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Quaderni di Etnomusica Musiche e canti popolari dell’Ucraina

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 03/04/2022 12:29:29


QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA

MUSICHE E CANTI POPOLARI DELL’UCRAINA
(… il vento dal campo smuove solo metà dei fiori del giardino.)

Se la musica ha il privilegio di parlare un linguaggio universale, ancor più dobbiamo riconoscere ad essa la peculiarità di efficace veicolo di comprensione tra i popoli e, a buon diritto, di far parte delle discipline di studio specifiche che sono fonte primaria di conoscenza, alla quale, pure contribuiscono tutti i popoli della terra indistintamente, nessuno escluso, riconosciuti all’interno del fenomeno di acculturazione. Per cui, in prospettiva della “nuova realtà musicale” quale si è andata delineando in questa nostra epoca di repentini cambiamenti, studiare l’Etnomusicologia assume significato di riappropriazione delle testimonianze più rappresentative della cultura musicale dei popoli. Pur con le sue accezioni peculiari, vuoi musicali (strumentali), vuoi orali (poetico letterarie), inerenti agli usi e i costumi dei popoli che l’hanno determinata, nel loro effettivo stanziamento geografico, l’Ucraina può essere considerata a sé stante, per quanto rimangono sempre ben riconoscibili apporti ed influenze di altre popolazioni, spesso determinanti per lo strutturarsi complessivo di forti influssi che, in varie epoche ed a vario titolo, furono e sono presenti sul suo territorio: Russi, Bielorussi, Romeni, Moldavi, Bulgari, Polacchi, Ungheresi e Tatari di Crimea, insieme ad altre presenze minoritarie.
Influenze che, volutamente rivisitate come “espressioni originali” di singole autenticità, restituiscono, in taluni casi accertati, identità etniche-culturali ben definite, che ci permettono di riequilibrare lo stacco tra passato e presente di un seppur discontinuo percorso millenario, in cui la cultura slava costituisce il nucleo etnico fondamentale dell’odierna Ucraina. Quindi, pur mantenendo questo quadro composito come sfondo sul quale disegnare una qualche riflessione, è possibile, per quanto approssimativamente, individuare due aree culturali: “…quella centrale e nord orientale (composta dagli ucraini propriamente detti), una zona pianeggiante adatta all’agricoltura, la cui ricchezza spesso attirò l’avidità di popoli invasori che in ragione di facili spostamenti l’occuparono, (…) e una seconda, comprendente la parte nord-occidentale del paese in territorio caucasico, montagnoso, in cui le difficoltà di comunicazione (culturale) ed i problemi di sopravvivenza han fatto sì che si conservassero caratteri culturali più arcaici, all’interno di una tessitura etnica pur frammentaria. Pertanto le divisioni e le differenze nei caratteri musicali di questo popolo ricalcano, con buona approssimazione, queste due suddivisioni etnico-linguistiche presenti sul territorio dell’odierna nazione ucraina. (1)
L’Etnomusicologia vede l’Ucraina come un territorio da riscoprire, non solo come ricordo del tempo, o come magia e incanto perduto, in cui le diverse categorie di suoni percepiti vanno studiate come veicolo di comunicazione e di scambio per la comprensione tra le diverse etnie, piuttosto, come ha evidenziato in passato Alain Danielou (2): “… dei suoni per comunicare, spesso difficile da distinguerne gli elementi articolati, che noi chiamiamo linguaggio, dalle emissioni della voce, contraddistinte all’altezza del tono e dalla durata, che sono alla base della musica. Non a caso esistono, infatti, sul territorio, lingue tonali, recitazioni cantate e strutture musicali proprie del linguaggio parlato (...) che nel tempo hanno sviluppato forme musicali libere da qualsiasi funzione sociale, le quali, proprio perché svincolate da presupposti rituali, hanno progredito rapidamente sulla via del perfezionamento tecnico e del raffinamento del gusto”. In breve, tutto ciò conferma di fatto che non si conoscono popoli, fin da quelli primitivi ad oggi, che non abbiano conosciuto o che non conoscano una qualche forma musicale, sia che rientri nella propria cultura etnica (ritualità tribale) o faccia parte del proprio habitat naturale (rocce parlanti, vulcani tonanti, alberi suonanti, animali canterini), da cui l’uomo ha appreso la “formula” talvolta impregnata di magia, della musica esistente nel creato, così come le riscontriamo sul territorio ucraino.
