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’Comunicare il futuro!?’ 6 Echi della comunicazione di massa

Argomento: Sociologia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 27/03/2023 16:34:23

5 – Echi programmatici della comunicazione di massa.
(Umberto Eco ‘affabulatore’ della comunicazione fantascientifica).

L’attendibilità di quanto sopra enunciato trova un riscontro affascinante nel libro di U. Eco “La ricerca della lingua perfetta” (1963), sì da rasentare una vera e propria ‘avventura letteraria’ ai margini della Science-Fiction, all’interno del quale si fa riferimento a un ipotetico ‘Linguaggio spaziale’ che prende spunto dal progetto scientifico “Lincos”, una sorta di idioma elaborato dall’olandese H.A. Freudenthal (1960), afferente a “…poter interagire con eventuali abitanti di altre galassie”. Niente di più di una formula didattica commisurata a un codice matematico nel rispetto di regole date, per trarne una lettura a livello esclusivamente tecnologico.

Scrive Eco in proposito: “Lincos non è una lingua che aspiri a essere parlata, è piuttosto un progetto di come si possa inventare una lingua insegnandola nel contempo a esseri che presumibilmente avrebbero una storia (remotissima) e una biologia diversa dalla nostra. Progetto che H.A. Freudenthal presumeva di poter lanciare nello spazio in forma di ‘segnali elettromagnetici’ (per comodità si assume che siano onde radio di diversa durata e lunghezza), di cui non conta la sostanza, bensì la forma dell’espressione e del contenuto, […] fornendo così l’immagine di un linguaggio quasi esclusivamente “mentale” che porti a riflettere su un’altra discendenza, quella dell’antica ricerca sulle ‘lingue perfette’”.

“Sì che, cercando di comprendere la logica che guida la forma dell’espressione che viene trasmessa, gli alieni dovrebbero essere in grado di estrapolare una forma del contenuto che in qualche modo non dovrebbe essere loro estranea. […] Presumendo inoltre che gli spaziali abbiano una tecnologia che li renda capaci di ricevere e decodificare lunghezze d’onda, e che essi seguano alcuni criteri logici e matematici affini ai nostri. Dacché, passati a famigliarizzare gli alieni con una numerazione binaria che sostituisce la sequenza dei segnali, sarebbe possibile comunicare, sempre per ostensione e ripetizione, alcune delle principali operazioni matematiche”. (U. Eco op.cit.)

Presumibilmente il progetto “Lincos” risulta più interessante dal punto di vista antropologico-pedagogico che da quello glottogonico della ‘convergenza linguistica’, tuttavia, ce n’è qui per spingersi in un’avventura spazio-temporale sia scientifica che letteraria onde avallare ‘il sogno di una lingua perfetta’, in cui poter definire tutti i significati dei termini di un linguaggio naturale che consenta interazioni dialogiche ‘sensate’ tra uomo e macchina, e/o alle macchine di elaborare inferenze proprie dei linguaggi naturali che, non in ultimo, rientrano nell’interesse della ricerca contemporanea sulla ‘comunicazione’ e in quello specifico dell’Intelligenza Artificiale (I.A.).

“In I.A. per esempio – scrive ancora Eco – si cerca di fornire alla macchina regole di inferenza in base alle quali essa possa ‘giudicare’ della coerenza di una storia, e così via. […] La letteratura in proposito è assai vasta, divide i sistemi molteplici da quelli che presumono ancora la possibilità di una semantica a componenti elementari e/o primitivi, da quelli che forniscono alla macchina schemi di azione, o addirittura di situazioni (frames, scripts, goals). Tutti i progetti di I.A. ereditano in qualche modo la problematica delle lingue filosofiche a priori, e riescono a risolvere alcuni problemi solo con soluzioni ad hoc e per porzioni molto locali dell’intero spazio di azione di una lingua naturale.”

A leggere i suoi molti libri, si scopre che Eco, semiologo, filosofo, scrittore e saggista, era a sua volta un lettore appassionato di ‘Science-Fiction’, soprattutto di ‘fantascienza sociale’, quella che, tanto per dire, veniva pubblicata sulle riviste americane Galaxy e The Magazine of Fantasy and Science Fiction e che continua ad avere in molti scrittori contemporanei i suoi principali sostenitori. Eco infatti, attribuiva alla fantascienza un ruolo ben preciso, quello di trasmettere all'interno della “cultura di massa”, praticamente a tutti i fenomeni culturali (dai fumetti, alle canzoni, dalla radio alla televisione), con una sua visione progressista della società, di cui si era già occupato in “Apocalittici e integrati” (1964), fosse anche il più commerciale dei contenitori, come appunto l’informazione e la pubblicità, ingabbiate come sono in una formula edulcorante e d’intrattenimento.

