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Fino alla teoria dei tre simulacri

Argomento: Poesia

di Manuel Paolino
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Pubblicato il 30/07/2016 12:59:36

Poesie fatte di versicoli, prive di rime, prive di punteggiatura, composte da parole, scolpite, levigate, semplici, attirate verso il basso come dalla gravità. Perchè umane. Poesie fatte di suoni ed armonie, di matafore ardite; e ancora d’amore, di sogni, d’elementi e di consapevole sofferenza. Liriche che riflettono su se stesse e sul proprio essere, dentro ad un intenso universo poetico fantastico e segreto, visionario e romantico. Un mondo d’Altrove da cui misteriosamente – anche per il poeta stesso – trae origine l’ispirazione: dimensione artistica in cui realtà e sogno, poeta e poesia, si plasmano confondendosi in un’unica sensibile esistenza.

 

*   

 

Una delle cose che penso di aver capito fin qui è che se la poesia diviene un potere dell’uomo/poeta, capace di carpire lo spirito della musa dai luoghi, dalle storie, dalle cose nello spazio attorno, è perchè costui, scelto da quell’ignoto dove le stesse parole vengono forgiate, liberate, e verso il quale sempre sarà istintivamente sospinto, è passato per un addestramento fatto di innumerevoli possessioni, subitanee, inattese, alle volte attese. Il poeta si trasforma non soltanto in un essere umano con un dono, ma in un uomo speciale che utilizza un dono a seconda della propria volontà, in sintonia con la musa. In questo senso sì, allora, egli può essere paragonato ad un veggente

 

* 

 

Un dialolgo può essere un monologo fra due cori quasi identici; un racconto caraibico; una scena tra le fibre di un sogno che non si slegano fino all’ultima panoramica; uno scambio fugace di battute fra due amici, semplice e profondo. Nella poesia non si vede spesso, eppure questo stile non sarà certamento sfuggito a molti lettori. 

La poesia è un dialogo, un dialogo con chi legge, alle volte oscuro, autoreferenziale, diretto verso lo stesso poeta, del poeta. Ma esisterà sempre un lettore in ascolto, oggi, o fra cent’anni. Tuttavia ci sono casi in cui la poesia per necessità si sente sensibile alla pressione esercitata dell’emersione di una forma espressiva più pura, sorella della prosa, ma non gemella. Ecco allora nascere delle liriche assolutamente uniche, dove il dialogo che si svolge all’interno dei versi esibisce spesso s’una passerella i confini del sogno, di una scena, di una sceneggiatura che s’anima all’infinito nella mente e nella vita del poeta, e che acquisisce invece un respiro autentico negli occhi dello spettattore.

Vediamo cinque esempi tratti da miei lavori, in uno dei quali la voce del poeta diviene cantilena extradiegetica, per poi mutare in un lamento femminile. Mediante un raccordo la protagonista compare ravvicinata alla visione del lettore, in primo piano, e con il suo monologo scandito[1]; la voce del poeta può diventare anche quella di un narratore invisibile, realista, che introduce e sospinge liricamente dei puri dialoghi in forma di versi, tra le pennellate di un dipinto in movimento[2]; oppure può comparire come una personale testimonianza onirica[3]; o scorrere nei riflessi di una filastrocca infantile e notturna[4]; infine, il poeta tramuta ancora la sua voce in scrittura volta alla descrizione d’un incontro e di una separazione amichevoli. E di un’unione stilistica[5].

 

*   

 

Vorrei cominciare con voi lettori un breve viaggio, accompagnati da alcune mie poesie, per provare a tirare delle somme una volta individuata la direzione e forse la meta di questo cammino.

