[Recensione di Maria Lenti]
Una poesia al giorno per la propria madre, dal riapparire della malattia (27 novembre 2021) fino alla sua morte (5 maggio 2022): l’avvertimento, le domande e il dolore, il suo viso e il suo amore per un amore di figlio con tutti i suoi sensi e il suo corpo vigili, affettuosi e, va da sé, straziati.
E un anticipo di quel che non sarà rassegnazione: “Come sarà quando tornerò qua senza te?/ Quale grazia verrà per me dall’abbandono?/ Vincerà il dolore o il ricordo?” (19 gennaio).
La madre è lì, consapevole del suo stato e del dolore del figlio. Quel figlio che la prende in sé giorno per giorno nei mesi dello spegnersi così come l’ha fermata, nel suo intimo, negli anni della sua vita; quel figlio che percepisce i rumori del silenzio, dei silenzi reciproci, che guarda nel profondo della madre e delle fibre sue, di figlio, prima o poi privato di una parte di quelle fibre; quel figlio apre spazio dentro di sé per la poesia perché resti l’intensità dei giorni e degli sguardi, delle poche parole e del tanto amore.
E lei, la madre: “Sabato di fuoriuscita/ dalle macerie del sogno/ ma sorridi alle otto e trenta/ già pronta come di ragazza/ alle tue piccole conquiste.” (2 aprile).
E lui, il figlio, non sapere più il suo dove, quando lei si spegne: “Non so dove sono” (5 maggio).
Se, come sappiamo, la poesia d’amore (in tutte le sue gradazioni e diramazioni e anfratti) è difficile, quella verso la propria madre (o verso i genitori) è ancora più difficile, a mio parere, entrando in risvolti di un vissuto di nervature e vene condivise in naturalità dalla nascita. In questa sua ultima raccolta, Di novembre, Gian Piero Stefanoni senza difficoltà arriva in alto: mescida, con sentire pieno eppure asciutto, presente e passato, sommovimenti e ripresa, sospensione di quel che accadrà e consapevolezza dell’inevitabile.
E confida, per un sempre, nella poesia.
E ha affidato alla poesia il diario del proprio esserci nei cinque mesi dell’addio.
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