In questa originalissima silloge di Roberto Corsi una particolare attenzione meritano gli exerga (pag.8) che offrono al lettore importanti chiavi di lettura, a cominciare dalla citazione da Pasolini: Ecco quindi la mia conclusione: la rassegnazione non ha nulla da invidiare all’eroismo, la cui comprensione passa anche attraverso la considerazione di una sfumatura psicologica introdotta da una seconda citazione da Miłosz, il quale si chiede perché i poeti per lo più si vergognino di mettere a nudo la loro debolezza. Atteggiamento, quest’ultimo, smentito dall’autore, ma con effetti ambigui, attraverso un’acuta, ilare-grottesca auto-analisi (portata avanti non senza un’abbondanza di dettagli intimi), che però non serve ad assicurargli una piena assoluzione di fronte a sé stesso e agli altri.
La terza citazione da Franco Arminio siamo sospesi tra un passato che non passa e un futuro che è già passato sembra mettere in relazione questi due atteggiamenti, rassegnazione e debolezza, con quell’acuta percezione (propria di coscienze ipertrofiche particolarmente attente agli accadimenti personali e a quelli del mondo come lo è quella di Corsi) del tempo quale costante de-lusione di progettualità sia soggettiva che storica.
L’atteggiamento della rassegnazione, infatti, sembra solo in parte trovare la sua giustificazione in una sorta d’innata inettitudine di memoria sveviana, fatta per altro oggetto, come si è anticipato, diuna corrosiva quanto spiazzante auto-ironia diversamente atteggiata da quella dello scrittore triestino. Essa ha molto a che fare, invece, con la mutata percezione del ruolo del poeta e della poesia nella società attuale fino all’errato convincimento di una sua identificazione con la figura di un intellettuale impegnato, naturalmente di sinistra (anche se in questo nostro tempo sarebbe difficile riconoscerlo a seguito di una trasformazione profonda dell’idea e della pratica della politica), intendendo, fra l’altro, come impegno non tanto, o almeno non solo, un coinvolgimento di natura etico-intellettuale, ma una sorta di propensione all’ostentazione mass-mediale di sé stessi e della propria produzione artistica ideologizzata ed asservita agli interessi di partito.
La rassegnazione, dunque, più che un’innata inclinazione, si delinea come un sentimento reattivo di fronte ad un’incapacità di comprendere il mondo attuale e di trovare in esso uno spazio soddisfacente, a seguito di un’insanabile frattura che fa sentire un certo tipo d’intellettuale (come Corsi) sempre più fuori posto e inadatto.
I fallimenti privati nella sfera erotica, raccontati dall’autore con varianti e notazioni acutissime, sono metafore di un venire meno dell’adesione allo slancio vitalistico, di uno slittamento progressivo verso l’assurdità esistenziale della vita, che non può essere risolta se non con l’annientamento.
I cinquantasei testi che compongono la silloge di Corsi, si configurano, infatti, quali capitoli di un romanzo tragico, o, se si vuole, di una dolente confessione autobiografica (pervasa da una sensibilità poetica sostenuta da un ritmo interiore più che dalla musica degli schemi retorici), come si evince dalla sostituzione di ius con il proprio nome Robertus all’interno di una locuzione uti lingua nuncupassit ita ius esto, che era un formula testamentaria orale.
Tale affidamento all’oralità non fa che dare il colpo di grazia a certi dati di fatto, assunti orgogliosamente come riflessioni personali: il giudizio di inutilità del prodotto poetico, l’impossibile scommessa sull’incidenza dell’arte, l’utopia della sopravvivenza post-mortem, su cui l’autore più volte si trova a riflettere fra ironia e sconforto.
