Pubblicato il 06/02/2023 06:12:46
Tempo di Carnevale: Maschere popolari. (Ricerca filologica di Giorgio Mancinelli tratto da ’Cantarballando’, un programma RAI Radio3 del 1982.
Storie di Cantastorie.
La tradizione più antica in Italia è indubbiamente quella cavalleresca che rivive nei testi degli spettacoli dei Burattini e del Teatro dei Pupi, nei dipinti dei carretti e nella recitazione dei poemi medievali, rappresentati in questi luoghi o sulla pubblica piazza dove il Cantastorie, seduto in mezzo a un cerchio di vecchi e bambini, gesticola con in mano una spada di legno e racconta le interminabili avventure o disavventure di questo o quell’eroe del tempo passato. Ma anche di altri relativamente più vicini a noi, come ad esempio le guerre di Carlo Magno, le cruente battaglie contro gli infedeli, le storie di Rolando e di Ruggero, di Astolfo sulla Luna ecc. che ha imparato a memoria e che sono, in parte, basate su poemi dell’Ariosto, del Boiardo, del Tassoni e molte di riferimento religioso desunte dalla Bibbia e dai Vangeli, e dalla vita di santi. Tutti, ma davvero tutti, attendono però con impazienza le scene di battaglia, nelle quali il Cantastorie, il viso distorto dalla furia del combattimento, taglia l’aria con la spada e spezza le parole in modo da accrescere l’interesse dello spettatore È fuor di dubbio che stiamo parlando di ‘leggende’ sorte dalla fantasia degli scrittori del tempo ma ancor più di una tradizione orale che più spesso era re-interpretata da cantastorie ambulanti e da quei cantori che talvolta le mettevano in musica con inserimenti di villanelle e strambotti, e gagliarde a ballo onde far divertire il pubblico che accorreva numeroso alle loro rappresentazioni. La fantasia popolare, in quanto essenza di credenze magico-religiose entrate nei costumi tradizionali, ha in origine contribuito all’affermarsi di un Teatro Popolare Regionale di cui le ‘maschere’ e i ‘mascheramenti’ rappresentavano la più espressiva delle forme d’arte. Ogni regione, almeno per quelle riferite all’Italia, ne possiede di proprie che mettono in risalto i caratteri dei suoi abitanti ed è rappresentativa dell’eredità di una più antica arte ludico-rituale. Molte delle ‘maschere’ qui di seguito presentate sono native di regioni diverse e relative a epoche più o meno recenti, tra il ‘500 e il ‘700. Addirittura alcune non nascono neppure come maschere a se stanti, quanto invece sono ‘caratterizzazioni’ di personaggi veramente esistiti, per così dire messi ‘alla berlina’, entrate in seguito nelle rappresentazioni di piazza e nel teatro dei saltimbanchi. Un teatro fatto di scherzi e lazzi, di burle salaci e di trovate in cui venivano presi di mira gli autori inconsapevoli di pettegolezzi cittadini; le deformazioni fisiche e i tic professionali di personaggi pubblici; come pure i rappresentanti di questo o quel mestiere e ovviamente i chierici e i prelati, tutti visti, neppure a dirlo, attraverso la lente caricaturale. Ma se il teatro o comunque la scena rappresenta il luogo deputato per la rappresentazione in maschera, la piazza (quella piazza universale di cui si è già parlato in altro articolo), e indubbiamente la stada cittadina comprensiva dell’intero ‘paese’, è al dunque il prototipo umano forgiato dalle chiacchiere della gente che vi abita. La tradizione, infatti, riconosce in questa o quella maschera il personaggio archetipo della singola regione. È così che con ‘Geppin e Nena’, due maschere contadine genovesi risalenti al XVI secolo, approdiamo In Liguria, terra di marinai ma anche di coltivazioni terriere di cui entrambi sono rappresentativi e che ritroviamo durante il Carnevale a passeggio per i paesini liguri accompagnati dal suono della ‘piva’ (sorta di zampogna) e che recitino filastrocche satiriche indirizzate ora a questo ora a quel cittadino più o meno noto. ‘Geppin’ indossa un corpetto scarlatto sotto la giacchetta di fustagno color nocciola o di velluto verde; calzoni corti di velluto nero, le uose (scarpe) alla contadinesca e in testa un cappello di feltro a falda larga. ‘Nena’ vestita secondo l’uso contadino ama adornarsi di molti monili d’oro e d’argento e, durante il Carnevale completa il suo abbigliamento con un parapioggia. D’origine ligure-piemontese è un ‘canto narrativo’ dal titolo ‘Ghe n’ea de tre fighette’ conosciuto anche come ‘La pesca dell’anello’ desunta da quella raccolta ben più lunga del Nigra:
«Ghe n’ea de tre fighette inscia riva du mar. / A ciù bella l’è a ciù picina s’è missa a navegà. / In to mentre ch’a navegava, gh’è cheitu l’anello in mà. / O pescator dell’onda, vegnilu in po’ a pescà. / Quando l’avrò pescato, che cosa lei mi darà?/ Darò trecento scudi, e una borsa ricamà.»