Apprendiamo così che, l’insieme della cultura musicale e tutto ciò che ad essa ruota attorno, si rivela uno dispositivo fondamentale da farci riflettere sul suo significato. Eppure, anche quando con i primi studi antropologici, ci si è accorti che l’essere consapevoli della propria esistenza, non è dato per scontato, almeno non per tutti allo stesso modo, che supportare una campagna a sostegno della ricerca Etnomusicologica è fondamentale per una “presa di coscienza”, in grado di restituirci la consapevolezza dell’immenso ‘dono’ che ci è dato, determinata dal fatto che la musica, alla stregua delle altre arti, va considerata patrimonio di tutta l’umanità. Mi piace qui sottolineare un’affascinante intuizione di Marcel Mauss (3) il quale, con il triplice obbligo di “dare, ricevere e ricambiare il dono”, costituisce un “fenomeno sociale totale” a cui fare riferimento, all’interno di una prerogativa universale, pur con le sue diversificazioni e interazioni, le cui eredità peculiari e speculari che ogni popolo autonomamente ha corrisposto a quello successivo. Fatto, questo che ha permesso allo stesso Mauss di affermare: “…che tutte le società arcaiche, ‘primitive’ o ‘senza stato’ che siano, pensano il loro universo e perfino il cosmo, nel linguaggio scambievole del dono”, di cui la musica – aggiungo – figura tra i beni materiali della cultura universale.
Testimonianza questa, che ci consente di riconoscere una dignità culturale specifica, distintiva di molti popoli più o meno conosciuti in seno alla sempre più evoluta popolazione delle nazioni, per cui andare alla ricerca delle loro “origini” linguistiche, o tracciare le linee di un modello culturale che possano aver perseguito, come pure evidenziare i caratteri originali di cui si compone la loro tradizione musicale, assume significato di andare alla ricerca della “memoria del tempo” e di quanto ci permette di ripercorrere l’intero arco ciclico socio-musicale dell’umanità. È quanto più rientra nel lavoro dell’Etnomusicologo, il cui impegno dev’essere meta e linea di partenza di un percorso perseguito ma che è ancora tutto da scrivere. Etnomusicologia dunque, come acquisizione di un maggiore bagaglio culturale, per un sempre maggiore impegno sociale nella conoscenza di popoli e paesi “altri” dal nostro, che si aprono a noi e ci svelano i loro segreti e le loro gemme: la loro musica, i loro riti, le usanze e i costumi, l’artigianato e le opere dell’arte. Con ciò, rendendoci partecipi del loro mondo fantasmagorico, di colori, di note, di suoni, di strumenti, di canti e di balli, di manufatti popolari che hanno conosciuto la notte dei tempi, molti dei quali, mantengono ancora oggi tutto il fascino del loro mistero.
Ancora dalle note introduttive di Stefano Castelli (*) per l’edizione italiana del disco LP “Ucraina” – Collana Albatros – Editoriale Sciascia 1979, cito quanto segue: “Le divisioni e le differenze nei caratteri musicali risalgono, come accade per molti paesi europei, al XVIII ed al XIX secolo, allorché le manifestazioni folkloriche riferite al Granducato di Kiev, retta dal suo storico Patriarcato cattolico, più o meno contrapposto al patriarcato ortodosso di Mosca, che documentano un primo momento di unificazione etnico-politico nell’area balcanica. Su un altro versante parallelo, può essere utile considerare il canto liturgico che, importato dai bizantini con la religione Ortodossa, subì tuttavia modificazioni indicative, e fissare così l’inizio di una conversione dell’Ucraina, attestatasi attorno all’anno 989. In cui, si insegnavano alle popolazioni gli inni sacri servendosi di lingue paleoslave, pesantemente mediate fra il canto greco-ortodosso e quello ‘parlato’ dalle genti ucraine.”