È così che alla domanda se “una critica o una teoria della comunicazione di massa è (ancora) possibile? rispondeva: “Lo dicevo già nella prefazione del ’64: fare la teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria di giovedì prossimo. […] È che il territorio si modifica, dal di dentro e dal di fuori. E se si scrivono libri – e si fanno teorie, aggiungeremo che – sulle comunicazioni di massa bisogna accettare che siano provvisorie. E che magari perdano e riacquistino d’attualità nello spazio di un mattino”. Allorché, a un’altra domanda su “che cosa s’intende per cultura di massa?”, rispondeva con riflessiva calma: “È un concetto generico e ambiguo con cui si finisce per indicare una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti ed elaborata sulla misura di tutti […] La cultura di massa è un mostruoso controsenso, è l’anticultura”.

Definizione quest’ultima che, se vogliamo, è autorevole quanto inaspettata, soprattutto per un semiologo a spasso coi tempi, attento alle variazioni linguistiche più sofisticate, che davvero non faceva sconti alla ‘fantascienza’ dai suoi esordi come scrittore di racconti. Vale qui la pena ricordare, ad esempio, che la sua prefazione al racconto “Le sirene di Titano” (1965) di K. Vonnegut Jr, uscito nella collana ‘Science Fiction Book Club’. Ne va dimenticato che nella sua raccolta di saggi “Apocalittici e integrati” (op.cit.), proponeva ai critici letterari suoi colleghi, una metodologia precisa per recensire i romanzi di questo genere, sostenendo che: "La fantascienza è letteratura di consumo, e quindi non va giudicata (se non per finzione snobistica) secondo i criteri applicabili alla letteratura sperimentale e di ricerca".

Ma chi erano, e tutt’ora lo sono, secondo Umberto Eco gli ‘apocalittici e gli integrati’?: “Sono quelli che a guardarli bene però sembrerebbero facce diverse della stessa medaglia”, aveva risposto precedentemente, durante una sua ‘Lectio Magistralis’ per il conferimento di una ennesima laurea honoris causa, con la sua solita faccia da gatto sornione. “Quelli che ci hanno abituato a teorie e analisi sociologiche che hanno la stessa volubilità e la stessa fretta con cui gli utenti danno vita a trend o codificano modi di stare sui social per poi dimenticarsene solo qualche giorno dopo, dimostrando intanto la natura teleonomica (finalismo insito nelle forme) degli ambienti digitali e, con loro, di qualsiasi prodotto dell’industria culturale”.

In un altro famoso saggio dal titolo significativo “I mondi della fantascienza”, apparso nella raccolta “Sugli Specchi” (1985), Eco scrive: "La buona fantascienza è scientificamente interessante non perché parla di prodigi tecnologici – e potrebbe anche non parlarne affatto – ma perché si propone come gioco narrativo sulla essenza stessa di ogni scienza, e cioè sulla sua ‘congetturalità’. La fantascienza è, in altri termini, narrativa dell'ipotesi, della congettura o dell'abduzione, e in tal senso è gioco scientifico per eccellenza, dato che ogni scienza funziona per congetture, ovvero per abduzioni." Lì dove ‘abduzione’, nell’accezione letteraria utilizzata dall’autore, sta per allontanamento da un prefisso o punto di riferimento della realtà.

Ma forse una breve delucidazione può essere d’aiuto per meglio definire la sua attività di ‘affabulatore’ della comunicazione fantascientifica, perché in realtà l’Eco scrittore non si è mai risolutivamente inoltrato nell’ambito della ‘Science Fiction’ tout-court, se mai, è stato piuttosto un encomiabile lodatore del genere ‘Fantasy’, (valga per tutti “L’isola del giorno prima” (1994), sebbene, in seguito, abbia cambiato la sua posizione, attribuendo alla fantascienza un più stretto legame con la ‘scienza’ vera e propria, limitandosi a riflessioni critiche, producendosi come scrittore confacente a questa materia. Invero il suo esordio narrativo è avvenuto proprio attraverso racconti di un certo rilievo via via raccolti in “Diario minimo” (1965), e in “Secondo Diario Minimo” (1992), che oggi rappresentano il segno della sua grandezza intellettuale capace di affrontare anche tematiche preminenti sulla “comunicazione di massa”.

La ‘comunicazione’, dunque, come trasferimento intenzionale dell’informazione culturale che Eco, nella lezione tenuta al Festival della Comunicazione di Camogli (2014), rapportava alla ‘semantica’ e alla ‘pragmatica’, attribuendone però la scarsa attendibilità, minata dall'uso della ‘rete’: “La funzione dei ‘gate keepers’ (influencer in marketing) è tramontata, non ci sono elementi di garanzia che vaglino le informazioni. Persino la funzione dei giornali si è ridotta; l'apparente libertà dell'utente coincide con il suo smarrimento. Comunicare oggi significa rendere potenzialmente noto a tutti ciò che si fa o ciò che ci si propone di fare. […] Per la prima volta nella storia dell'umanità, grazie ai ‘social network’, gli spiati collaborano con le spie. D'altra parte la comunicazione on-line ha sottratto grandi masse all'isolamento. Twitter ha aiutato i reclusi a far sentire il loro messaggio. Il chiacchiericcio di Facebook serve a mantenere solo il contatto, a prevalere è la funzione fatica del linguaggio”.