Con ‘Meneghino e Cecca’, due maschere milanesi del Seicento siamo invece in Lombardia. Per la tradizione Meneghino è ‘povero ma con il cuore in mano’. Si vuole che il suo nome derivi da Domenichino, nome dato alla servitù in servizio la domenica ma, più probabilmente, dal più antico Omeneghino. Indossa una casacca verde orlata di rosso, pantaloni e scarpe nere, calze a righe bianche e rosse, parrucca e tricorno. Secondo Amina Andreola studiosa del nostro teatro regionale: “La sua comicissima maschera un tempo indicava il contadino inurbato, ignorante, bonario e pieno di buon senso ma ancor prima il servitore devoto, prudente, con un pizzico di spavalderia.” Ma che, rivisitato al giorno d’oggi è riscontrabile nel franco e dinamico tipo del milanese ‘faço tuto mi’. L’affianca di solito la moglie ‘Cecca’ ,sorta di popolana irosa e linguacciuta che lo mette spesso in difficoltà davanti agli altri e, non in ultimo, lo rincorre spesso con il matterello da cucina per picchiarlo. Tuttavia Meneghino, con il suo buon carattere, in fine riesce a domare non senza qualche lamentela da parte di Cecca, finché la pace comune non è ristabilita. Con ‘La cansiun busiarda’ si intende qui dare un tipico esempio della popolarità di certe maschere che in realtà sono più ‘costumi’ che mascheramenti in quanto esse non indossano una vera e propria maschera facciale ma il loro lato comico sta nella frivolezza dei loro costumi multicolori, nei modi del loro parlare desunti dalgli usi dialettali, nella gestualità tipica del teatro della Commedia dell’Arte, in cui la ‘bugia’ era di rigore, all’origine di tutta la confusione proverbiale che ne derivava sulla scena:
«E chi vol sentì, canté, sentì canté / l’è la cansun busiarda / larilalalà, larilalalà / l’è la cansun busiarda. / Sun pasà ‘nt un pais ‘nt un pais / viviju a la gruséra / larilalalà, larilalalà. / J’éra ‘l fèn ent i butai ent i butai/ e ‘l vin su la finéra / larilalalà, larilalalà. / E le fje j’eru sel giuch / e le galine filavu / larilalalà, larilalalà. / L’àn butaje la ruca al béch / e ‘l fus en més le gambe / larilalalà, larilalalà. / J’éra ‘l prèivi ‘nt el pursil ‘nt el pursil / e ‘l crin cantava messa / larilalalà, larilalalà.»