Notevole fu l’apporto alla musica cosiddetta ‘profana’ suonata da suonatori girovaghi, detti ‘Skomorokh’, anche detti Tzigani d’Ungheria insieme ai Rom di Romania, che troviamo menzionati in proverbi, ballate e modi dire davvero originali. “Erano questi attori e musici girovaghi discendenti in linea diretta da un’antica tradizione di stregoni e sciamani che durante i loro spettacoli usavano indossare maschere di indubbia attribuzione magica, considerati propri dei tentatori satanici, la cui musica e i loro strumenti erano messi all’indice da un preciso precetto religioso che la definiva: “…come una tromba che durante la preghiera riunisce i guerrieri e gli angeli celesti, così i loro strumenti ‘gusli’ e ‘sopeli’ riuniscono i demoni svergognati”. Successiva alla dominazione mongola del territorio, nell’intervallo compreso fra il 1237 ed il 1480, l’Ucraina conobbe un lungo periodo di isolamento musicale che i musicologi riferiscono alla commistione fra i canti bizantini e quelli russi basati su sensibilità radicalmente diverse. La marcata differenza di un tempo fra i due diversi stili musicali non è quasi più riscontrabile se non nel canto, nel quale l’Ucraina utilizza la propria lingua nazionale, nella diversa pronuncia idiomatica da quella russa. Finanche gli strumenti musicali in uso sono, con qualche differenza di forme, gli stessi utilizzati in tutta l’area dei Carpazi, inclusiva di quelle forse più note tradizioni presenti rispettivamente in Romania, Bulgaria, Ungheria, Moldavia, Polonia e Slovacchia.
“Tra i numerosi strumenti ucraini conosciuti vengono qui ricordati solo i più importanti: la ‘kobza’, una possibile variante della ‘bandura’, che ricorda assai da vicino strumenti persiani o afgani; presenta un lungo manico munito di tasti, collegato ad una cassa ovale, sulla quale sono tese tre/quattro corde. La ‘bandura’ propriamente detta si presenta come un singolare incrocio fra un salterio ed un liuto, dal manico corto e tozzo, sprovvisto di tasti e, salvo che in alcuni casi di esecuzioni virtuosistiche, le numerose corde dette ‘prystrunky’, varianti nel numero di 50/60, sono fissate attraverso la cassa e vengono suonate ‘vuote’, cioè senza accorciarle schiacciandole con le dita. Un altro strumento molto in uso in tutta l’area è il ‘violino’ localmente denominato ‘skrypka’ sostanzialmente identico al violino europeo ma più rozzo, la cui costruzione è affidata a liutai di villaggio. Una connotazione a parte va data al ‘gusli’ in uso nelle zone appartenenti al gruppo linguistico slavo e sta a indicare una gran varietà di strumenti a corda quali: ‘husty’ e ‘hudity’, che significano semplicemente ‘suonare’. Sembra che originariamente il ‘gusli’ sia stato qualcosa di simile a un’arpa, tuttavia di difficile attribuzione territoriale.
La ‘duda’ è una cornamusa formata da un otre di pelle da cui si dipartono tre tubi di legno: il ‘sysak’, cioè l’imboccatura attraverso la quale il musicista la mantiene gonfia d’aria; l’’huk’ che fa da bordone basso, solitamente composto da tre pezzi di legno innestati l’uno nell’altro, nel cui mediano è innestata la lamina vibrante che produce il suono. La melodia è ricavata dalle due canne parallele con finale ad ancia con sei o sette fori che servono a modificare il suono. Fanno da accompagnamento diversi modelli di flauto, fra i quali il più diffuso è forse la ‘sopilka’, un flauto a becco con cinque o sei fori. Non in ultimo, troviamo il ‘flauto di Pan’, che può avere da due a sette canne. In una nota di colore si dice che in caso lo strumento difetti di una o più note che impediscono al suonatore di eseguire la melodia desiderata, questi intoni con la voce le note mancanti. (5)”
Ma che cosa avviene quando alla formazione di una data cultura ha contribuito più di un popolo e più di una singola tradizione che verosimilmente ne ha forgiato l’anima multiforme? E di conseguenza: quale impronta musicale, più o meno originale che sia, comunque tipica del territorio preso in considerazione, risulta accresciuta nella sua dimensione socio-antropologica? L’interrogativo è mio, ma stavolta e guarda caso, la risposta ce l’ho bella e pronta, offerta a scatola chiusa, niente meno che da Charles Darwin, il quale, nel suo “L’origine dell’uomo” (6) scrive: “Giacché né il piacere legato alla produzione di note musicali, né la capacità (di produrle) sono facoltà che abbiano il benché minimo utile diretto per l’uomo (...) devono essere collocate fra le più misteriose di cui egli è dotato”. La prima risposta è inclusiva nella domanda stessa, lì dove si determina un contributo comunitario e/o in qualche modo è possibile incontrare sul nostro cammino di ricercatori, taluni accorti studiosi che usano le rispettive tradizioni per imporre e sostenere un certo ordine di costumi, all’interno delle gerarchie socio-culturali e religiose, di riferimento etnico. Ciò che dà luogo però a un sminuzzamento della cultura, una certa particolarità non influente nella formazione della cultura stessa.
