che c’è un certo fascino nelle funzioni religiose. Almeno quelle cattoliche, che sono le uniche cui io abbia mai partecipato.

Uscita dalla chiesa, mentre la famiglia si prepara per accompagnare la bara al cimitero, mi fermo per lasciare un pensiero sul librone delle partecipazioni. Non voglio, neanche ora, parlare con la famiglia. Preferisco scrivere un messaggio per Riccardo.

«Chissà quante di queste persone che sono venute a dirti addio hai aiutato, amico mio, nel corso della tua vita. 30 anni non sono mai abbastanza per morire, ma tu credevi alla vita eterna e io mi auguro che troverai ciò che ti aspettavi. A me hai lasciato la fede. Non in Dio, ma nella mia capacità di sopravvivere. Continuerò a lottare, amico, per poterti ricordare più a lungo che posso.

Grazie di tutto.

Ludovica».

 

 

Note: Questo racconto è pubblicato all'interno dell'antologia GIM, fra sogno e realtà (PensaMultimedia, 2021).

Per maggiori informazioni, fare clic QUI


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