In Piemonte troviamo i noti ‘Gianduia e Giacometta’ nativi di Caglianetto (Asti), inizialmente noti come burattini. Trasferiti nella cittadina Torino diventano maschere del Carnevale. Conosciuto nell’uso dialettale come ‘Givan d’la donja’ ovvero Giovanni del boccale è così detto perché gli piace il vino, e che qualcuno dice: ‘anche un po’ troppo’, per dire che è un ubriacone. Gianduia dal viso aperto, pienotto, ridanciano, col naso volto all’insù, veste il costume originale di Caglianetto consistente in un giubbino di panno marrone orlato di rosso, calzoni al polpaccio di panno verde e calze rosse. In testa ha la parrucca nera tirata all’indietro che finisce col codino, sotto al tricorno verde, il cappello indossato nel torinese alla fine del Settecento. Caratterizzazione del galantuomo tutto cuore, integerrimo ma generoso, difensore dei deboli e degli oppressi, talvolta un po’ stordito e linguacciuto ma bonario. Esempio tipico del robusto contadino piemontese, ingenuo quel tanto che basta, amante dello scherzo, dello scherno a fin di bene, come del buon vino e delle ragazzotte. È qui in Piemonte che si tramandano canzoni e filastrocche note fin dal secolo XV°, come quella riportata qui sotto dal titolo ‘La bergera’:
«A l’ombretta del bussòn bela bergera l’è andurmija, / j’è da lì passò ‘n très joll franssè / a l’ha dije: Bela bergera vòi l’eve la frev. / E se vòi la frev farai fè na cuvertura, / còn al mè mantel ch’a l’è còsì bel, / farai fè na cuvertura passerà le frev. / E la bela l’ha rispòndù:/ Gentil galant fè ‘l vostr viagi, / e lasseme ste còn al mè bergè, / con al sòn dla sòa viola ‘n farà danssè.»
Ed ecco giungiamo nella ridente Toscana dove incontriamo ‘Stenterello’ un po’ narciso un po’ giocherello di se stesso. Maschera del teatro popolare fiorentino conosciuta appena nel XIX° secolo, rappresenta il popolano piccolo borghese, tra il furbo e lo sciocco, ma buono e incredibilmente giusto. Sua principale caratteristica è l’agile e colorito uso della lingua fiorentina infiorata di frizzi e frasi boccaccesche. Così ad esempio egli definisce le donne:
«Donna ciarliera e bizzosa, è peggio d’ogni cosa./ Donna che parla poco, nasconde in seno il foco. / Donna che parla assai, non ti fidar giammai. / Donna muta e silente, peggio di un accidente.»
Stenterello ha fronte spaziosa, volto biaccato con sopracciglia allungate col nero di sughero bruciato che le rende arcuate e folte, al pari delle maschere più antiche. Indossa una zimarra di stoffa blu, un panciotto verde o giallo canarino, braghe nere e calze diverse, una turchina e una gialla, oppure una a tinta unita e una a righe, scarpe basse con grande fibbia e il tricorno sulla parrucca bianca. Alla Toscana è legata uno stornello amoroso dal titolo ‘La mamma ‘un vole’:
«Ho seminato un campo d’accidenti / se la stagione me gli tira avanti / ce n’è per te e per tutti li tu’ parenti. / La mamma ‘un vole, ‘un vole, ‘un vole / che io faccia l’amor con te / ma vieni amore quando la mamma ‘un c’è. / Ho seminato un campo di carciofi / giovanottino mi son bell’e nati / carciofi come te ‘un so venuti. / So’ nata per i baci e voglio quegli / come l’innamorati se gli danno / gli voglio sulla bocca e sui capelli / poi chiudo gli occhi, dove vanno, vanno. / E a me mi piace ‘l fischio del motore / perché il mio amore gli era macchinista / mi buggerava e ‘un me ne ero avvista. / E a me mi piaccion gli uomini biondini / perché biondino è l’amore mio / biondino lui moretta io / che bella coppia che ha creato Iddio. / E a me mi piaccion gli uomini fustini / perché fustino è l’amore mio / fustino lui piccina son io / che bella coppia che ha creato Iddio.»