In Etnomusicologia la comparazione è importante perché accomunare le similitudini, le sinonimie e, per contrasto tiene conto delle divergenze, in modo da ricondurre gli effetti entro un comune "accordo" specifico di fondo. La seconda risposta prende avvio nello studio specifico del territorio oggetto di ricerca e ne valuta la tipicità, basandosi sulla morfologia e l'economia del medesimo, alfine di rintracciare quegli elementi materiali presenti in natura che hanno permesso all'umano antropologico di sviluppare il suo utilizzo musicale e la propria creatività, per quanto primitiva essa possa risultare. A fronte di quanto affermato, va inoltre detto che l’immagine di un mondo costituito soltanto dalle culture ufficiali e dalle confessioni riconosciute, per la maggior parte, sono prive di curiosità o di particolare interesse per la nostra ricerca etnomusicologica, in quanto il nostro coinvolgimento coincide più con ciò che è involontario e accidentale, e che “viaggia” fuori delle righe della uniformità culturale ufficiale e della escatologia precostituita.
Al noto ricercatore Stefano Castelli si devono, inoltre, le numerose “note ai canti” e molto altro ancora, che accompagnano la raccolta presente nel disco citato, utilizzate in questa presentazione etnomusicologica dedicata all’Ucraina, soprattutto perché non avendo conoscenza della lingua, non potevo fare altrimenti che affidarmi alla cura sostanziale dello studioso che le ha redatte, ringraziandolo per aver aperto un varco conoscitivo a un patrimonio che altrimenti sarebbe andato perduto. Stando altresì agli ultimi accadimenti in corso di una guerra che ha disperso un numero esorbitante di artisti, fra esecutori strumentali e cantanti, detentori di molta parte di questa tradizione musicale. Non potendo presentare qui alcuna traduzione dei canti, mi limito quindi alla citazione dei nomi di alcuni di essi e alla raccolta di note ad essi riferiti, talvolta appartenenti a singole popolazioni presenti sul territorio:
“Hutsul Kolomiyka”: gli Hutsul e/o Gutsul, sono una popolazione dell’Ucraina nord occidentale che presenta caratteristiche arcaiche sia per quanto riguarda la lingua, che per quanto si riferisce ad espressioni collegate a teorie demonologiche e rituali funebri, per lo più scomparsi nella loro forma originaria dal resto del paese. Non c’è quindi da meravigliarsi per alcune arcaicità presenti in questa ‘kolomiyka’ eseguita con la ‘duda’ nonostante sia un genere musicale fiorito attorno al 16° ed il 18° secolo, periodo in cui i sistemi musicali europei incominciavano ad essere conosciuti anche fra le masse rurali e, i cui influssi provenienti dalle diverse zone limitrofe al resto d’Europa si sovrapposero alla musica locale.
Il “Kozachok” è invece una tipica forma di danza accompagnata dal canto, in cui la ‘duda’ è accordata in modo diverso dal brano precedente. Il cui testo si struttura in strofe di quattro versi di sette sillabe ciascuno con un forte accento posto sull’ultima sillaba di ogni verso. In questo particolare caso la ‘duda’ ripete il modello melodico fornito dal canto, per iniziare poi una serie di variazioni nelle quali vengono introdotte nuove note e nuove figurazioni ritmiche.
La “Hutsulka”, è una musica da danza in cui risultano estremamente evidenti le influenze dei violinisti zingari rumeni. Troviamo qui tutti gli elementi che compongono il loro tipico virtuosismo: lo svolgere parallelamente al coro la medesima melodia arricchita di trilli, acciaccature, velocissime scale e, di contro, i momenti di sospensione in cui viene ripetuto sempre un semplice gruppo di note in modo da accrescere, da consumati istrioni, l’attesa dell’uditorio. Il coro puntualizza abilmente la dimensione ritmica con grida, urla, fischi, battiti di piedi e frasi parlate, proprie della partecipazione popolare alla festa, giustificata pienamente dalla maggiore diffusione su tutto il territorio, cui la ‘Hutsulka’ ha maggiore diffusione e rivendica palesemente la propria origine etnica.