Mi è capitato in passato di scrivere liriche soffermandomi sulla definizione di poesia e di poeta, tradotta con una ricerca sospinta dai versi figli dell’ispirazione; il dettato spirituale, che pone sull’attenti ogni poeta, o almeno così dovrebbe. Devo precisare tuttavia, a questo proposito, che il mio percorso poetico si è diviso in due fasi, la prima delle quali legata a questo concetto di poesia che cade dal cielo, la seconda inerente ad una poesia nelle mani del poeta, dove mediante quei luoghi sepolti che usai simbolicamente per affermare la riscoperta di una nascita – prima sommersi e in seguito fatti riaffiorare grazie al consapevole dono del poeta – mi ritrovai di fronte ad un nuovo corso.

Restando per il momento dentro la prima fase, ecco comparire attraverso dei versicoli scarni, nudi, attirati chiaramente verso il basso dalla gravità – come delle pietre gettate in aria – i primordiali effeti della musa, concessa al mio sguardo in alcune penombre con pochi vestiti a ricoprirle il corpo[6]; anche il personale ruolo del poeta, nella genesi della mia visione inizia a definirsi[7].

Abbandonati i versi lapidari ed entrato a stretto contatto con molti poeti quali Poe e Baudelaire, alla mia ossessione per la purezza poetica individuata nella poesia pura – quella che comincia proprio da questi e si evolve fino ai poeti maledetti del simbolismo francese, si contorce nell’oscurità mallarmeana e nell’ermetismo italiano (ma si manifesta davvero trasparente ne L’allegria di Ungaretti), fino ad approdare ai poeti cubani e a quelli dominicani della poesia sorprendida, passando per la Generazione del ’27 spagnola – si associa di pari passo un’indagine più approfondita, mediante quella veggenza, che assimilo e rielaboro con una definizione, cioè ricerca in direzione della Luce.

Definisco il mio viaggio come ermetico, fatto di iniziazioni, dove il protagonista è Ateop, o Leunam (personaggi di alcuni miei momenti poetici), insomma il poeta. Un viaggio avviato in un tempo lontano: quando da critico cinematografico analizzavo il blues, i suoi testi, e i film che il blues aveva ispirato. Il canto dei neri ha saputo diventare vera poesia (o forse lo era già), con la poesia negrista antilliana, per esempio.

Ma sto divagando. Cosa centrano insieme la voce di un uomo di colore, la veggenza rimbaudiana, ed Ermete Trismegisto? Forse c’è di mezzo Dio, Padre o Madre che sia. Da dove nasce questo desiderio di confrontarsi con il divino? Forse dal volere inconscio del poeta di avvicinarsi, senza far rumore, a lui, allontanandosi al medesimo tempo[8].

Ma per quanto provi a farlo, per quanto cerchi di avvicinarsi a Dio, il poeta non potrà che manifestare un amore e allo stesso tempo una ribellione nei confronti di qualcuno che sente d’amare, senza però voler rinunciare a un solo briciolo della propria umanità; perchè se Ermete nel Corpus hermeticum afferma, come pure molte religioni, che l’uomo è Dio e tale deve coscientemente essere per dimorare un giorno al suo fianco, il poeta, da parte sua, sostiene invece che è Dio a dovere essere uomo[9]. La risposta di Ermete non tarderà ad arrivare; si concluderà con un’ultima domanda, che sarebbe sconvolgente ai fini della ricerca del poeta se non fosse che essa risuona alle sue orecchie come una eco sempre più dispersa[10].

Ma il viaggio del poeta puro non è finito, ed anche se egli s’agita nella sua purezza umana, è piccolo di fronte a Dio, è un suo servo; come Dio, immenso, è servo del poeta; ancora di più perchè questo non rinuncia ai suoi vizi e ad amare l’infinito limite dell’aldilà, ricevendone i segni, sottoforma di versi macchiati dall’umano spirito, e per questo sempre vergini. Poichè ci sono passati e sogni che non si lasciano cambiare. 