Fra le maschere legate ai costumi popolari del Lazio spicca il romano ‘Rugantino’, una sorta di bravaccio di rione intelligente e coraggioso, sincero e patriottico, si vuole discendente da quel Miles Gloriousus di Plauto già entrato nella commedia antica, forse anche dal grottesco Manducus, a tratti sprovveduto e nullafacente, innamorato della popolana ‘Nina’ alla quale più spesso dedica la sua serenata. ‘Nina si voi dormite’ conosciuta come canzone d’autore è forse quella rimasta nel repertorio più a lungo di tutte le altre:
«'Nde 'sta serata piena de dorcezza / pare che nun esisteno dolori. / Un venticello come 'na carezza / smove le piante e fa' bacià li fiori. / Nina, si voi dormite, sognate che ve bacio, / ch'io v'addorcisco er sogno / cantanno adacio, adacio. / L'odore de li fiori che se confonne, / cor canto mio se sperde fra le fronne. / Chissà che ber sorriso appassionato, / state facenno mo' ch'ariposate. / Chissà, luccica mia, che v'insognate? / Forse, chi canta che v'ha innamorato. / Nina, si voi dormite, sognate che ve bacio, / ch'io v'addorcisco er sogno / cantanno adacio, adacio. / Però, si co' 'sto canto, io v'ho svejato, / m'aricommanno che me perdonate. / L'amore nun se frena, o Nina, amate, / che a vole' bene, no, nun è peccato. / Nina, si voi dormite, sognate che ve bacio, / ch'io v'addorcisco er sogno / cantanno adacio, adacio. / L'odore de li fiori che se confonne, / cor canto mio se sperde fra le fronne. »
Il costume di Rugantino ha però origini settecentesche, tipico dei carrettieri a vino, costituito da un farsetto rosso sulla camicia bianca, calzoni corti allacciati sotto il ginocchio, calze bianche a righe orizzontali, fascia ai fianchi e coltello alla cintola. Sua compagna è ‘Nina’ o anche Ninetta, una popolana orgogliosa di essere trasteverina e spendacciona; porta lo spadino fra i capelli che all’occorrenza usa contro i numerosi ammiratori che si rivelassero troppo arditi. Un po’ smargiasso e attaccabrighe ma schietto e simpatico ‘Rugantino’ rappresenta il romano più autentico, un po’ millantatore di bravate ma di buon cuore, sempre pronto quando si tratta di bevute in compagnia, sia che si tratti di una ‘morra’ giocata all’ ‘Osteria del tempo perso’; sia che si tratti di stornellate in comitiva con tanto di sberleffi e narrazioni salaci. In epoca moderna il duo Garinei e Giovannini ha potuto costruire sulla sua leggendaria maschera il noto musical dal titolo omonimo: ‘Rugantino’, che tanto successo ha riportato nel mondo e del quale bene lo rappresenta questa ‘Ballata di Rugantino’:
«Ma pensa che bellezza / nun c'ho niente da fa' / porcaccia la miseria / nientissimo da fa' / e rompo li stivali a tutta quanta la città / perché 'n c'ho niente da fa'. / Rugantinì... Rugantinà... nemmeno è giorno e già vòi ruga' Rugantinì... Rugantinà... tranquillo e bono non ce poi sta' Sto proprio come un Papa / anzi mejo, Santità / perché Lei, gira, gira, / quarche vorta ha da sgobba'. / Io, viceversa, sgobbo solamente si me va / perché 'n c'ho niente da fa'./ Rugantinì... Rugantinà... c'hai sempre voglia de sta' a scherza' Rugantinì... Rugantinà... ma non c'hai voja de lavora' Voja de lavora' sarteme addosso / ma famme lavora' meno che posso. / Non posso perde tempo / nun c'ho niente da fa' / levateve de mezzo / fate largo a Sua Maestà / ariva Rugantino che c'ha voja de ruga' / perché 'n c'ha niente da fa'. Rugantinà... Rugantiné... che vai cercando, se po' sapé? Rugantinì... Rugantinà... 'sta smania in corpo chi te la dà?»
Gli fa coro una lista incredibilmente variegata di personaggi: Marco Pepe, Meo Patacca, Mastro Titta, Cassandrino, Mezzetino, Sora Menica, Ghetanaccio il burattinaio e finanche la Befana, figura questa tra le più complesse della tradizione arcaica, tra il magico e il religioso, entrata di traverso sia nel teatro popolare che in quello più specifico dei burattini. Alla Befana è legata più d’una filastrocca e conta fanciullesca che bene ne illustrano il personaggio, come questa dal titolo significativo ‘La Befana’ ripresa dalla tradizione umbro-laziale:
«La Befana gli è arivata / di colore d’arcobaleno / e le porta le puppe in seno / che gli fanno balla balla. / Massaina e Capoccino sem venuti a casa vosra / ci darete del quattrino / se l’avete nella borsa. / Noi vogliamo delle ova / o mia cara Massaina / e per far bòna figura / ce ne date una dozzina. / Noi si piglia anche dell’agli / o cipolle o sian capretti / empiremo queste balle / di coniglioli o galletti. / Poi si da la bonanotte / a ‘i segnore benedette / questa vorta non si sorte / ci farete anche ‘l rinfresco. / Se vi avremo contentati / con la mia grande squadriglia / sémo meglio noi de’ frati / fora de la porta / benediciamo tutta la famiglia.»
