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L’album

di Silvia Rizzo
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Pubblicato il 23/01/2011 14:22:40


«Ricordati che fra un mese Irina compie quattordici anni» gli disse quel mattino la moglie posando la tazzina del caffè; e dopo una breve pausa aggiunse: «Si sta facendo proprio una bella signorina. Vedrai come farà girare la testa agli uomini fra poco». Il maggiore ripiegò con cura il giornale, lo posò sul tavolo, si forbì i baffi col tovagliolo e alzò gli occhi a guardare la sua consorte: «Ha preso da sua madre» disse galantemente.
La sunnominata Irina stava in quel momento dormendo ancora beatamente, ma quando a sera la famiglia si riunì per la cena il padre ebbe modo di indugiare a osservarla e constatare che la moglie aveva ragione. Negli ultimi tempi era cresciuta di colpo e impetuosamente, come accade agli adolescenti, e si era fatta alta e sottile come un giunco. L'ovale del volto si era affinato; non c'erano più quelle guance un po' paffutelle che le davano un aspetto infantile. I capelli molto ricci, leggeri e sottili, di un castano dorato, spartiti ai lati del capo, le incorniciavano il volto di un'aureola che si dorava sotto la luce spiovente dalla lampada. Indossava un semplice vestito di lanetta a quadri: collettino di pizzo, vita sottolineata da una cintura, gonna leggermente svasata e ondeggiante per un'arricciatura con balze un po' sotto il punto di vita, scarpe e calze bianche. Il padre notò per la prima volta che sul petto la stoffa si sollevava per un accenno di seno. Rimase stupito e provò una profonda malinconia. La bambina che aveva riempito la casa dei suoi giochi chiassosi e della sua allegria, la figlia unica e molto desiderata, nata insieme con la pace al suo ritorno dalla grande guerra, la personcina che tante volte aveva condotto a passeggio con sé godendo del suo chiacchiericcio infantile, ecco che non c'era più, era morta. Forse ce n'era ancora un tenue ricordo nella bocca e nel sorriso di questa adolescente timida e ritrosa, che ora mangiava composta e in silenzio e non faceva più risuonare le risate e la voce gaia di bambina vivace e un po' viziata.
Ci pensò ancora il giorno dopo mentre compiva il solito tragitto verso la caserma. Lo prese addirittura un senso di sgomento. Come poteva il tempo esser volato così? Come poteva quel fagottino di carne rosea e strillante che ancora ricordava nitidamente sulle braccia della levatrice essere diventato una graziosa signorina, quasi senza che lui se ne accorgesse? Si sentiva quasi defraudato. Quei giochi colla sua bambina erano finiti e non sarebbero tornati mai più. Mai più avrebbe potuto scegliere con cura un libro di favole riccamente illustrato o una nuova bambola per il compleanno di lei. Già, cosa si regala a una signorina? Non mancava molto al compleanno ed era tempo di cominciare a pensarci. Cosa desiderava ora sua figlia? Certo non più bambole o altri giocattoli. Forse vestiti, gioielli, profumi. Ma gli sembrava troppo presto per pensare a doni di questo tipo. E non ne aveva voglia. Del resto ci avrebbe certo pensato la madre. Erano cose da donne queste. Lui cosa poteva regalare?

***

«Salvatore Palumbo a rapporto dal maggiore». Il giovane Palumbo - statura non alta, occhi e capelli nerissimi, ufficiale di prima nomina spedito a Reggio Emilia dalla sua natia Sicilia - a quest'improvvisa convocazione si spaventò. Passò rapidamente in rassegna le sue azioni degli ultimi giorni per vedere se poteva aver commesso qualche grave infrazione. Non gli sembrava. Ma era inutile stare a strologare e non doveva far aspettare il superiore. Con una rapida occhiata alla divisa controllò che tutto fosse in ordine perfetto e andò a presentarsi. «Palumbo, tu hai fatto gli studi classici, vero?» gli disse il maggiore quando lo vide in piedi davanti alla sua scrivania sull'attenti. Colto di sorpresa e più che mai inquieto per quella domanda inaspettata, che gli parve foriera di chissà quali tempeste, Palumbo rispose affermativamente balbettando un po'.
Qualche giorno più tardi l'ufficiale Salvatore Palumbo acquistò in una tabaccheria vicina alla caserma una «cartolina postale con risposta pagata» e giunto al suo piccolo alloggio sedette al tavolo e impugnò la penna. Per prima cosa scrisse l'indirizzo nelle righe a ciò destinate sotto lo stemma sabaudo e il francobollo da 30 centesimi con l'effigie di Vittorio Emanuele: «Illmo Signor / Prof. Geppino Rizzo / R. Liceo / Barcellona Pozzo di Gotto/ (Messina)». Poi, dopo essere rimasto un poco a riflettere con la penna sollevata in aria, si mise a scrivere rapidamente e in poco tempo riempì tutti gli spazi disponibili con la sua grafia ferma e regolare, leggermente inclinata a sinistra. Appose saluti e firma, sostò un attimo, poi ci ripensò e nel poco spazio rimasto a destra della firma aggiunse ancora, impiccolendo un po' la scrittura, un breve poscritto e per maggior chiarezza lo separò dal resto con una cornicetta. Lo scritto alla fine suonava così:


