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Il viaggio

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 19/09/2024 19:19:12

    Da troppo tempo ormai ero seduto in quella macchina, non so quanto tempo era trascorso, sentivo come se la mia identità si era dispersa, come se non fossi mai stato altro che un uomo in perenne viaggio.

      I ricordi della mia vita passata si fermavano al momento in cui avevo imboccato quell'autostrada. Cercavo di concentrarmi, ma era impossibile ricordare il perché fossi partito o da dove provenissi.

A tratti, dei fulmini di memoria mi suggerivano la presenza di qualcuno al mio fianco, una donna forse, ma il suo nome e il suo volto restavano indistinti, come il paesaggio che vedevo intorno a me. Il paesaggio fuori dal finestrino aveva qualcosa di anomalo, irreale. Non si trattava soltanto della monotonia dell’autostrada: era come se la nebbia leggera che avvolgeva tutto cancellasse ogni dettaglio, lasciando visibile solo la strada davanti a me, mentre ciò che stava oltre il guard-rail si perdeva in un vuoto grigio. Il tempo stesso non aveva più significato: ore, giorni o anni, non saprei dire quanto fossi rimasto a guidare immerso in quel nulla. Anche la radio non offriva alcun conforto: ogni stazione era un lamento di suoni striduli, privi di senso.

      Non avevo idea di dove mi trovassi. Il cielo era sempre lo stesso, coperto da dense nuvole grigie che impediva ai raggi del sole di andare oltre. Doveva essere giorno, pensavo, perché riuscivo a vedere chiaramente la strada. Eppure, non c'era alcun altro segno di vita, né umana né animale. Nessun altro veicolo mi sorpassava o mi precedeva, solo la lingua d’asfalto che si estendeva all’infinito. Anche la vegetazione sembrava essere stata cancellata da quel paesaggio a tratti gotico.

      Il cellulare era spento e non c’era verso di riaccenderlo. Il serbatoio della benzina restava fermo sul pieno. Non mi ero mai fermato a fare rifornimento, eppure continuavo a viaggiare. L’indicatore doveva essere rotto, pensavo, ma era un pensiero senza tanta convinzione. Quando gettai uno sguardo sul contachilometri, mi accorsi che avevo già percorso otto milioni di chilometri. Come poteva essere? Avrei dovuto essere morto, o perlomeno sfinito dalla fame e dalla sete. Non ricordavo nemmeno di aver mai mangiato o bevuto qualcosa o di essermi fermato in qualche stazione di servizio.

Ad un tratto, mi tornò in mente la mia compagna di viaggio. Ricordavo vagamente che era stata al mio fianco per una parte del tragitto. Era giovane, più giovane di me, ma non riuscivo a ricordare quando fosse sparita, né se ci fossimo mai davvero salutati. La mia angoscia cresceva sempre di più. Perché non riuscivo a fermarmi? Ero spinto da una forza invisibile, incapace di rallentare, obbligato a proseguire sempre dritto, senza una meta.

      La paura montava dentro di me. Era una paura senza forma, una paura del vuoto, del silenzio, del grigio che mi avvolgeva. La radio continuava a gracchiare, un lamento distante, un segnale che non potevo decifrare, il cellulare sempre spento. Mi sforzavo di dare un senso a tutto questo, ma ogni ipotesi si scontrava con l'assurdità della situazione.

Forse ero morto, pensai. Forse questo era l'aldilà, un viaggio eterno senza compagnia, un castigo inflitto per delle colpe che non ricordavo. O forse non ero mai esistito davvero o potevo essere l'anima di qualcuno mai nato, condannato a vagare in un mondo che non potevo comprendere, incapace di riconoscere il paesaggio o la musica, perché non li avevo mai conosciuti. Ma no, non poteva essere. Come avrei potuto sapere cosa fosse un’automobile o come guidarla, e se non fossi mai esistito?

      Una terza ipotesi mi attraversò la mente: forse il mondo stesso non esisteva più, e io ero rimasto solo in un universo di nulla. Un ultimo residuo di coscienza in un mondo svanito. Ma perché io? Perché ero io a percepire questa realtà, e non gli altri? L'angoscia cresceva, e con essa la consapevolezza che nessuna risposta sarebbe mai venuta. Ero solo, su quella strada infinita, spinto da una volontà che non era la mia, senza poter scendere, senza poter fermare il veicolo.

      Intanto la benzina non finiva mai. Il contachilometri continuava a salire. Il cellulare era come se non esistesse, e io, condannato a questo viaggio senza fine, mi rendevo conto che dovevo smettere di pensare, smettere di chiedermi cosa fosse accaduto, sentivo solo e semplicemente il bisogno di guidare, guidare e guardare avanti, non domandarmi più nulla. Solo la strada contava. Dovevo abbandonarmi all’oblio, lasciare che tutto questo assurdo mi avvolgesse. 

 


@GiuseppeLonatro2012-2024  


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