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L’assedio

Poesia

Fabrizio Cavallaro
Edizioni Novecento

Recensione di Fabrizio Bregoli
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Pubblicato il 07/07/2017 12:00:00

 

L’idea di una poesia scabra, ridotta a scarnificazione assoluta per amplificarne l’intensità espressiva credo sia il disegno principe di questo nuovo lavoro di Cavallaro, condotto nel solco di una tradizione pervicacemente ed ostentatamente dichiarata, assunta a modello senza però sguaiatamente esibirla: e penso a Penna per lo stile, con la sua fulminante icasticità qui portata all’estrema conseguenza, senza finti pudori, a Pasolini per i contenuti, interprete egli di un mondo a latere che domanda spazio e trova qui accoglienza nei versi personali ed originali di Cavallaro, a certa produzione della Cavalli, con il suo minimalismo provocatorio e sapienziale. Non a caso l’autore dedica ai primi due autori versi che sono una disquisizione di poetica, oltre che un affettuoso omaggio ben concepito. Il tutto condotto con una lingua asciutta, una forma alessandrina in cui il moderno si esprime integrandosi con la compostezza, la dizione asciutta della classicità. Versi brevi, scontrosamente affabili; sempre misurati, nati dal profondo, mai superflui.

Evadere da una detenzione forzosa a vivere negli schematismi convenuti, da “L’assedio” appunto, dagli “anni oscuri e intrepidi”, è una chiave di lettura possibile di questo libro: se ciò è auspicabile, può avvenire però con il solo tramite della parola poetica, per verba, perquanto tale processo di sublimazione verso la ricerca di un nucleo stabile o per lo meno un appiglio plausibile sia percorso arduo, costellato di ostacoli (ci ricorda, impropriamente, il dantesco “trasumanar per verba”, per quanto il cammino di salvezza qui prospettato non abbia alcun sostrato spirituale. Tutt’altro). La riconciliazione fra sé e mondo passa dalla pratica empirica secondo cui il sé s’esterna nel mondo per comprenderlo, dall’intridersi con le sue radici onnipresenti ed ingombranti: “Il bene non è in ciò che si esperisce / non ciò che si congettura / ma nelle forme del dire / nelle norme del fare e del sentire.” Ma non è una ricerca che pretenda alcun approdo, se non la circostanziata evidenza di un contatto possibile, una prossimità salvifica: “Non cerco in te il bene o il male. / Solo l’integrità di chi sa poco.”

Una poesia che procede da occasioni minime che si caricano di senso nell’interiorità e divengono messaggio poetico per l’altro, improvvise illuminazioni, messa in luce appunto di scorci di vissuto, che pretendono una voce affinché “il martellare sordo / e subdolo” possa ambire a “una verità” (e si noti la pregnanza dell’articolo indeterminativo in cui si legge di per sé un’interessante dichiarazione di poetica). Trarre quindi semi di senso da una realtà confinata nel proprio abisso, da un mondo “bolla di tempesta” interpretabile a livello cognitivo ed esistenziale tramite il “prestigio d’una bugia”.

Questo percorso esperienziale non può dunque esimersi dal confronto con la vita nel suo accadere reale: di qui le numerose presenze, forse manifestazione di un unico volto ma comunque capace di sfaccettarsi nelle diverse poesie, le apparizioni che si sostanziano con gesti minimi, che si amplificano di senso, redimono. Si vedano ad esempio “l’insetto curioso”, “lo stratega” con lo sguardo “che fa dell’innocente / un subdolo gaudente” (con l’espediente della rima baciata che imprime l’immagine efficacemente nella mente del lettore), il volto dove un battito di ciglia allusivo diventa “lo scatto del rettile / che morde e si defila / come un ufficiale giudiziario” (similitudini mai banali, oggettivate con forza ed originalità), o ancora l’angelo “idolo maschile botticelliano” in un denso rovesciamento semantico.

A testimoniare questa capacità di scultura impressionistica, la capacità di cogliere in pochi versi la necessità d’un accadere, si consideri anche la brevissima “La fissità glaciale / dei suoi capezzoli furtivi / nella maglia d’ospedale”, dove in tre soli versi si traccia un’identità sfuggente, il suo compenetrarsi ad una vita. Queste figure, quasi d’angeli carnali, si stagliano espressionisticamente sulla pagina, talora con un alone di mito perduto, come nel caso dei “due dioscuri” in un’imprecisata villa patrizia, oppure di suadente sensualità quasi leziosa come per il ragazzo dal “ciuffo pubico debitamente sfoltito, / ombra d’un biondo cespo”, o ancora con fattezze metafisiche che ricordano certe atmosfere di De Chirico, con quella luce assoluta, canicola densa di mistero, come per lo sconosciuto protagonista “statico e arreso, / gemma di sabbia, / impalcatura di sale.” Reduci d’una Sicilia leggendaria che bussa alla porta, si scaraventa come un’eresia salutare sul mondo piatto e consumato della contemporaneità, chiuso “in una bolla”, asfittica verrebbe d’aggiungere.

Volendo sintetizzare è come se si ribadisse a più riprese che è la bellezza l’unica salvezza possibile, fosse anche con il tramite di un “pomeriggio d’incantamento” che scaturisce dall’imprevisto, dal fortuito per “liberarsi dai mostri dell’insonnia / e della veglia”, perché è poco ciò che davvero vale. Emblematica in tal senso la splendida poesia Mater, una delle vette dell’opera, poesia onesta e capace di colpire il lettore, con quel ritratto di una vita minima nelle sue rassicuranti consuetudini, le sole che ci possono confortare perché “ciò che oggi è dato va santificato” e ancora “noi potremo tendere la mano”, con l’efficace correlativo oggettivo delle parole crociate, quel “intersecare/ idonei sentimenti / per tirare avanti”. Poesia quindi da figlio a madre, che ha la forza di rendere partecipe il lettore trasformando la storia personale in compassione (nel valore etimologico del termine), ricordandoci che un po’ tutti siamo quel figlio di cui poco si sa comprese le “timide parentele con gli angeli”.

Questo aggrapparsi agli oggetti semplici, quasi diseredati, è un altro dei temi che più ci convincono del libro: Cavallaro li sa trasformare in simboli potenti, parola poetica, come per la Singer della nonna, “il ronzio del ventilatore” maceria buona che resta d’una persona cara, o i “ricordi incustoditi” di Francesco con la mirabile chiusa della poesia “lasciati in giro senza protezione / a coprirsi di polvere / come bottiglie di Morandi” (versi lucidi e bellissimi). Altrove gli oggetti sembrano relitti, resistenze pervicaci di cui fare poesia, come per il bonsai “scheletro ieratico” unico sopravvissuto ad un amore, o il materasso della originalissima poesia, tutto per “cavare oro dalla polvere” prima che l’assedio ci faccia suoi, ci costringa come in un’invisibile fortezza Bastiani.

A salvarci non servirà dunque una parola magica, la formula per un’assoluzione, ma il determinato resistere di ciò che sa rimanere intatto, integro e credo che questo voglia dirci Cavallaro chiudendo la silloge ancora con la figura della madre, riferimento unico a cui appellarsi, a cui credere, lei che all’avanzare degli anni ha saputo opporre il suo permanere di “fedele ragazza”. Quella ragazza in cui non è peregrino ravvedere un alter ego della poesia.

 


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