Il quarantottesimo testo, infatti, è una denuncia della desacralizzazione della poesia, dell’umiliante compravendita della notorietà e, dunque, della decisione da parte di Corsi di un’autoesclusione (“Cari tutti, / io mi sono fermato, ho ruminato a lungo i versi imparando/ a vararli da solo, danzando smorzando il silenzio degli altèri. E ho visto negli occhi/ di chi non ha saputo dir basta, scialando assegni a quattro zeri per proclamarsi/ e farsi proclamare poeta, il lampo del dubbio d’irrilevanza, come esantema/ improvviso in vecchiaia: non è cosa da augurare”, pag.63) da questo spesso sordido inganno a favore della salvaguardia di una passione (o abitudine, o vocazione, oppure ostinazione?) a cui non gli riesce di sottrarsi, nonostante tutto.
Dunque, c’è sempre uno scarto, “uno scompenso”, per citare ancora Svevo, “fra l’orientamento che l’individuo dà alla propria vita, e la curva che poi la vita descrive”: da esso si originano la paura, la rinuncia, la solitudine, ma anche la covatura ostinata di un sogno di rivolta estrema che è quello di mandare all’aria non solo la propria vita, ma il mondo tutto, che è poi lo stesso dell’inetto Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno: “Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udirà e la Terra, ritornata alla sua forma nebulosa, errerà nei cieli, priva di parassiti e di malattie”.
La morte, il mare, l’amore sono i tre costanti co-protagonisti di questa narrazione poetica, ma gli ultimi due interpretano soltanto il ruolo di messaggeri di cui la prima si serve per annunciarsi continuamente al mondo, ché il mare dentro lo scrigno germina la rappresentazione del dolore, nasconde creature orrifiche, vomita sulla spiaggia frantumi, scorie, carcasse irriconoscibili (“cane, felino o nutria gigante”, LV, pag. 69)
Il mare di Corsi non ha nulla a che vedere con quello montaliano, simbolo di auto-purificazione, maestro di metamorfosi etiche; e le sue aguglie sono assai dissimili dalle anguille del poeta ligure, sebbene le richiamino per le loro forme “eleganti e oblunghe”, poiché non si fanno come quelle metafore del guizzo erotico vitale e procreativo, ma, al contrario, della morte affrontata con “occhio placido (…) senz’alcuna fibrilla di rimpianto!”, (pag.32).
L’amore, sottratto ad ogni idealità, sottomesso ad altri scopi e materiali intendimenti piuttosto che alla verità del sentimento, porta con sé un inevitabile sconfitta, un groviglio di dolore e tramortimenti interiori; si identifica tutt’al più con l’eros, con la sua ingannevole persuasione alla legge della procreazione, illusione d’eternità, che è invece calco in cui verrà colata la storia di tante morti future.
Né la donna è l’angelo dello Stilnovo, presente anche nei versi del pur pessimista Montale; infatti, non ascende mai verso orizzonti metafisici, ma resta sempre creatura terrena, assolutamente imperfetta, non bastevole, sebbene desiderata e qualche volta per poco vagheggiata come carne da conquistare, da conoscere attraverso i sensi. Se qualcuna di loro rimane legata ad un sentimento di rimpianto, è perché non è mai stata posseduta e si è come cristallizzata in una sorta di intangibilità, di lontananza onirica. Però, tutto sommato, è sempre l’eros l’unica prospettiva per una vita, definita, in modo sorprendente, un “ricciolo di pube”.
È la morte, dunque, la compagna costante della vita. L’autore la mette in scena già a partire dal suo mondo infantile, quando teme, leggendo per caso, su dei biglietti emessi dalla SALT, che “ la compagnia non risponde/ di morte o danni a persone e cose durante il tragitto”. Da allora egli viene abitato permanentemente dal panico di perdere i propri genitori. Così Corsi racconta questo incontro con la paura dell’assenza: “Questo il battesimo di Madame La Mort, la marchiatura a fuoco dell’umano/ nel burroso cervello di bimbo” (XII, pag.23). Eppure, il poeta non evita, in altri suoi testi, di analizzare un rapporto sostanzialmente fallimentare con i suoi genitori, scuotendo da questo sentimento archetipale ogni adesione a formule scontate e sostanzialmente ipocrite.