Nelle tipiche danze ucraine segnate dalla partecipazione di un folto pubblico, si stabilisce un rapporto singolare: da una parte gli archi sembrano seguire, sostenendole ritmicamente e melodicamente, le voci dei danzatori e, dall’altra, voci soliste si staccano talvolta dalla tonalità del coro per riprodurre i modi esecutivi tipici dei violinisti tzigani. E veniamo ai due ‘canti corali’ da me utilizzati per il sottotitolo a questa lunga ricerca conoscitiva: “Il vento dal campo” (che smuove solo) “Una metà dei fiori del giardino”, a significare che per quanto dell’eredità accumulata per secoli dall’eroico popolo ucraino, solo una parte di questo patrimonio culturale potrà essere cancellato, e che i ‘fiori’ strappati dal vento di un’assurda guerra (come se non bastasse la pandemia ad accumulare i morti) rinasceranno per un’altra primavera: “Così come Cristo risorgerà per una e un’altra Pasqua ancora”. Così come ricrescerà l’erba dei prati e gli alberi dei boschi, le vaste piantagioni di messi che hanno contrassegnato il lavoro di questi instancabili agricoltori che da secoli contribuiscono all’ecosistema mondiale con il mantenimento di estese ‘foreste vergini’; la loro produzione di orzo, segale, mais e frumento che nel tempo gli sono valsi la denominazione di “Granaio del mondo”.
Di tutto il materiale musicale – proseguo nel citare il ricercatore Castelli – i due brani corali sopracitati sono gli esempi maggiormente collegati ad arcaiche pratiche di canto. La polifonia è infatti uno dei caratteri anticamente dominanti in quest’area, accomunata in primis dalla pratica del lavoro di massa contadino, con i quale si accompagnavano i lavoratori e le lavoratrici durante la raccolta dei frutti della terra, (si rammentino i canti delle mondine e degli scariolanti in Italia), e non solo. Inoltre ai vicendevoli scambi fra polifonia liturgica e polifonia popolare, l’antichità del carattere polifonico è testimoniata anche dal fatto che, all’inizio del processo di inurbamento, da più parti si è sottolineata una netta differenziazione fra lo stile delle campagne e quello di matrice ‘colta’ che si andava sviluppando nelle città nonostante la diversa identità (religiosa e/o profana) fra le linee melodiche e i testi delle canzoni, nella suddivisione possibile fra “canzoni di villaggio” e “canzoni di città”. In entrambi i casi la polifonia risulta pienamente contrappuntistica; le varie linee melodiche si intrecciano e si separano allo stesso modo, non limitandosi a cantare per intervalli paralleli.
Nella tessitura composita del patrimonio rituale di una cultura – scrive ancora Stefano Castelli – le pratiche riguardanti il matrimonio occupano spesso un punto nodale, importantissimo, fondamento medesimo musicale dell’Ucraina, che possiamo dividere in canti in qualche modo corrispondenti ai momenti eclatanti del rito: le canzoni di addio e le lamentazioni dei parenti della sposa; i canti di carattere mitologico, cavalleresco o eroico cantati durante i festeggiamenti e i banchetti; le strofe a sfondo erotico eseguite nelle vicinanze della casa in cui gli sposi si preparano a trascorrere la prima notte delle nozze; infine, le canzoni di matrimonio propriamente dette, cantate durante lo svolgimento del rito. Anticamente infatti il rito durava giorni, scandendosi con precisione in un accurato sviluppo minutamente preordinato. Tralasciando il passato, rimane facile notare la pressoché completa identità di alcuni canti matrimoniali, per quanto riguarda lo stile melodico e i modi di esecuzione, con i canti agrari del raccolto. La cui funzione raccoglie intorno a sé stili diversificati relativi a funzioni diverse. Il matrimonio, quindi, vissuto come momento di mescolamento in cui è presente una molteplicità di temi paragonabili solo a più antichi riti di iniziazione che comportano sempre uno scenario di morte iniziatica.
È questo della morte un altro momento rituale assai marcato nei canti di matrimonio, specie da parte dei parenti della sposa per cui ‘sposarsi’ equivale allontanarsi dal clan di appartenenza per seguire il marito; come morire e viceversa rinascere in altro luogo. Non a caso i funerali di una ragazza assumono la forma di un matrimonio, con canti e musiche allegre. Le simbologie usate nei testi sono assai esplicite: “la sposa muore per il suo clan”, “la fanciulla sprofonda nel mare”, “il ramo è divelto dalla pianta” e così via. I canti relativi vengono eseguiti da due cori, solitamente femminili, guidati da due attendenti. Il testo descrive, in forma di contrasto, tutti i momenti del rituale: come accade per gli incantesimi, la partecipazione umana deve essere costante e l’attenzione più minuziosa deve essere posta in tale atto ‘legislativo’ in modo che nulla venga turbato e sfugga al controllo dei celebranti. Così, appare spesso che l’atto di rapimento della sposa da parte del clan del marito, deve sembrare che ella venga obbligata ad andarsene, per non offendere il clan originario.
