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Con la voce dolce più che niuna

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 10/01/2024 11:39:09

CON LA VOCE DOLCE PIU’ CHE NIUNA

Non poteva mancare all’ultima conferenza di quell’anno. Non fosse altro che per dare continuità alle nostalgie, alle intensità del passato che si affievoliscono senza svanire.
Si chiedeva se il tempo e le condizioni glielo avrebbero permesso: la laser terapia al braccio non dava i risultati attesi e gli antidolorifici scoagulavano. Ma quella era una occasione irrinunciabile.
Raggiungere il piano terra con l’ascensore, aggrapparsi alla mano della figlia, salire sulla macchina, scendere davanti all’ingresso del cineteatro: era stato abbastanza facile e, per fortuna, non pioveva.
Lui era già là sotto lo schermo: la slide, nitida e luminosa, mostrava la figura rossa di Eros alato che tendeva armonioso le braccia sul fondo nero del piatto.
Lei, scortata, prese posto nel laterale destro della seconda fila.
Guardò in avanti pensando all’effetto della propria immagine. Sulla curva sempre più pronunciata delle spalle poggiavano i boccoli argentei dei capelli. Gli occhiali con la montatura acuminata color pastello scivolavano lungo il naso puntuto, le iridi erano liquide dietro le lenti spesse.
Guardò in avanti volendo osservarlo senza incrociarne lo sguardo: aveva il capo abbassato sulla tastiera e appariva maledettamente invecchiato come difatti era.
I pochi capelli rimasti, che recingevano a corona il cranio, erano completamente bianchi, il viso si era fatto rotondo e un po’ molle, il corpo appesantito. Non c’era più nulla del ragazzo di allora. Di quando leggeva alla classe le poesie di Hofmannsthal e ne presentava il pensiero con la voce dolce, orgogliosa e dai vaghi tremiti. Era lo studente che ogni insegnante avrebbe sempre desiderato, con quella brillantezza di idee che significa: cambiare.
E lei, Elide Bacchis, lo considerava il modello in cui insufflare il fascino di una cultura che dava sacralità all’universo scuola con l’aretè omerica intesa come eccellenza.
Allora quando Daniele Cherubini leggeva di Hofmannsthal e della sua rinuncia al linguaggio poetico, Elide Bacchis contrapponeva l’eternità dei lirici greci.
E Daniele Cherubini aveva cominciato ad assaporare il sonno delle cime dei monti e degli abissi, a percepire la durata della giovinezza breve come la vita effimera delle foglie, a farsi travolgere dai marosi nell’invettiva di Archiloco. Aveva imparato a declamare con la sua voce dolce e la forza di Elide.
Adesso, al posto del ragazzo bello, perspicace e scattante di mezzo secolo prima, c’era un uomo lento nei gesti, dall’espressione remota che emanava non l’energia del giovane Ippolito e neppure il fascino di Odisseo travolto dal tempo e dal fato, ma stanchezza. Elide Bacchis sospirò.
Non lo vedeva da anni. Lui aveva vissuto all’estero, si era sposato, aveva insegnato all’Università di Padova. Poi era ritornato in città. Teneva conferenze sugli autori mitteleuropei e questo ultimo incontro della stagione lo dedicava ai lirici greci, come a voler omaggiare in un saluto ultimo, forse inconscio, colei che gli era stata guida.
Il brusio in sala si era amplificato quando si spensero le luci. Ci fu un pacato applauso di accoglienza.
Elide Bacchis si apprestava a conoscere , con un misto di anticipazione e vago sconforto, l’uomo nuovo che le stava davanti. Colui che tanti anni prima aveva illuminato il suo sguardo, dato vigore alle sue giornate e conferma alle sue scelte.
Si aspettava di udire una voce afona in sintonia con il resto della metamorfosi, ma quando Daniele Cherubini esordì, leggendo Mimnermo, Elide Bacchis, nonostante le patologie conclamate e le quotidiane terapie, nonostante le pretese della mente di avere il dominio sulle emozioni, si sentì travolgere.
“Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.

Riconobbe la stessa voce.
E proprio quando udì il suono di quella voce, pensò che sarebbe stato infinitamente dolce sprofondare nel sonno degli abissi, mentre gli occhi, irrorati di sangue, le facevano avvertire crudamente il senso della lirica che più amava.



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