Ma era la maschera facciale infine che più d’ogni altra cosa trasformava la fisionomia del personaggio ch’era preso di mira e che lo rendeva immediatamente riconoscibile al folto pubblico che presenziava a detti spettacoli popolari. Era la maschera infatti, più del travestimento, ad esporre nell’immediato il carattere tipico dell’incongruenza d’ogni personaggio che si affacciava sulla scena. Che fosse una risata subito trasformata in una smorfia sarcastica, oppure una lamentazione amorosa, o ona constatazione di morte, la maschera facciale determinava la conseguente gestualità dell’attore al quale era richiesta grande maestria d’improvvisazione; tale che già nell’antichità il termine ‘maschera’ si dava come sinonimo di ‘persona’. L’ambiguità e la varietà che il termine ha assunto sono esplicite in numerose citazioni di autori latini, nelle quali ricorre, oltre che con il principale significato di maschera teatrale, anche quello di attore o parte rappresentata sulla scena, ed ancora quello di carattere, personalità, che più si avvicina al valore che noi oggi gli attribuiamo. Il significato tradizionale rituale-magico e religioso della maschera trova una sua precisa spiegazione proprio in ambito teatrale in quanto le maschere venivano indossate dai partecipanti in primis nelle cerimonie religiose in cui la ‘persona’ letteralmente si travestiva da qualcosa d’altro: satiri, animali, uomini/donne divinità. L’uso della maschera dunque per assolvere a esigenze pratiche. Come i partecipanti del rito, attraverso la maschera che copriva il volto, gli attori venivano trasferiti in una diversa realtà che li possedeva completamente, annullando la reale individualità di ciascuno, così nella scena, l’attore si calava completamente nella situazione di cui era protagonista e la maschera era il mezzo essenziale per il trasferimento in una realtà ‘altra’ che si voleva rappresentare. Ed ecco che come per incanto o per magia sotto il ritratto un po’ burlone, un po’ grottesco delle maschere popolari troviamo infine quelle relegate a personaggi che pur facendo riferimento a questa o quella regione, indossano la ‘maschera facciale’ propria della Commedia dell’Arte. Figure queste forse più note al grande pubblico e per certi aspetti forse più care.
“Ogni regione – scrive Sergio Tofano – si è impadronita di una maschera venuta fuori non si sa bene da dove, ma vecchia quanto il mondo e destinata a non morire, che ha dato ad essa un’appropriata cittadinanza. Fatta sua, l’ha rifoggiata, l’ha ripulita, l’ha rimpastata, arricchendola di pregi e difetti, modellandola come un monumento vivo sui suoi vizi e sulle sue virtù”.
Bologna, ad esempio, città universitaria per eccellenza, sembra sia la più antica università al mondo, ha il ‘Dottore’, profondo e pedante come solo sa essere un dotto. La città lagunare di Venezia, sede di traffici e luogo di avventurieri ha il suo bel ‘Capitano’ che, stando a quanti sono gli attori che l’hanno interpretato ha spalancato i confini d’Europa.
Bergamo così detta ‘soprana e sottana’ per via dei molti baciapile religiosi, ha il suo ‘Arlecchino’ che, con ‘Brighella’ forma il duo comico più famoso e ‘scassato’ che si sia visto al mondo. A Milano troviamo invece ‘Beltrame e Scopone’ fratelli di Meneghino che li rappresenta bene entrambi. A Napoli … beh, a Napoli quella che è la maschera più complessa e straordinaria che si possa immaginare: ‘Pulcinella’, per quanto accompagnato da altre notevoli maschere come Scaramuccia e Tartaglia.
