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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Storia di Shuggie Bain

Romanzo

Douglas Stuart
Mondadori

Recensione di Timothy Megaride
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Pubblicato il 16/07/2021 12:00:00

 

SHUGGIE BAIN

 

Ogni tanto, senza che abbia fatto una scelta precisa e consapevole, mi imbatto in uno di quegli scrittori che definisco dickensiani. Mi colpiscono, ovviamente, perché vi riconosco le mie radici, forsanche la mia sensibilità o, se si vuole, una sorta di imprinting letterario che ha fatto di me ciò che sono. Dickens è stato il primo scrittore nel quale mi sono imbattuto, a dodici anni più o meno, perché qualcuno mi ha messo tra le mani un’edizione ridotta di Oliver Twist, ritenendomi sufficientemente maturo per affrontare un libro tutto da solo. Tardi, probabilmente. Ma la mia storia personale è storia di ritardi, per necessità, mai per scelta. Sono nato e cresciuto in un ambiente nel quale i libri semplicemente non esistevano, sillabario a parte perché la scuola primaria era obbligatoria. Quanto alla lingua, non ne avevo nessuna, eccetto il frasario stantio della miseria e della disperazione. Mi esprimevo solo coi numeri, per me era più facile.

Non si va da nessuna parte con un capitale del genere. Devo alla scuola la mia completa alfabetizzazione e l’emancipazione linguistica; beninteso non a tutta la scuola, ma solo alla sua esigua parte meno retriva, probabilmente socialisteggiante, libertaria, umanitaria, non saprei, certamente di ascendenze onestamente antifasciste. Anch’io presi a parlare come un signorino bene educato, a dispetto dei cenciosi indumenti che indossavo. Esattamente come Shuggie Bain, il protagonista del romanzo che ho appena finito di leggere[1]. E, benché anche allora si dicesse che l’abito non fa il monaco, per molti dei miei insegnanti i malconci vestiti che indossavo denotavano la classe sociale di straccioni alla quale appartenevo. Non si è mai visto un pezzente parlare come un aristocratico o scrivere, si fa per dire, come Manzoni. Lasciamo perdere. Torniamo a Shuggie Bain.

Dicevo che il suo autore, Douglas Stuart, un giovane scrittore scozzese naturalizzato statunitense, riconosce il suo debito a Dickens non solo nella scelta dei temi e nello stile, ma anche lasciandosi sfuggire dalla penna espliciti echi dickensiani. Così, en passant, compare quasi per caso Oliver Twist (un personaggio somiglia a Fagin); di lì a poco troveremo Shuggie leggere ad alta voce brani di Danny il campione del mondo, un romanzo di Roald Dahl, scrittore di libri per ragazzi di evidenti ascendenze dickensiane.

Invito a leggere, da qualsiasi fonte, la biografia di Dickens, il più noto romanziere di età vittoriana, famoso per aver lasciato alla posterità i canoni del romanzo sociale, negli stessi anni in cui il socialismo europeo muoveva i primi passi e principiava a dare speranza agli esclusi. Lo sfruttamento indiscriminato della manodopera minorile, il feroce maltrattamento dei ragazzini, la miseria morale e materiale delle plebi, la necessità di giustizia sociale sono i temi ricorrenti dei suoi grandi romanzi e poco importa che la soluzione dei mali di allora sia affidata al buon cuore o all’inopinata conversione alla bontà di questo o quell’altro filantropo; resta ferma la denuncia associata alla sensibilizzazione dei lettori più accorti, tra i quali bisogna noverare gli educatori contemporanei e di là da venire.

È servita la lezione di Dickens, a dispetto dei suoi detrattori, perché il romanzo moderno trova nuova linfa proprio a partire dai temi da lui trattati. Gli emuli, sia pure a differenti livelli di resa, hanno fatto giungere la sua lezione fino a noi, coi necessari aggiustamenti di tiro, via via che la cultura evolveva verso forme meno retrive di conoscenza. È così che Dickens perviene al suo omologo scozzese contemporaneo e l’induce a scrivere un romanzo di grande spessore e qualità artistiche. Douglas Stuart, come Dickens, mette tutto se stesso nell’opera che offre alla valutazione dei lettori e lo fa come solo sa e può fare uno scrittore di razza, cioè trasformando il vissuto in segno rappresentativo che include milioni di vite e ne canta l’affanno e l’afflato.

