Pubblicato il 11/02/2025 21:56:46
Molti se lo saranno chiesto cosa scatti nella mente di un individuo sano di mente, tanto da cominciare pure in tenera età, a scrivere versi presunti di poesia. “Presunti” perché ciò che in noi è afflato poetico, non è certo che per altri sia tale. È un arrivare a coincidere di sensibilità fino a combinarne una comune in cui riconoscersi anime affini. Non è facile spiegarne le ragioni: qualcuno dirà della bellezza, dell’amore, dell’infinito, dell’ingiustizia… personalmente posso dire di avere sempre abbozzato torsoli di poesie dalle mele del peccato biblico, nelle mie numerose vite trascorse fino a quest’ultima. Questa che mi sta scorrendo davanti agli occhi, intanto che cerco di impostare la scrittura corretta anche alla faccia delle bizze del correttore automatico. Non posso datare con precisione il momento in cui, quello che era uno strimpellare parole tanto perché ci ho una penna in mano, divenne un’esigenza fisiologica e quasi patologica di scrivere poesia. So solo che mi ritrovai, in una delle mie tante vite, ad orbitare intorno ad un buco nero su un’astronave alquanto malconcia e non più in grado di sfuggire all’attrazione malefica del maledetto. Come ben si sa: Un buco nero stellare (o buco nero di massa stellare) è un buco nero che si forma dal collasso gravitazionale di una stella massiccia (20 o più masse solari, sebbene non si conosca esattamente, a causa degli svariati parametri da cui dipende, la massa minima che dovrebbe avere la stella) alla fine della propria evoluzione. Il processo di formazione dell’oggetto è ultimato con l’esplosione di una supernova o un gamma ray burst. La forza d’attrazione che sviluppa una simile massa è spaventosa e qualsiasi corpo che si ritrovi a passare dalle sue parti, e che ne venga catturato, non ha scampo: immancabilmente andrà a schiantarsi su di esso. È solo questione di tempo. Dunque essendo condannato ad una fine brutta e certa, senza alcuna possibilità di agire per tirarmi fuori da lì. Cominciai a passare in rassegna tutti i modi che avevo per ingannare, se non proprio per ammazzarlo, il tempo che mi separava dalla fine ineluttabile. In primis scartai il suicidio: le mie cellule tutte non ne volevano sapere. Poi presi in considerazione l’enorme mole di riviste di enigmistica: che noia pensai, meglio finirla subito. Indi esaminai la possibilità di giocare a scacchi: era bello, era intenso, coinvolgente al punto che i pezzi e le loro mosse mi si stampavano nel cervello con matematica precisione. Ma era troppa la matematica, per quanto affascinante, ed io un anarchico intollerante alla disciplina… lo sport non mi invogliava, la musica mi rapiva ma la passività mi inaridiva, ricollegandomi troppo a stretto contatto con l’imminenza della fine. Certo, avrei potuto imparare uno strumento, però le mie dita si rifiutavano e i polmoni non mi accordavano fiato. Così che, da una cosa all’altra, caddi sulla poesia proprio nel momento in cui il computer di bordo mi segnalava che di tempo ne avevo assai poco. Allora decisi che quel nulla l’avrei ucciso e seppellito sotto dei versi magnifici. Non contava che nessuno li avrebbe mai letti. L’importante era non sentire quella dannata sensazione di imminenza e ineluttabilità che mi stava ammorbando l’anima.
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