Se è vero che la musica ha il potere di mantenere vivi certi suoi caratteri a distanza di millenni, che continua a essere suonata e intonata negli stessi luoghi dove si è formata, ciò vale altresì per la parola orale e scritta, per la letteratura come per la poesia, per i gesti rituali così come per il canto e la danza, che troviamo, pur con migliaia differenziazioni in ogni parte del mondo e presso tutte le popolazioni conosciute. Gli esempi potrebbero essere infiniti, sebbene a tutti va dedicata, da parte del ricercatore, una particolare attenzione. Soprattutto perché, ogni singolo momento nell’ambito della vita e della cultura di ogni singolo popolo, rappresenta una condizione sperimentale evolutiva, e la musica è sempre stata la più attaccabile dai bacilli delle mode e della modernità, e non sempre in maniera eccepibile. Appare chiaro, dunque, come l'eredità di questo approccio sia fondamentale per comprendere la pluralità dei codici e dei linguaggi, centrale nella teoria postmoderna, nonché sia applicabile ante litteram alla situazione contemporanea della multimedialità, dell'ipertestualità e della contaminazione «in rete», che della teoria postmoderna sono l'esito ultimo e più complesso.
Orientamento teorico e metodologico risalente, con diramazioni successive, all'opera del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, che considera la lingua come un insieme strutturato di elementi interagenti e interdipendenti; successivamente la definizione è stata adottata anche per indicare gli indirizzi di pensiero che hanno esteso alle scienze umane i principi dello strutturalismo linguistico, per cui i fenomeni culturali sono visti come insiemi organici tra i cui componenti vigono relazioni costanti e sistematiche: l'antropologia (con Claude Lévi-Strauss), la critica letteraria (con Roland Barthes), la psicanalisi (con Jacques Lacan), l'esegesi marxista (con Louis Althusser), la filosofia della cultura (con Michel Foucault) e la neo-liguistica (con Roland Jakobson). Per una comprensione analitica del fenomeno cfr. G. Fornero e F. Restaino, Nicola Abbagnano – “Storia della Filosofia”, volume X in “La filosofia contemporanea” (7). Come scrivono E. Schultz e R. Lavenda, autori di “Antropologia Culturale” (8): “Il sapere etnografico risulta sempre mediato da sguardi orientati, da contesti storici e relazionali, da prospettive ideologiche e biografie situate. Ma si farebbe un grave errore pensare di dover depurare o cancellare questa mediazione: si perderebbe la possibilità stessa di riconoscere le fonti e le modalità del processo conoscitivo che si è attuato; verrebbe meno la possibilità di ricostruire e di dar senso alle energie e alle risorse della trasformazione avvenuta. La comprensione dell’altro culturale scrivono gli autori echeggiando posizioni vicine all’ermeneutica contemporanea, e in Italia per molti versi anticipate dall’antropologia di Ernesto de Martino – è costruita intersoggettivamente, utilizzando elementi tratti dal sistema culturale sia dell’antropologo che dell’informatore. Afferrando il significato del sé culturale dell’altro, scopriremo in parte il significato della nostra identità”.
Conoscere la storia di un territorio, la morfologia della sua natura, il clima, la flora delle sue pianure e la fauna dei suoi boschi, le condizioni di vita della sua gente, certo aiuta a comprendere la pur “semplice” vena creativa delle sue tradizioni popolari, a conoscere l’origine dei racconti di fiaba, la derivazione mitologica delle sue leggende. Così come conoscere le “sorgenti” della musica e del canto, permettono di comprendere la creatività dei virtuosi strumentisti che molto successo riscossero presso i musicisti colti nelle corti europee gli studiosi del folklore. L’etnomusicologia si è occupata poco di questa regione “narrata e vissuta” in musica dal popolo pur variegato che l’ha formalizzata dentro schemi originali irripetibili. Ciò seppure è possibile affermare che una linea musicale comune li abbracci tutti, secondo una sorta di reciprocità e interscambiabilità che conferisce ad essa una sorta di uniformità e, in qualche modo, di unicità, riscontrabile e riferibile come ad un'unica entità popolare. Fra tutti vanno qui ricordati le voci della letteratura di tradizione ucraina, la cui voce poetica più antica è rintracciabile nelle ‘byliny’, canti epici del tempo in cui, all’alba del millennio passato, Kiev lottava contro i nomadi delle steppe, ed in tutta una vasta creazione popolare rimasta anonima, tramandata oralmente per secoli, prima di essere fissata sulla carta. La parte più originale di questa tradizione dell’antica letteratura sorta in terra ucraina è costituita dalle epopee di cui il “Canto della schiera d’Igor”, rappresenta l’esempio più mirabile.
