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Danza sulla mia tomba

Romanzo

Aidan Chambers
BUR

Recensione di Timothy Megaride
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Pubblicato il 27/01/2022 23:11:00

 

L’organo più esteso del nostro corpo è la pelle, il confine che ci separa dal resto del mondo, ma anche il primo rudimentale ponte che ad esso ci congiunge. È l’ampio sensore attraverso il quale il mondo penetra dentro di noi e ci fa sapere di esistere. L’oggetto invade il soggetto a colpi di stimoli. Prima che ci vengano in soccorso altri recettori (vista, udito, olfatto, gusto), la pelle legge gli stimoli e li classifica in maniera manichea: caldo-freddo, gradevole-sgradevole, bello-brutto, buono cattivo. Introietta le percezioni, le immagazzina in un angoletto della memoria e ne fa il primitivo metro di valutazione dell’oltreconfine, dell’altro da noi. È così che conosciamo lo straniero, “a pelle”, e lo giudichiamo, lo includiamo come “amico per la pelle” o lo respingiamo come avversario.

Queste forme rudimentali di conoscenza e di giudizio sono tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza, sia pure con qualche differenza di rilievo tra le due stagioni della vita. Nel primo caso gli ormoni interferiscono marginalmente, nel secondo sostanzialmente.

Quando tu cresci in un ambiente protetto, non fai a botte coi coetanei e non pratichi uno sport agonistico accade che l’imprinting della pelle sia l’unica chiave di lettura della realtà fenomenica (che peraltro non vedi). Sei categorico e intransigente nelle tue aspettative, non osservi il fenomeno, cerchi il noumeno dentro il quale ti crogioli e ti bei, fino ai sedici anni e passa, quando cioè i sogni bagnati aggiungono ulteriori improbabili connotazioni al tuo amico ideale.

Questo io desumo (e penso faccia qualsiasi altro lettore attento) dal bellissimo romanzo di Aidan Chambers, Danza sulla mia tomba. Suggerisco vivamente ai pochi lettori di queste note di leggere, ove mai non l’abbiano già fatto, questo straordinario Bildungsroman per nulla inferiore alle analoghe produzioni artistiche di Mark Twain, Kurt Vonnegut, Jerome David Salinger, scrittori ai quali Chambers rende esplicito omaggio, sia pure servendosi del dire partigiano dell’io narrante nonché protagonista della storia.  

Il giorno del loro primo incontro Henry (Hal) vede nella camera di Barry la riproduzione di un dipinto di David Hockney, Peter che esce dalla piscina di Nick. Il ragazzo conosce il pittore, lo apprezza per il nitore dello stile, ma non manca di manifestare qualche riserva. È palese il carattere prolettico delle sue osservazioni. Solo alla fine del lungo resoconto a due voci noi udremo dalla bocca di Kari il disvelamento dell’errore di prospettiva. Barry verrà finalmente inserito nell’universo fenomenico di cui fa parte. Chambers, in parole povere, ci dice che l’adolescenza è il breakdown dell’età evolutiva. Spetterebbe agli educatori sostenere adeguatamente il trauma della frattura, ma questo non avviene, ahimè! Si osservino attentamente i comportamenti degli educatori di questo romanzo e si capirà quanto siano inadeguati al ruolo. La terribile conseguenza di un’educazione distorta è che molti di noi restano prigionieri dell’adolescenza per tutta la vita e si rendono artefici o complici di disastri peggiori di quelli raccontati da Chambers. Occorre apprendere per tempo che le case della pubblicità di Mulino Bianco non esistono e non esisteranno mai, come non esiste la bella e linda casa di Barry. È un’illusione ottica, una messinscena non diversa dalla vetrina di un mobiliere.    

Tutto parte da una composizione, come una natura morta, un po’ troppo in posa per essere la vita vera, tutto molto pulito, luminoso nitido, arioso. Mi piaceva la loro qualità cristallina, la messa a fuoco assoluta, e la sensazione che ci fosse qualcosa di elusivo, qualcosa come in agguato dietro tanta studiata casualità.

Significa che non tutto ciò che ci piace è vero. E ciò che ci piace, malauguratamente, essendo d’acchito una “questione di pelle”, è necessariamente ingannevole.

Henry ricorda che molti dipinti di Hockney sono stanze abitate, una sorta di trompe-l'œil rovesciato che consente di spiare dentro le case della gente attraverso una finestra spalancata. Cosa accade veramente in quella stanza nessuno può saperlo con certezza, ma può certamente immaginarlo. È esattamente ciò che accade al fantasioso protagonista del film di Nella casa (2012) di François Ozon, qui ricordato perché, puta caso, risulta essere sceneggiatore e regista del film Estate ‘85 (2020) liberamente tratto dal romanzo di Chambers.

Sono il film recente e la conseguente riedizione italiana del libro le ragioni per cui ne scrivo. Al di là dell’appassionante storia narrata e, direi, narrata anche bene, mi attrae una sorta di efficace sintesi del plurimillenario discorso amoroso, che è ed è sempre stato un discorso, sia nelle formulazioni poetiche-letterarie che filosofiche. In altre parole, tutto ciò che sappiamo o abbiamo appreso sull’amore è prodotto di cultura, non di natura. Chambers, attraverso la voce di Kari, ci invita a fare i conti con la nostra ferinità, che è fatta di carne e sangue, biologia, chimica e fisica. Il discorso amoroso esclude troppo spesso l’apparente brutale confronto. Se provassimo a confrontarci con ciò che realmente siamo o i sistemi educativi ci aiutassero a farlo, probabilmente ci imbatteremmo in un fenomeno e non in un improbabile noumeno. Per quanto brutale, la realtà ci renderebbe saggi perché scopriremmo che nessuno di noi è una categoria, ma un individuo unico e irripetibile. Nessun altro essere umano ha il diritto di proprietà sui nostri corpi, tanto meno sulle nostre scelte. È vero che siamo animali sociali, ma lo siamo per scopi contingenti e limitati nel tempo e, soprattutto, per libera scelta. Alcuni antichi patti stipulati dai nostri lontani antenati non hanno più ragione d’essere. Ne stipuliamo di nuovi e più funzionali ai bisogni contemporanei. Anche il patto che riteniamo il fondamento delle nostre società, cioè il matrimonio-patrimonio, non può essere regolato da antiche culture agricole-pastorali quasi del tutto scomparse, ma dalle odierne società attive e dinamiche e fortemente coinvolte in un annoso, ma affascinante dibattito che cerca di conciliare i diritti dell’individuo (liberalismo) con la necessità della pace e dell’equilibrio sociali (socialismo). Potremmo provare a discuterne?

 


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