A parziale verifica di quanto affermo suggerirei la visione del film Every Thing Will Be Fine (2015) di Wim Wenders. La critica non ne ha detto un gran bene, ma a me è piaciuto proprio per gli aspetti didascalici coi quali lo sceneggiatore tratteggia il carattere del protagonista, un acclamato e tormentato scrittore. Sugge le vite degli altri e cerca nella memoria personale riscontri plausibili. Si costringe a rivivere le pene dei personaggi per poterne dire con sufficiente cognizione di causa. La parola con la quale scolpisce, definisce, racconta è tanto più incisiva quanto più filtrata dalla viva percezione della materia. Un estenuante lavorio di introspezione e cesello che produce il grande romanzo.

È quel che accade a Douglas Stuart quando, in affreschi di ampissimo respiro, delinea il decennio thatcheriano in una Glasgow afflitta dalla crescente disoccupazione e dall’insufficiente, se non deleteria, politica sociale dei conservatori al potere. Un disastro umanitario dalle immani conseguenze che spinge gli abitanti delle degradate periferie urbane e dei tenement al livello di precaria sopravvivenza. Droga e alcool sono la fuga prediletta di un’umanità in subordine, miserevole antidoto alla condizione subumana nella quale è relegata.

Minuziosa la caratterizzazione dei personaggi, precisa la rappresentazione degli ambienti, incalzante la narrazione, incisivi i dialoghi. C’è dentro il romanzo non solo la perizia dello scrittore, ma l’esperienza del vissuto e del sofferto, se è vero, come sembra, che dietro il protagonista della vicenda si celi l’autore medesimo.

È un romanzo ottocentesco, alla Dickens appunto, ma con la marcia in più di un personaggio a tutto tondo che agli occhi di un uomo del XIX secolo, non per negligenza, ma per vizio di sapere, non appariva nella sua palpabile evidenza. Eppure, qualcuno può ben supporre che, tra le tante vessazioni subite dalla frotta di bambini rappresentati da Dickens, potesse esserci anche l’abuso sessuale e che gli atti di “bullismo” ai danni dei più deboli altro non fossero che un patente oltraggio alla diversità. E, se né storici né cronisti hanno mai speso mezza parola per una tipologia umana sfuggente e digressiva, oggi lo fa uno scrittore, restituendoci vivido l’autentico e doloroso dramma di un ragazzino “diverso” ben oltre gli orizzonti del politically correct imposto dal perbenismo di facciata. La diversità non conosce vincoli sociali, ma è tanto più amara negli ambienti del degrado e della miseria morale, nelle periferie delle grandi città, nei casermoni costruiti con poco denaro per dare una specie di tetto ai supposti nullatenenti, negli universi inesplorati delle retrive province. L’emarginazione e le vessazioni subite sono un peso intollerabile per un bambino “solo al mondo”, certo di non avere simili con cui confrontarsi, incapace di adeguarsi ad ancestrali modelli comportamentali che lo vorrebbero altro da quello che è e che non può non essere. D’accordo, nessuno sopporta d’essere altro da sé; ma l’educazione suasiva può ben domesticare e indurre alla cieca ubbidienza, soprattutto se il tornaconto, in termini di prestigio e sicurezza, è sufficientemente allettante. E tuttavia ci sono giovani puledri che non si lasciano cavalcare; non possono, per natura non possono accettare la cavezza.

Shuggie Bain è uno di questi. Non si appassiona al tramandato derby calcistico Celtic-Rangers (una specie di storica rivalità tra cattolici e protestanti, una guerra di religione in sedicesimo), benché provi ad apprenderne le memorabili prodezze da un libriccino che gli è stato regalato a mo’ di palliativo. Non intende le scazzottate “virili” dei coetanei, non riesce a modificare postura e tono di voce. Non può, semplicemente non può. Paga per ciò che è e non può non essere. Commuove, certo che commuove, ma non smuove nessuna coscienza, neppure qui da noi, in Italia, dove ancora si discute sull’opportunità di una legge cretina che regolamenta l’ovvietà e che dovrebbe già essere nel patrimonio genetico di tutti. Pare che i giovani se ne infischino della trivialità sacrilega dei loro padri e dei loro nonni, beceri tutori d’una pedagogia arcaica e primitiva che si crogiola nel privilegio del peccato. I giovani non peccano, si ribellano all’idiozia. Saranno loro, per forza di cose, a soppiantare una classe politica degenere e bacata per statuto. Animo ragazzi, dateci dentro! Il futuro vi appartiene. Dai vostri padri e dai vostri nonni avete poco da sperare. E non mancare di leggere Storia di Shuggie Bain, anche se nessun insegnante troverà mai il coraggio di proporvelo.

 

 


[1] Douglas Stuart, Storia di Shuggie Bain, Mondadori 2021




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