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Racconto d’inverno

Romanzo

Leonardo Bonetti
Marietti 1820

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 20/12/2013 12:00:00

 

Un uomo fugge da una guerra, in un’epoca ed un luogo non precisati, sembra un tempo appena trascorso, o forse che sta per accadere, lo sfondo però è ben riconoscibile, anzi minuziosamente descritto: la montagna. L’uomo, presentato come uno sbandato, cacciato ai margini della società maciullata dalla guerra, vive di espedienti, o meglio, sopravvive, tentando di fuggire. Nel corso delle sue peregrinazioni giunge presso una casa, circondata da una faggeta. L’unico abitante della casa si offre di condurlo al confine di quello Stato, oltre il quale troverà la pace, forse. Il cammino inizia, le difficoltà ed i tentennamenti sono molteplici, fra i due uomini si crea presto una certa ostilità che lo sbandato vive come aggressività, mentre l’altro sembra subire quasi di buon grado. Il percorso è ignoto, si svelerà man mano alle coscienze dei due, qualora essi vogliano realmente trovarlo, ma le avversità o la non volontà li spingono a tornare verso la casa nella faggeta. La casa si presenta quasi come un cubo di Rubik, fatta di stanze tutte uguali, l’una che si apre nell’altra, con porte murate, passaggi sbarrati e finestre che danno direttamente sul fianco della montagna. Nella casa, oltre i due uomini, un’altra presenza, o forse una assenza, la sorella del padrone di casa, scomparsa a causa della guerra. Nella casa l’uomo in fuga cerca di ritrovare la ragazza, inizia una spasmodica ricerca dentro e nei dintorni della casa. Il fuggiasco inizia l’esplorazione della casa cominciando dal piano interrato ove ribolle una sorta di melma primordiale, che tutto ammuffisce e digerisce, oscurità e strani scrosci d’acqua incorniciano un misterioso luogo, ed il romanzo si vena di mistero alchemico, forse è proprio qua che ha visto la luce la ragazza scomparsa, quasi un ricordo delle “Nozze alchemiche” di Rosenkreutz.  Il primo piano che dall’esterno della casa è palese, ma dove pare non si possa metter piede è solidamente murato e cela una sterminata biblioteca rosa da miriadi di ratti. Bonetti depone in questo piano il sapere antico, la conoscenza classica che viene divorata dai mali della società contemporanea.

Uscendo dalla casa la presenza più evidente è la faggeta che la circonda forse a simboleggiare la natura piegata dall’uomo, (numerosi sono gli alberi abbattuti) o anche il sapere ottenuto con l’uso sapiente di certe essenze vegetali. Ma  è nel successivo romanzo di Bonetti “Racconto di primavera” che la faggeta acquisisce un ruolo da protagonista, qua velatamente accennato, ma è il bosco quel luogo di passaggio e culla dell’uomo, protezione ma anche smarrimento, mèta o inizio della ricerca di Bonetti. Ilbosco come luogo che la natura ci dona come casa, ancor più delle abitazioni medesime, il focolare, fulcro dei legami è racchiuso nel bosco. Soprattutto la faggeta circonda, lambisce la misteriosa casa, prigionia e anche protezione dell’uomo, eterno monito a non abbandonare la radice seppur nella spasmodica spinta verso la ricerca. Nei passaggi attraverso questi ambienti il dentro e il fuori, il cuore caldo e pulsante, l’arcana faggeta, la brulicante biblioteca, e, naturalmente le stanze abbandonate, vissute o mai abitate ma pronte per accogliere chi vi giunge, Bonetti sottolinea e porta avanti la ricerca dell’uomo che si delinea come ricerca di qualcosa di profondo, che si sente celato dentro di sé ma che non riesce a portare alla luce.

Schematizzando il romanzo attraverso la varietà degli ambienti creati potremmo tentare un analisi in base alle loro caratteristiche. Il passaggio attraverso la montagna inseguito dagli echi della guerra è il voler rifuggire la società, cercare un modo per cambiare lo stato delle cose. La zona sotterranea e ribollente è una sorta di grembo materno, il grembo stesso della terra che ribolle di mistero, tutto viene da esso corrotto, ma da esso rinasce, in forma nuova. Le stanze che l’uomo ha modo di visitare rappresentano l’abbandono della consuetudine, l’ambiente più caro all’uomo, quello domestico, stravolto e caricato di significati misteriosi inerenti la ricerca e l’abbandono, il voler comporre una esistenza e le lacerazioni che questo inevitabilmente comporta. La biblioteca murata è il sapere acquisito, la conoscenza così come ci viene tramandata, trasmessa,ci giunge attraverso i secoli, importante, basilare, sta alla base dell’edificio, ma che la società corrompe, la trasforma in qualcosa di ripugnante e non fa nulla per salvaguardare, anzi se ne nutre, trasformandola in materiale organico. L’uomo facendo proprio il sapere alimenta sé stesso, ma inevitabilmente lo corrompe, ne modifica la forma.

