Io non sono, lo confesso,
un intrepido soldato,
battagliero ed indefesso.
Non mi va d’attaccar brighe,
di difendere il puntiglio,
di parlar sopra le righe:
sono, insomma, un po’ coniglio.
Che si parli di campioni
del pallone e poi di fedi
o politiche illusioni,
do ragione a questo e quello.
È già tanto faticoso
nella vita d’ogni giorno
destreggiarsi tra furbetti
che ci assediano d’intorno!
Chi ci chiede per due volte
di pagare una bolletta,
chi approfitta della fretta
per rubarci anche la firma…
Chi s’è preso già un impegno,
quando poi si viene al dunque,
non può scrivere un assegno
e ci lascia a bocca asciutta.
L’incapace e buono a nulla
ci sorpassa allegramente,
esibendo la patente
di chi l’ha raccomandato.
Per uscir da tante pene,
ritrovando un po’ di pace
e un anticipo di bene,
che non sia solo fugace,
alla sera mi rivesto
di quegli abiti curiali
che mi fanno dialogare
di materie non venali.
Mi rifugio, vale a dire,
nella storia del passato,
ché passate son le mire
degli antichi personaggi.
Ch’io parteggi per Antonio
o per Cesare Ottaviano
non fa proprio differenza:
ogni tifo adesso è vano.
Ch’io sia guelfo o ghibellino,
carbonaro od austriacante,
non mi muta più il destino:
son passati troppi lustri.
Così passo quattro ore
senza noia e senza affanni;
rappacifico il mio cuore
e dimentico i malanni.
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