“Ciò che ne è venuta fuori - scrive ancora Tofano – una girandola, e che girandola! Dai colori più smaglianti, tutta nostra, che ha dato tanto spesso al nostro paese e ha fatto ridere il mondo intero”. Come in questa ‘Canzone di Niccolò’ d’epoca medievale, attribuita a Niccolò Macchiavelli ed entrata nell’uso popolare tosco-emiliano:
«Perché la vita è breve / e molte son le pene / che vivendo e stentando ognun sostiene / dietro alle nostre voglie / andiam passando e consumando gli anni / ché chi il piacer si toglie / per viver con angoscia e con affanni / non conosce gli inganni / del mondo, o da quei mali / o da che strani casi / oppressi quasi sian tutti i mortali. / Per fuggir questa noia / eletta solitaria vita abbiamo / e sempre in festa e in gioia / giovin leggiadri e liete ninfe stiamo. / Or qui venuti siamo / con la nostra armonia / sol per onorar questa / sì lieta e dolce compagnia.»
Il bergamasco ‘Arlecchino’ figura tra le maschere italiane più antiche e fa la sua apparizione già nelle composizioni improvvisate dei ‘mimi’ attori della cultura latina. Ricordata in un primo manoscritto di Bartolomeo Rossi risalente al 1584, successivamente passato dalla scena italiana ai teatri di tutta Europa grazie a Carlo Goldoni che lo scelse come protagonista di alcune sue commedie famose. È il tipico esempio del servitore, semplice, ignorante e credulone, al tempo stesso arguto e malizioso. La sua figura piena di grazia ma anche di sveltezza e agilità ha sempre destato simpatia fra gli spettatori di ogni età data, forse, dal suo vestito fatto di tanti pezzi ‘rombi’ di stoffe e colorazioni diverse che lo rendono molto gradevole allo sguardo, quasi una figura ‘sfuggevole’ alla presa.
Va qui ricordato inoltre uno dei più grandi esempi del teatro italiano allorché l’eclettico regista Giorgio Strehler che negli anni ’60 lo riportò in auge nella goldoniana commedia: ‘Arlecchino servitore di due padroni’ interpretato dal pur grande Ferruccio Soleri che ha fatto il giro del mondo. Per quanto vadano qui ricordati gli storici anni della prima esecuzione del 1947, Marcello Moretti, Franco Parenti e Checco Rissone. Non a caso ci troviamo a Venezia in casa di ‘Messer Pantalone’, un tempo chiamato ‘il Magnifico’ poi anche ‘de’ Bisognosi’, forse per il fatto che fosse così avaro e brontolone da rifiutare qualsiasi aiuto ad alcuno. Lo si vuole desunto dalle antiche Atellane del V° secolo a. C: farse romane caratterizzate da un linguaggio popolare e contadinesco e da maschere fisse il cui nome trae origini proprio dalla città di Atella, fra le popolazioni osche della Campania. Rappresenta un anziano mercante all’antica, tutto sommato un buon vecchio astuto e grave, onesto ed onorato, spesso ingannato dai suoi servitori dei quali ne paga sempre le spese. Padre incline a tiranneggiare le proprie ‘putele’ quali Rosaura e Colombina che vuole a tutti i costi maritare a chi vuole lui, ma anche senza spendere un baiocco. Vecchio e grasso con il naso adunco e la barba a punta, veste secondo la foggia dei veneziani benestanti del tempo antico, una zimarra lunga fino ai piedi che lo rende riconoscibile e figura di tutto rispetto. Carlo Goldoni lo ritrasse nella figura di Lunardo in ‘I Rusteghi’ nel più famoso ‘Contratto di matrimonio’.