Ma è anche necessario inoltrarsi nelle abitudini di un popolo per poter scoprirne l’entità vitale e recepire al meglio le sue tradizioni. È così che visitare un paese richiede inoltre di esaminare quelli che possiamo definire gli ‘archetipi’ della sua religiosità, i caratteri essenziali della sua cultura, le espressioni tipiche della sua arte, come i manufatti, la cucina, il bere, e non solo riferiti al passato. Bensì anche la residualità di quanto si proietta nel presente, come l’accoglienza e la generosità del suo popolo. Nonché conoscere la cucina ucraina in quanto parte integrante della cultura popolare che si riflette nello stile di vita e negli usi e costumi di tutti gli ucraini. Infatti la cucina ucraina si riconosce in modo particolare per la grande varietà di sapori e la diversità di ingredienti utilizzati, per lo più carni, funghi, verdure, barbabietole, frutta e vari tipi di erbe. Alcuni piatti tipici della cucina ucraina sono tra i più semplici da preparare. I cibi si accompagnano con vini locali e non, diversi tipi di birra, vodka, o te, ed altre bevande anche molto diffuse come in particolare la ‘horilka’, un distillato chiaro ricavato dal frumento e dalla segale.
Non trascurabile, sempre che la conoscenza della lingua lo permetta, e magari cercare qualche traduzione in altro idioma, dare uno sguardo alla letteratura presente sul territorio che pure conosce una storia lenta affermatasi fin dal XV secolo. “Una letteratura propria dell'Ucraina si afferma già nel XV secolo. La letteratura ucraina raggiunge il massimo splendore con Ivan Franko (1856-1916), e soprattutto con il poeta nazionale ucraino Taras Hryhorovyč Ševčenko (1814-1861), autore di ballate e poemi epici di stampo nazionale. Nel XX secolo si afferma, tra gli altri, la figura della poetessa Lesja Ukrainka (1871-1913). Tra il XX e il XXI secolo tra gli scrittori di storie per bambini si distinse Vsevolod Nestajko. Prevale, inoltre, un tipo di scrittura di carattere sociale e nazionalpopolare. In campo filosofico, nel XVIII secolo, tra gli altri, si afferma la figura di Hryhorij Skovoroda (1722-1794), che fu anche poeta” (9). In musica, come si è visto, è possibile definire la tradizione ucraina come una ‘musica senza confini’, un intrico meraviglioso di ‘strade sonore’ diverse. Per chi non è abituato a frequentarle, sono racchiuse tra questi due estremi: Occidente e Oriente, crogiuolo di stili e assonanze diverse ove si riscontrano influenze arabe ed ebraiche, mongole e tatare, ortodosse greche e altre appartenenti alla cultura islamica. Nessuna di queste però è più definita delle altre.
Dacché l’ascolto del disco sopracitato, l’unico che ho rintracciato in questo periodo di assenza totale dal mercato, rivela contaminazioni vissute e metabolizzate che pure resiste all’occidentalizzazione, insieme ad un miscuglio talvolta finanche fastidioso all’orecchio impreparato. In altri momenti però rivelatrici del fascino misterioso orientaleggiante cui ci hanno abituati i grandi compositori russi, quali, ad esempio, i romantici Glinka e Mussorgsky, attraverso le opere dei quali ci si ritrova nel mezzo di feste popolari e pagine entrate nella grande musica classica; arabeschi e armonie di tradizioni antiche e desideri nascosti e forse sconosciuti. Ma limitarsi a ciò sarebbe voler conchiudere la tradizione ucraina entro un perimetro sonoro che non conosciamo appieno; che altresì, nel tentativo di semplificare un panorama complesso e variegato, è ‘fonte estrema’ di rinnovamento musicale integrante di una cultura orale comunque millenaria. “Tra le cantanti ucraine vanno ricordate , tra le altre, Alina Grosu e per il genere pop e Rhythm & Blues Svitlana Loboda; Ruslana Lyžyčko che con il singolo “Wild Dances” ha vinto l'Eurovision Song Contest 2004, svoltosi in Turchia. In seguito l'Ucraina vinse nuovamente con la cantante Jamala nell'edizione dell'Eurovision Song Contest 2016. Tra i cantautori spicca Volodymyr Ivasjuk e la nota cantante lirica che è stata Solomija Krušel'nyc'ka. Per la musica classica ricordiamo la pianista Valentyna Lysycja, che ha assunto rilevanza internazionale (10).