Reggio-Emilia - 27-4-1932


Carissimo Geppino,
Mi ricordo di te per venirti a seccare un po' e cioè per chiederti un favore che spero puoi farmi e vengo subito al fatto.
Sono a Reggio, come saprai, per il servizio di ufficiale di prima nomina e qui il mio maggiore, che ha saputo che ho fatto gli studii classici, mi chiede un verso dantesco o latino etc... che risponda al concetto: da piccolo virgulto... rigogliosa pianta. Capirai che io non so quale grande poeta latino o italiano abbia degnamente cantato un simile pensiero, e se l'ho saputo adesso ho avuto tutto il tempo di dimenticarlo. Il mio maggiore ha pensato di regalare all'unica sua figlia un album con le sue stesse fotografie da piccola neonata a signorina e perciò desidera scrivere un verso nell'album che risponda appunto al suo pensiero: da piccola fino all'età che ha. Ho pensato che solo tu puoi trarmi d'impaccio e ti prego caldamente e con una certa sollecitudine di mandarmi questo benedetto verso, che appartenga ad un nome illustre delle letterature che tu conosci magistralmente. Ti chiedo tante scuse pel disturbo ed anche della fretta con cui ti chiedo la risposta ma tu sai che i desiderii dei superiori nella vita militare non sono né più né meno che ordini quindi capisci in quale condizione mi trovo e credo che mi scuserai largamente.
Sempre con grande stima ti saluto affettuosamente tuo affmo
Salvatore Palumbo
N. B. Mi raccomando la citazione esatta del poeta e del lavoro in cui è scritta.

La risposta di Rizzo non tardò ad arrivare. Suggeriva un verso latino di un'ode di Orazio. Era un verso di non facile comprensione e Rizzo non dava spiegazioni. Palumbo si procurò un'antologia scolastica di Orazio, andò a vederselo nel contesto e lesse le spiegazioni date nel commento. Si trovò trasportato in un ambito quanto mai lontano da quello della fanciulla in fiore a cui il verso avrebbe dovuto alludere. L'ode era una di quelle 'romane' e il verso era riferito alla fama di un Marcello su cui gli interpreti non erano d'accordo, ma che sembrava probabile fosse il Marcello più glorioso, attraverso cui tuttavia Orazio avrebbe inteso alludere adulatoriamente anche al giovane Marcello suo contemporaneo, nipote e genero di Augusto, quello poi morto prematuramente e cantato da Virgilio in versi rimasti memorabili. Con un paragone ripreso da Pindaro Orazio diceva che la fama di Marcello cresceva come cresce un grande albero. Ma di suo aggiungeva al paragone pindarico una notazione tipica di un poeta che ha sempre sentito acutamente l'inesorabile fuga del tempo, e cioè che l'albero cresce senza che uno se ne avveda insieme con l'impercettibile scorrere del tempo: non lo vediamo crescere e un giorno lo scopriamo già grande, così come non avvertiamo la fuga del tempo se non quando qualcosa ci fa sentire improvvisamente che ci è fuggito fra le mani.
«Chissà se piacerà al maggiore? - si disse Palumbo restando un po' perplesso - Certo non è un verso facile da intendere e bisognerà spiegarglielo». E si presentò a rapporto col libro oraziano in mano. Per la prima volta forse nella sua storia la caserma sentì echeggiare fra le sue mura versi di Orazio e citazioni pindariche. Il colloquio andò bene al di là di ogni previsione e Palumbo se ne andò tutto soddisfatto. «Diavolo di un Rizzo!». Lo sapeva che solo lui poteva risolvere un caso così! Il maggiore era visibilmente rimasto impressionato e nel congedarsi dal suo sottoposto l'aveva ringraziato e si era congratulato con lui per i suoi «ottimi studi».

***

Quella stessa sera, dopo cena, il maggiore stava sprofondato nella sua vecchia poltrona davanti al camino e fumava la pipa con gli occhi fissi al gioco delle fiamme. Il calore del fuoco e la piacevole sazietà lo fecero a poco a poco sprofondare in una sorta di reverie. Le immagini delle fotografie che aveva pazientemente disposto nell'album per la sua bambina gli si presentavano mescolate e sovrapposte a immagini vive dai suoi ricordi. L'album era ormai pronto: e grazie a Palumbo ora aveva anche il verso da scrivere sul frontespizio. Bella cosa la cultura. È strano, ma c'è sempre, a saperlo trovare, un poeta che ha detto esattamente, con parole alate, quel che noi abbiamo sentito un po' confusamente. Solo cinque parole e un po' enigmatiche, ma esprimevano proprio quello che voleva lui. Si tolse la pipa dalla bocca e mentre attizzava il fuoco nel camino si ripetè quel verso fra sé e sé a bassa voce:

Crescit occulto velut arbor aevo.

Roma, 6-30 dicembre 2003


P. S. La cartolina esiste davvero. Scivolò fuori dalle pagine di un libro della mia biblioteca che avevo preso per consultarlo. Il libro era U. E. Paoli, prose e poesie latine di scrittori italiani, seconda edizione riveduta e ampliata, Firenze, Le Monnier, 1927. Dai timbri postali si vede che la cartolina partì da Reggio Emilia quello stesso 27 aprile in cui era stata scritta ed era già a Barcellona Pozzo di Gotto il 29 dello stesso mese (le Regie Poste funzionavano molto meglio della posta dell'Italia repubblicana).
Il volume che ha conservato la cartolina, forse usata come segnalibro, era di mio padre Geppino Alfredo Rizzo, che nel 1932 stava per compiere venticinque anni ed era al suo al suo primo anno di insegnamento nel Regio Liceo di Barcellona Pozzo di Gotto. Mio padre rispose sollecitamente come gli era stato chiesto: lo si ricava da una sua nota a matita collocata sopra l'indirizzo della cartolina: "risp. 30-IV-32" (quest'abitudine di annotare a matita sulla corrispondenza evasa la data della risposta l'avrebbe conservata per tutta la vita). Un'altra sua nota a matita, che occupa il poco spazio bianco lasciato da Salvatore Palumbo fra la data e il "Carissimo Geppino", ci informa anche della citazione con cui risolse brillantemente il piccolo ma spinoso problema del suo corrispondente.


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