Attraverso tutte queste fasi, immerse in un clima in bilico fra un sogno e una metafora, con pennellate alla Schnitzler, l’uomo che fugge appare più come un uomo che cerca, cerca la donna misteriosa, cerca la letteratura. Ed alla fine la troverà, misurandosi coi propri fantasmi, il proprio sapere, le paure, gli abbandoni e le illusioni. Trovandola non potrà più avere la sua vita intatta come l’ha vissuta sino a quel momento, si deve far carico della letteratura, viverla (amarla, sino ad un amplesso) da cui la letteratura stessa uscirà dilaniata (squarciata da immane parto?) e così anche l’uomo non può più essere il medesimo, muore a sé stesso per rinascere alla letteratura.

Come emerge da queste brevi note il racconto si colloca in una dimensione immaginaria, appare come una grande, tondeggiante, metafora in cui il lettore è chiamato a raccogliere elementi utili, confrontarli con la sua stessa vita sino ad una sorta di immedesimazione con il protagonista. Inizia con questo romanzo la quadrilogia che Bonetti dedica alle stagioni, e rappresenta la radice di un grande albero, traente nutrimento dai millenni passati, letteratura, alchimia, ricerca spasmodica di una dimensione, ricerca della letteratura medesima. Dall’albero al bosco rappresentato dalla faggeta che sembra osservare tutto coi suoi occhi muti; immobile, in attesa che l’uomo compia il suo viaggio, che lo riporterà a cercarne la saggezza, ad invocare il sapere della natura. La natura sarà ancora al suo posto, quando si tratterà di proteggere di nuovo degli esseri umani, e giungiamo a “Racconto di primavera”, che si apre su di un bosco, forse lo stesso che circondava frusciando la misteriosa casa, a sottolineare l’immobilità della natura che vede nel suo cuore le spasmodiche ricerche di suo figlio, l’uomo. Un sapere vegetale da cui scaturisce il sapere prettamente animale dell’umanità, antica saggezza e ricchezza per il futuro

.Anche in questo primo romanzo della quadrilogia, la scrittura di Bonetti si fa ammirare per la sottile precisione e il ritmo incalzante che avvolge il lettore trasportandolo in un'altra dimensione, nel mondo di Bonetti, fatto di metafore calibrate, di frasi dalla precisione musicale e millimetrica. Una lingua curata, misurata, da cui trapela una grande cultura ed un profondo rispetto per essa e con il mirabile aspetto di non scivolare mai nella saccenza. Un libro molto bello che richiede forse più di una lettura per esser colto appieno nelle sue mille sfaccettature e per raccogliere gli indizi di cui è disseminato, i quali nascondono molto più di quello che le parole dicono.

 

*

 

Un divertissement

la scrittura singolare e fortemente sinfonica di Bonetti mi ha ispirato un innocente giuoco. Leggendo il libro nelle sue prime parti con i due uomini a contatto con la scabra montagna mi ha ricordato certe tinte presenti nella sinfonia Manfred di Čajkovskij. Beninteso, anche la fuga del personaggio creato da Byron potrebbe dare adito a sovrapposizioni o rimandi, ma il paragone che mi pare più calzante e con la sinfonia che il grande musicista russo compose nel 1885.

Ho voluto dare il sottotitolo a queste note di divertissement poiché non rappresentano una analisi sistematica od approfondita, ma semplicemente si basano su delle mie sensazioni, diciamo che ho notato certe assonanze e certe associazioni di colori fra le due opere. Non direi Pëtr Il'ič Čajkovskij,vs Leonardo Bonetti, o quest’ultimo rilegge il precedente, no no, piuttosto propongo una colonna sonora alla lettura, basandomi su mie personalissime sensazioni. I lettori più sensibili, od esigenti mi scuseranno la divagazione.

La parte della montagna pare riecheggiare delle note del Manfred di Čajkovskij, quel Lento lugubre che apre la sinfonia, sembra fare da contrappunto al vagare tra le cime montuose, tra crepacci e improvvisi ostacoli, con quel senso di gravida attesa che dipinge le prime parti del Racconto d’inverno. Il vivace con spirito invece sembra animare di mille spiriti la faggeta che circonda la casa, fa risuonare la speranza di libertà che il protagonista ad un tratto prova, ma che con subitaneo intestardirsi decide di procrastinare, scopre che la sua missione è nella casa, solo attraversando quegli ambienti potrà ritrovare sé stesso e potersene così andare, integro. Andarsene prima significherebbe non ritrovare mai più sé stesso. Sempre in questo movimento della sinfonia abbiamo anche le parti che coi timpani e il cadere della tensione verso coloriture più oscure sottolineano il passaggio al grembo della madre terra. Per restare sulle note di Čajkovskij, l’andante con moto accompagna protagonista e lettore attraverso le stanze, fa zampillare la fontana del cortile, schiude il cancello, vede i topi fuggire a frotte. Ed è nell’allegro con fuoco finale che la musica sottolinea quel grande travaglio che giunge cupo, perverso ma illuminante ad un epilogo, atteso e desiderato quanto temuto. la musica si fa minacciosa, veloce, ma non trova una pace, un compimento, molto deve accadere, il ritmo si fa incalzante, l’uomo deve morire, deve nascere, il tempo è giunto al termine, la ricerca sembra terminata, o forse è giunta semplicemente ad un nuovo inizio.

 


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