La desacralizzazione dei sentimenti, della Natura, dell’Amore non equivalgono, però, ad una concezione senz’altro nichilista. Tornando alla citazione da Pasolini quella “rassegnazione che non ha nulla da invidiare all’eroismo” si sostanzia di un’idealità fortemente tradita, di una sofferente consapevolezza di un’impossibile ritorno al mito della purezza; al mito, anzi in sé, come parola di grazia, come poesia.
In questo senso lo sguardo di Corsi sul mondo e su se stesso mi sembra molto simile a quello di Jep Gambardella (protagonista del film La Grande Bellezza di Sorrentino), che a sua volta ricorda lo sdegno mimetizzato da scialo dello scrittore Petronio, testimone della viziosa e babelica società romana al tempo dell’impero corrotto e crudele di Nerone, assimilabile a quella contemporanea. Ad un certo punto del film Jep confessa: “Ho cercato la grande bellezza e non l’ho mai trovata”, e non credo che un’affermazione simile sia lontana dal definire il percorso intellettuale di Corsi.
Pasolini così raccomandava ai giovani impanati nel brodo qualunquista della società borghese: “A tutto ciò si sfugge solo attraverso una esercitazione puntigliosa ed implacabile dell’intelligenza, dello spirito critico.”
È quello che fa instancabilmente Corsi. Il suo eroismo è la rinuncia ai falsi valori della società mass-mediale, l’esilio coatto ma puro ed intransigente, la resistenza interiore, quella resistenza-rassegnazione che l’assimila al destino di una cozza che si aggrappa a qualsiasi scoglio dove potere sopravvivere e difendere sé stessa tra il chiuso delle sue valve, fra l’altro imitate (e, secondo me, non è un particolare banale) dall’impostazione grafica dei testi che si dispongono lungo l’orizzontalità delle pagine, imponendo, a volte, un loro forzato spalancamento che consenta la lettura degli ultimi versi nascosti lungo le ombre prossime alla cucitura. Per non dire che tale disposizione mi sembra anche alludere alla piattezza del contesto sociale ed all’impossibilità di verticalismi metafisici della poesia contemporanea, ma forse vado troppo in là con la lettura di certi dettagli.
Tutto questo è detto da Corsi attraverso un linguaggio stupefacente, che, se per la lunghezza dei versi ed il tono prevalentemente narrativo, rimanda alla prosa, in realtà, per la costante tenuta ritmica, si rivela piuttosto un tentativo di lirica camuffata, che tuttavia non di rado affiora allo scoperto con versi di improvvisa e spiazzante luminosità iconica.
Ma la caratteristica più eclatante di questo linguaggio poetico è il suo febbrile impasto di aulicità e colloquialità (che fa pensare a Gadda, ma anche ai testi cinematografici di Pasolini), di raffinatezza e volgarità, il suo pullulare di citazioni, di luoghi topici, come di invenzioni originalissime, attestanti sia una lunga e ricca pratica di lettura, sia un esercizio severo, al limite dell’intransigenza, per trovare la parola esatta, vera, sferzante, provocatoria, nuova, che giunga al lettore con la precisione di una freccia che voglia ferire (pratica così nota, per esempio, a Céline). Gli echi intessuti in questa tramatura assai scenografica di versi, sono molteplici e vari: le tragedie greche e le favole, la letteratura e le canzoni, gli articoli giornalistici e i saggi, le opere scientifiche e i libretti di musica, i personaggi cinematografici e quelli del mondo sportivo. All’interno dei versi risuonano molte lingue: il francese, il tedesco, il latino, e anche espressioni dell’area dialettale tosco-emiliana.
È evidente, allora, che l’autore non mira, come scrive il prefatore Massimo Seriacopi, a “captare i gusti di un eventuale pubblico per blandirlo e conquistarne consensi e acquisti”. Del resto Pasolini, che a me sembra il punto di riferimento più importante per Corsi, così metteva in guardia gli intellettuali: “Il successo è l’altra faccia della persecuzione”.
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