Quanto rimarrà di tutto questa ‘fonte sonora’ dopo gli ultimi eventi della guerra ancora in fase di attuazione e in attesa di accordi di pace, che tutti auspichiamo, non so dire. Che nel 2022, si faccia una guerra per la supremazia di una nazione su un’altra non ha oggi alcun senso, è comunque un’offesa alla dignità umana e alla rispettabilità di un popolo civile. Ingrata per chi la fa e per chi la subisce, perché infine chi ne trarrà la vittoria, si ritroverà comunque con una forte perdita in numero di vite umane, di distruzione totale del territorio e carenza di materie prime di cui avvalersi nel processo di sopravvivenza. Davvero non ci sono parole aggiuntive che possano scusare un misfatto simile a quello che si sta consumando in quest’area continentale con la possibile estensione alle altre nazioni limitrofe e, soprattutto, con la probabilità di scatenare altre ‘menti’ offuscate dalla sete di potere o d’imperialismo autocrate. Nessun imperatore o despota che si ricordi nella storia è mai sopravvissuto al potere esercitato dalla cultura dei popoli, all’espressione di quel ‘sapere’ che le genti hanno depositato nel serbatoio della memoria del mondo.


Testi di consultazione:
“The New Oxford History Of Music” vol.1 – Oxford Press – London - per l’Italia Garzanti-Feltrinelli – Milano 1991.
“Enciclopedia della Musica” – Garzanti, Milano 1996.
“The Larousse Encyclopedia of Music” – The Hamlyn Publishing Group – London 1978.
“The world of music”, Journal of the International Institute for Comparative Music Studies – Berlin in association with The International Music Council (UNESCO). Chairman of the Board: Alain Danielou.

Note:
(1) Oliver Sacks: “Musicofilia” - Adelphi, Milano 2009.
Medico e scrittore, vive a New York dove insegna neurologia e psichiatria alla Columbia University Artist. È autore di molti libri, fra i quali “Risvegli”, da cui è tratto il film che 1990 ebbe tre nomination agli Oscar. “Ogni storia cui l’autore dà voce illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità s’intrecciano, e si definiscono. Forse la musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva” (dalle note di copertina).
(2) Alain Danielou: The International Music Council, “Musical Atlas”, Note introduttive alla collana Unesco Collection by the International Institute for Comparative Music Studies (Berlin/Venice). Emi-Odeon.
(3) Marcel Mauss: "Saggio sul dono: Forma e motivo dello scambio nelle società acaiche" – Einaudi, Torino 1965. Antropologo, sociologo e storico delle religioni francese, massimo esponente della scuola di Durkheim. Collaboratore della rivista Annéè Sociologique, fondata nel 1898 da Emile Durkheim. "Saggio sul dono", nasce dalla comparazione di varie ricerche etnografiche, tra le quali lo studio del rituale potlach di Franz Boas e del Kula di Bronislaw Malinowski.
(4) Stefano Castelli, scrittore e traduttore, musicista curatore delle note bibliografiche della produzione Albatros per la Editoriale Sciascia dagli anni ’70, ha curato inoltre l’uscita del disco (LP) qui presentato dal titolo “Ucraina” nel 1979. In nota: “Si può dire che, come in tutte quelle che pretendono di possedere una validità appena un poco generalizzata in un settore così magmatico quale è quello della musica popolare, richiederebbe una dimostrazione assai lunga e complessa.”
(5) Stefano Castelli, op.cit.
(6) Charles Darwin, “L’origine dell’uomo” …
(7) Schultz / Lavenia, “Antropologia Culturale” ….
(8) Nicola Abbagnano – “Storia della Filosofia”, volume X in “La filosofia contemporanea”.
(9) Wikipedia, alla voce “Ucraina”.
(10) Ibidem








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