Quella del ‘Capitano’ è un’altra figura assai comune in ogni tempo, nella cui maschera sono confluiti personaggi nativi di luoghi ed epoche diverse, finché – scrive Vittorio Gleijeses – con l’instaurazione del predominio spagnolo in Italia, il suo aspetto tipologico si identifica con il ‘soldato sbruffone’, fanfarone e brutale, feroce ma anche ridicolo, oggetto di avversione e di odio per le angherie e ruberie di cui è capace e che ne fanno l’oggetto di una pietà sprezzante a causa della sua miseria materiale e morale. Pur conservando in ogni sua rappresentazione la foggia militare del costume, la sua maschera seguì i tempi cambiando foggia. Una delle maschere indossate poi divenuta famosa soprattutto in Francia è certamente quella dello ‘Scaramuccia’ napoletano, amante delle belle donne e delle bottiglie di vino, divenuta celebre nel ‘600 grazie a un interprete d’eccezionale bravura, di uno : Tiberio Fiorilli, uno dei maestri di Molière, sempre agilissimo e spiritoso fino all’età di 83 anni. Nota anche in Calabria col nome di ‘Giangurgolo’ diventa un soldato ancora più fanfarone e allo stesso modo fifone degli altri più famosi di lui, quali ‘Capitan Fracassa’ o quel ‘Capitan Spaventa’ i cui nomignoli fanno già pensare ai soggetti che vanno a interpretare. Con Giangurgolo eccoci proiettati nell’estremo Sud della nostra penisola. Lo testimoniano le musiche e le canzoni narrative tipiche della tradizione, inserite in ogni Carnascialata, come questa dal titolo significativo ‘Zza Marianna’:
«Zza Marianna, zza Marianna / lu campaneddu vostru cu’ vi lu ‘ntinna? / Ca vi lu ‘ntinnu jeu: / Zza Marianna, cori meu …/ Ha d’èssiri di Patti la pignata, / pe’ fari la minestra sapurita! …/ Zza Marianna, ciuri di bellizzi / non vidi ca ti pennunu ‘ssi lazzi! .../ Ti dicu ‘mi t’i pettini e t’i ‘ntrizzi, / ca L’ò mini pè tia nèsciunu pazzi …/ Lu cori di la donna estì ‘na canna …/ ma l’omu è forti comu ‘na culonna! …/ Zza Marianna, zza Marianna ‘na vota …/ jeu fari non la pozzu cchiù ‘sta vita! …/ La testa mi firria comu a ‘na rota: / Zza Marianna, figghia sapurita ! …/ Mangia carni di pinna, e m’è corbacchia; / dormi cu’ ‘na signura , e puro vecchia! …»
Con ‘Peppe Nappa’ maschera del servo pigro e sbadato approdiamo in Sicilia in rappresentanza dei prototipo dei ‘citrulli’, cioè lo sciocco degli sciocchi di questo mondo, tale che tutti i citrulli di questo mondo messi assieme non potrebbero combinare i pasticci che questi combina, al punto che viene da chiedersi se il Nappa sia davvero stupido o finga di esserlo. Peppe Nappa non porta maschera né s’infarina o si trucca in volto, è agilissimo nella danza, maestro nell’eseguire le più comiche e burlesche piroette. È riconoscibile per le sue ‘nappe’, cioè le toppe che ha nei calzoni, da ricordare la figura del più moderno ‘pagliaccio’ da Circo che, pur prendendo calci e bastonate riesce infine a far ridere e a farsi amare. A Peppe Nappa dedichiamo questa ‘Terra ca nun senti’:
«Maledittu ddu mumento / ca raprivi l’occhi ‘nterra / ‘nta stu ‘nfernu / sti vint’anni di turmentu / cu lu cori sempre ‘nguerra / notti e juorno. / Terra ca nun senti / ca nun voi capiri / ca nun dici nenti / vidennumi muriri! / T / Terra ca nun teni / cu vole partiri, / e nenti ci duni / pi falli turnari. / E chianci, chianci / ninna oh! / E chianci, chianci / ninna oh! / maledittu ‘sta cunnanna, ca ti ‘nchiova / supra ‘a cruci d’a speranza! Maliditti cu t’inganna / prumittennuti la luci e fratillanza.»
