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Per un secondo o un secolo

Poesia

Maurizio Cucchi
Lo Specchio - Mondadori

Recensione di Roberto Maggiani
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Pubblicato il 20/03/2009 15:47:00

Maurizio Cucchi è scrittore e critico letterario di spicco. E’ nato a Milano nel 1945, dove attualmente vive. Nella sua carriera ha collaborato a numerose riviste e quotidiani. Si impone alla critica e al pubblico già con la prima raccolta poetica del 1976, “Il Disperso”, Mondadori. Da allora ha pubblicato svariate opere poetiche. E’ invece del 2005 il suo primo romanzo, “Il male è nelle cose”, Mondadori. Leggendo i suoi libri non si può che riconoscere uno scrittore di qualità, capace di pensieri e modalità di scrittura eccelse. Le poesie di Cucchi sono godibili per la loro intensa nota di realismo. “Per un secondo o un secolo” è un viaggio appassionato, oltre confini verso terre ignote e città meravigliose: “Eppure ho varcato confini, / mi sono inoltrato con gioia e paura / verso terre, città meravigliose”. Le terre e le città di cui parla sono in realtà terre e città note, e la meraviglia di tali luoghi è data dalle garbate emozioni che l’autore vive e attraverso le quali trasfigura il mondo reale, ribaltando quella che pareva essere la caratteristica più marcata del suo scrivere, il realismo, in una sorta di visionarietà, che configura scenari a partire dalle sensazioni interiori del poeta, il quale si trova a non viaggiare più fisicamente ma con e nella propria immaginazione, riportando alla mente probabilmente esperienze passate e che adesso si svolgono, sotto nuove luci, sulla carta: “Sulla carta si sbizzarrisce il mio cuore, / perciò mi inoltro con Alberto / nel mondo antico di Villapizzone / […]”.
Il viaggio non è più possibile ormai, forse è andata persa quella spontanea enfasi di avventura, rimangono visioni nelle rughe: “L’oscillazione è semplice: tra avventura e angoscia. Ma chi è più forte: chi se ne va o chi resta? Ecco l’idea, estrema, dell’inoltrarsi. […] Però si intrecciano tra memoria e sogno queste visioni nelle rughe […]”.
Il poeta è forse più portato a compiere viaggi nel silenzio della luce, nelle forme, nei colori e nella semplicità di gesti congiunti, viaggi che avvengono in continuazione, senza sosta e senza una apparente meta. Ma, a ben vedere, una meta pare esserci, ed è la pace, una sorta di beatitudine che deriva dalla pausa dopo il molto andare a vuoto. Bellissima la poesia “Da Rimbaud – Al Cabaret Vert – le cinque della sera”: “Camminavo da una settimana e le mie scarpe erano a pezzi. / Sono entrato in città e al Cabaret Vert / ho chiesto pane, burro e prosciutto tiepido. / Ho steso le gambe sotto il tavolo verde, beato, / […] / ma che incanto quando la ragazza dai seni enormi e dagli occhi acuti / mi ha portato il prosciutto in un piatto colorato! / […] / e mi ha riempito un boccale immenso con la sua bella schiuma / dorata da un ultimo raggio di sole”.
Si può leggere l’intera raccolta alla luce della ricerca dello “star bene”, cioè della pace, una pace nello “schifo”, parola o concetto che sovente appare nel libro; la pace come bellezza, armonia che scaturisce dallo star bene con le persone, con sé stessi, è semplicità di intenti, virtù talvolta assente nel cuore dell’uomo, e del poeta in particolare, assenza che sbilancia verso il disagio e l’angoscia: “Cerchi le vette formidabili, le luci polari, / le bianche vastità dell’avventura, / ma poi trovi il ghiaccio dentro / e un buco nel cervello / ti crea il panico, ti disorienta / tra il bancone del bar e il portone di casa. / […]”.

Appaiono, inoltre, in questa breve ma intensa raccolta, molte interessanti sfaccettature della psicologia umana. In particolare mi ha colpito la forte connotazione, mi si passi la parola, "egoistica" dei testi, nel senso che attraverso di essi l'autore rivolge molta attenzione alle proprie percezioni, più o meno emotive, tendenza così esplicitata: “Non ho voluto mai sapere il contenuto, / la trama, il meccanismo del giocattolo. / Neppure da bambino, indifferente / agli ingranaggi, a quello che c’è dentro. / Ma per fortuna non sono più / l’esangue fanciullo sparuto / e mi ha salvato l’egoismo”. Materialità, sensazioni, affetti, amicizia (“[…] Ma la materia, / Marco, è solidissima e lieve, / che quasi vola nelle forme / astratte o di pasta, vivide / dei suoi colori, nel gioco / dei suoi fili che vagano / e si intrecciano. / […]”), tutto è rivolto a sé, come verso un unico grande attrattore, il centro di un universo che appare in disagio. A questo centro viene riportato ogni debole tentativo di fuga: “Chi è quello che va lassù, / lento sulla cresta a mento basso, / sagoma ombrosa che si accende di sé?”. Ma questa sorta di egoismo cosmico dell’uomo, viene trasfigurato dalla musicalità dei versi che diventano, per il poeta, una sorta di danza liberatoria che lo conduce verso un sé stesso nuovo, dove l’amicizia o l’amore sono il lago dell’incontro dei fiumi che scorrendo, costretti, giungono, dalle gole impervie dell'io, a sfociare, con i desideri più intimi, in una sorta di unità ritrovata: “Questa volta ho sognato / che ci siamo persi in due / nell’incubo nebbioso, / accogliente, della periferia / […]”. Ma tale pace sembra avere soltanto un carattere transitorio. Un bel libro, consigliato in particolare a coloro che vogliano imparare la scrittura in versi a partire dal proprio vissuto quotidiano, imparando da quella acutezza e quella nettezza tipica di Cucchi: “M’infilo nel portafogli del mio letto / come una carta d’identità scaduta. / Amo, del resto, questa mia fronte spaziosa / che giorno per giorno immagino e coltivo”.

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