Allora il poeta prega per esorcizzare la sua dannazione, per esorcizzare le sfaccettature di un dio che ci è stato tramandato da mani spesso impure e per sollevare ulteriori domande che hanno a che fare con gli atavici rapporti tra Eros e Thanatos, e che più di ogni altra cosa egli teme, lo innervosiscono, invoca per la malvagità, seppur cosciente dell’amore di un dio[11]. Domande che vede risolversi nelle sue visioni oniriche con un’indecifrabile luce irradiante negli squarci della vita[12].

 

*   

 

Ci sono le statue di Ermete Trismegisto, quelle divine, perchè contenenti il divino, simulacri di un essere celestiale, poderoso e a differenza degli umani, immortale. Le statue parlano, per il vate egiziano, sono portatrici di verità mistiche, teologiche e filosofiche.

Ma non solo le statue degli dei, illuminate da un fascio accecante al centro di templi suggestivi, anche gli oggetti divengono talismani, simulacri di una poderosità che si espande con altrettanta forza nella mano di chi li custodisce. 

L'alchimia tanto palesata parlando dell'ermetismo, della sua evoluzione attraverso i secoli ed i luoghi, parte proprio da qui, dalle parole del Corpus hermeticum, che altro non è se non un testo teologico, il quale espone una teoria religiosa molto vicina a quella che sarà la dottrina cristiana, nella sua visione anche più estrema, verticale e intransigente. 

Tuttavia le statue di cui accenna Ermete sono pure la chiara testimonianza di una realtà storica, quella ellenistica, quella di tantissimi popoli che facevano del culto verso i propri dei una ragione di vita. E di morte.

I numi erano reali, clementi o terribili, parlavano o tacevano ogni giorno. Si manifestavano mediante gli eventi della natura e degli uomini, in tutti i luoghi del Medio Oriente, fino alle lande più selvagge e superstiziose dell'Europa, e con essi le persone interagivano continuamente, offrendo vita e sangue.

Per un poeta come me, appassionato di storia antica e poesia, tutto ciò è estremamente affascinante e senza dubbio più complesso di quanto abbia esposto finora, ma niente di nuovo. Se non per un piccolo particolare. I simulacri divini non si riducono alle pietre sinuose o agli oggetti alchemici, o al talismano di Diomede, pastore di eroi; esistono altri due simulacri.

Il poeta è un simulacro di carne che s’immola ad una forma più alta di espressione del pensiero e di verità attraverso una sottomissione ad un sistema arcano, e ad una predisposizione capace di ampliarsi con gli anni, fino al controllo sistematico ma non totale di questo potere, che s’interpone tra il poeta ed il terzo simulacro con un vero e proprio luminoso dettato.   

Se quel fascio di luce che spezzava l’oscurità dei templi degli achei si riversava sulle statue divine, di riflesso esso dilaga anche sui poeti, e da questi acquista ulteriore forza fino al suo espandersi sul componimento poetico, il quale assume al suo termine la sembianza d’una nuova statua; ininterotta, perchè a differenza della pietra destinata inesorabilmente a divenire sabbia in qualche meandro del tempo, la parola non muore, ma si tramanda. In questo senso sì, allora, la parola ermetica acquista quella profondità abissale che si sviluppa su moltitudini di livelli interpretativi.

Ecco quindi che il terzo simulacro non è fatto di pietra, né di carne, ma di versi. Tre veicoli del divino, tre indizi d’una rotta spirituale.    



[1] Vedi Il pianto della naiade.

[2] Vedi La compagnia dell’Ovest.

[3] Vedi Il Campo di Martin.

[4] Vedi Come Gordon Pym.

[5] Vedi Due figli.

[6] Vedi I Versi e In fiamme.

[7] Vedi Poeta.

[8] Vedi Gnosi Edgar.

[9] Vedi Ragione e Intelletto.

[10] Vedi Risposta di Ermete al poeta.

[11] Vedi La preghiera dell’Angelo.

[12] Vedi Gusto e Il balcone.

 

 

 

 


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