Maschere di una certa rilevanza sono note in Sardegna, diverse se presenti al Nord o al Sud dell’isola dove rappresentano figure più o meno legate alla natura dei luoghi; come ad esempio quelle di sughero dell’Iglesiente e quelle invece di legno ‘più dure’ della Gallura. Ancora più arcaiche, forse d’origine pastorale magico-religiose risultano essere quelle dei ‘Mamuttones’ tipiche del Carnevale Barbaricino di Mamoiada. Ricco di atmosfere suggestive, impreziosito da eventi come la sfilata appunto dei Mamuttones, personaggi arcaici rivestiti di pellicce d’animale e maschere sul volto, cadenzata dal cupo suono ritmato dei campanacci, portati a spalla in gran numero dalle maschere che conferiscono ai danzatori un significato per niente casuale e tantomeno effimero:
«Le maschere cupe, le loro movenze, i suoni lugubri che ne fanno da contrappunto, incutono rispetto e, al tempo stesso, mettono a disagio. Assistendo a una loro esibizione non è difficile immedesimarsi in quel lembo di antiche tradizioni che le stesse intendono e riescono ad evocare. (..) Le maschere a loro volta sono attorniate dagli ‘Issokadores’, questi sfilano senza campanacci indossando il costume tradizionale sardo e recano in mano una fune detta ‘sa soca’, con la quale riescono a catturare gli spettatori che a un certo punto vengono tirati al cospetto ravvicinato delle maschere, tra lo spavento e talvolta la paura che incombono.» (F. S. Ruiu)
Recenti studi, coralmente recepiti, collocano l’origine delle maschere del Carnevale barbaricino nel tempo delle religioni misteriche e dei riti dionisiaci. Logico pensare che i rituali proposti siano quanto rimane di antiche manifestazioni propiziatorie sopravvissute nel tempo, legate alla fertilità e all’alternanza delle stagioni. Anche ‘Sa Sartiglia’ di Oristano, un tempo chiamata ‘sortija’, è la giostra equestre più affascinante della Sardegna tra cultura e tradizioni. Menzionata per la prima volta in documenti che risalgono al 1547, così come è giunta sino ai nostri giorni, è da considerarsi come un pubblico spettacolo, organizzato allo scopo di intrattenere e divertire gli spettatori che ogni anno vi prendono parte sempre più numerosi. La particolarità di questa ‘sfida’, che si differenzia da tutte le altre conosciute, è racchiusa nella vestizione e infine nell’indossare la ‘maschera’ bianca che nasconde il ‘vero’ volto di chi la indossa: ‘su Cumponidori’. L'espressione profonda di questa maschera trasforma ‘su Cumponidori’, lo rende inavvicinabile, inarrivabile. Da quel momento in poi, sino alla fine della corsa, il Cavaliere diventa un ‘semidio’ sceso tra i mortali per dare loro buona fortuna e mandare via gli spiriti maligni. Alla fine su Cumponidori, vestito con in capo un cilindro nero, la mantiglia, una camicia ricca di sbuffi e pizzi, il gilet e il cinturone di pelle, sale sul cavallo che è stato fatto entrare in una sala disposta a religioso silenzio per non innervosire la bestia, gli viene consegnata ‘sa pipia de maju’ e, completamente sdraiato sul cavallo, esegue ‘sa remada’ per passare sotto la porta ed uscire all'esterno, dove lo attendono gli altri cavalieri e una folla plaudente che subito inizia a benedire.
Con ‘Pulecenella’ si dovrebbe aprire qui un capitolo a parte per la sua complessità storico-sociologica e filosofica del popolo napoletano. Cosa questa che rimando ad altra occasione non solo per ragioni di lungaggine dell’articolo, soprattutto perché con essa si entra prepotentemente nella ‘storia del teatro popolare di piazza’ e non solo. Legata a origini più antiche la maschera di Pulecenella è un miscuglio di coraggio e cialtroneria, vanità e astuzia, all’occorrenza alterigia e ciarlataneria che ne fanno un esempio, o forse un ‘modello’ della complessità umana. Ghiotto e insolente, arguto e gioioso, piacevole e impertinente, pazzerello e ciarliero, Pulecenella accoglie in sé il sentimento più profondo e oscuro dell’allegria e della tristezza dell’animo partenopeo, misero e arguto al tempo stesso, che non conosce cattiveria infame e che pure, riesce a impietosire per un piatto di maccheroni:
«Pe tutte so nu principe / pe tutte no signore. / Solo per il mio pubblico / fedele servitore.»
Ed ecco infine abbiamo ritrovato il nostro buonumore, come per incanto o per magia sotto il ritratto un po’ grottesco e un po’ burlone delle maschere popolari della tradizione italiana, siamo giunti alla fine di questo ‘incontro’ con quei personaggi più o meno noti e per certi versi cari. Alla fine altro non mi rimane che ringraziare e come un Arlecchino … di fare a tutti voi (che mi avete seguito) l’inchino.
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