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Sal Martis

Poesia

Giovanni Avogadri (Biografia)
Capire Edizioni

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 15/01/2021 12:00:00

 

Un versificare nel segno della luce, della gioiosa partecipazione a un viaggio di ritorno all’origine nella forma di un futuro che non è altro che “una provenienza dimenticata” e che nella navicella di una stirpe eternamente risonante delle figure e dei miti che l’hanno informata e incarnata non tenta scioglimenti ma i vibranti abbandoni di uomini e donne, di generazioni nel legame fiducioso del proprio esserci perché naturalmente interroganti, perché naturalmente rivestenti, quest’ultimo lavoro dell’insegnante livornese Giovanni Avogadri. Una parola allora, così semplicemente accompagnata, così con determinazione liberata nella maturità di una persistente e rinascente infanzia dell’uomo che sa delle ombre sì il risvolto di una Gorgone che mantiene fisso il suo sguardo ma anche nel viluppo della coscienza la melodia di un canto che sa ritornare come da un sogno dimenticato appunto a dire lo stampo e la visione di un altrove dove più alte “rinascono Parole che dicono nomi” che sanno “L’Amore,/ il Silenzio, l’Ascolto”, i segni e semi in ogni volto allora di un Tu sorgivo. E allora di questo Amore è la narrata quotidianità di un qualcosa di ineluttabile e di imminente di cui Avogadri avverte tutta la “necessità etica” che va a sciogliersi nella fantasia di vita- perché questo nell’espressione è del nucleo la creaturale espansione - di padri e madri, di ragazzini, di fratelli colti negli intrecci e negli accostamenti di una sacramentale e rimettente, reciproca incarnazione. La voce così è quella dei corpi dapprima, dei gesti cui nel mistero di un mondo che annunciandosi in frammenti, di qui lo vanno a compiere nell’ancestralità tra l’altro di immagini da Avogadri investigate come dicevamo nella logica del sogno o nel dialogo col sogno nella risonanza di quel solo e unico corpo di cui, come sa bene, ognuno è membra. La metafora stessa del viaggio che continuamente ritorna anche nelle sue più che concrete spazialità di strade e autostrade a questo apre, ci apre (la pianura “un tappeto smosso dal sole”) nella direzione di un rinascere in cui non c’è misura, perché infinita e senza morte se camminando nel deserto Qualcun’altro ci ha preceduto “dove già l’avevamo incontrato”. La vita è ricordo di questo, sempre, comunque il sogno di un altro e di altri nella dimensione onirica di un divino e di un umano che Avogadri sa ascoltare ed accogliere anche nel tentativo di investigazione ed elaborazione poetica di una serie di propri sogni in quel luogo centrale del testo che è la sezione non a caso dal titolo “Approdi” (lavoro che ha preso forma tra i materiali di preparazione con amici di un progetto su Michelangelo nel legame di integrazione di danza, movimento e parola). Approdo certo ma anche chiave di un interrogato disporsi, e attraversamento nel segno di un tempo il cui ponte “non interrompe ma asseconda la corrente del fiume”. La rivelazione è sempre all’insegna di “una mensa illuminata”, di un “evangelo laico” ancora nel sogno a partire dal corpo, in quella sostanza fisica che consente di entrare nel mare “al centro di una infinita navigazione” che muove vivendoci “da fuori da dentro/come un infinito risvegliarsi”. Qui nel cammino, nella bella immagine di “spiaggia e carovana/incontro nell’alba”, è però nell’incontro della “eterna dualità “dell’uomo e della donna, nella nudità di immersione “nella sorgente fisica della vita” l’icona di un indirizzo che propria della nostra condizione, sempre relativa e non-tutelata trova unificazione (“il battesimo dei nostri frammenti”, certo, nel caro riferimento a Luzi) nella visione dei mondi. Ed infatti quella di Avogadri, come da una corsia d’emergenza resta una poesia di nozze umane, entro “forme primordiali/ pietrificate/ che attendono- ancora necessariamente e costantemente aggiungiamo noi- una seconda creazione”, e che la parola va a celebrare nella sensualità di riferimenti che se nella donna hanno veicolo e movimento, pure trova costellazione e geometria visibile nell’astro risonante e divertito della figlia. È in questa intensità lirica allora di elementi colti nel loro naturale dispiegarsi, richiamarsi, giocarsi la forza di un dettato fedele alla capacità umana di ripensarsi e di rifondarsi dall’interno dei propri partecipati richiami, delle proprie partecipate istanze verso l’aperto splendore di una Promessa che nell’accensione ci nutre. Un grazie dunque ad Avogadri con l’invito a immergersi nella lettura in tanta aerea, concreta spazialità di trasformazione là “dove le radici/più forti si stringono alla terra”.

 

 


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