Linguaggio che già alla metà degli anni Sessanta Eco definiva ‘stanco’, le cui considerazioni, registrate nel suo articolo: “Cultura di massa e ‘livelli’ di cultura” (1965), richiamano ancor oggi al superamento dell’inefficace contrapposizione tra sostenitori e detrattori della cultura di massa, ponendo l’accento su una generale tendenza allo scadimento dell’intero “campo culturale” che, per rendersi sempre più accessibile al mercato, aderiva in misura crescente ai bisogni del ‘consumo culturale’. Ciò nonostante, pur criticandola, rammentava positivamente quanto affermato dal sociologo francese Edgar Morin in occasione dell’uscita del suo libro “L’ésprit du temps” (1962), in cui si valorizza la ‘cultura di massa’ per la sua “capacità di fungere da terreno di comunicazione tra classi sociali e culture diverse”.

Un’investigazione speculativa, se mi è concesso dire, su cui si è qui soffermata questa tesi, improntata sul preposto “Comunicare il futuro!?” – vale la pena ricordarlo – assumendo come punto basico le premesse scientifiche e le innovazioni tecnologiche (per lo più letterarie) che ne hanno permesso la realizzazione, per quanto le tematiche qui affrontate richiederebbero una più ampia analisi, proprio sul terreno specifico delle ‘divergenze’ e delle ‘confluenze’ tra la cultura di massa e le classi sociali, per una teoria generale delle ‘reti neurali’ (artificiali), che emulano le prestazioni cognitive operanti sullo sfondo del cambiamento in atto.

Come scrive Marica Tolomelli, storica contemporanea di cultura e società, nel suo eloquente saggio “Sfera pubblica e comunicazione di massa” (2006): “La storia della comunicazione è sempre stata animata dal ritmo della ricerca e dal contributo di tanti singoli studiosi che spesso lavorano in maniera del tutto individuale e indipendente, la cui opera non può essere colta se non quale contributo nel lungo e variegato processo di accumulazione del sapere. Così come i principali progressi nell’avanzamento di trasmissione della cultura di massa eminentemente rilevata dai preziosi momenti di dibattito e di confronto con la ‘comunità scientifica internazionale’, che da sempre funge da stimolo al progresso dell’umanità”.

Altro aspetto di grande interesse, non trattato in questa tesi, riguarda l’interattività dei processi informatici, i codici organizzativi delle informazioni, dei sistemi operativi e dei linguaggi di programmazione, l’elaborazione dati e i modelli di riferimento della ‘rete’ globalizzata, cui la ‘comunicazione’ fa da interfaccia nella distribuzione del sapere, ad uso e consumo della ‘cultura di massa’ per le sue capacità di raggiungere simultaneamente vasti pubblici nello spazio e nel tempo. Quella stessa che grazie alle scoperte della scienza e alle innovazioni tecnologiche, continua a trasformare l’opinione pubblica all’interno del dibattito socio-economico in conformità con i settori del commercio, dell’imprenditoria, della sanità, nonché nell’interesse dell’insegnamento culturale scolastico-universitario e delle arti applicate.

Scrive R. Piccolo in “Nuovi confini artistici” (2022): “È soprattutto l’intelligenza artificiale (I.A.) che si sta prendendo il futuro di tutto, anche le facoltà cognitive superiori finora considerate accessibili solo alla mente umana”. Ma l’I.A. potrà mai superare l’intelligenza umana?, ci si chiede tra l’incredulo e lo sbigottimento generale, come davanti a un’improvvisa opera di smisurata immaginazione, o di sconfinata follia.

Non c’è di che prendersela, l’I.A. non segnerà la fine della creatività umana, che pure rientra in questo specifico contesto. Tuttavia, per una possibile quanto imprevedibile lungaggine, preferisco sorvolare sull’argomento, che pure occupa un posto di tutto rilievo nella letteratura e nella storia delle art applicate: (cinema, TV, Design, ecc.). Vale comunque la pena di fare almeno un esempio. Arriviamo così al robot-killer di “Io, robot” (1982) dello scrittore di fantascienza Isaac Asimov. Né serve dire delle macchine che pensano da sole, o di quelle super intelligenti del tipo ‘Matrix’ o ‘Terminator’, benché in esse (incredibile ma vero) vengono descritte le “leggi della robotica che regolano il rapporto tra uomini e robot”, di cui la ‘scienza ufficiale’ (a ragione) non si è ancora occupata.

Certi scenari vanno bene per quei programmi che possono essere chiamati ‘intelligenti’ solo nel senso molto ristretto algoritmicamente in grado di svolgere specifici problemi cognitivi, dando l’impressione di pensare realmente”. Ma se da un lato è improbabile che le simulazioni del nostro cervello, anche quelle più sofisticate in assoluto, siano in grado di produrre sensazioni coscienti; di fatto non è ancora del tutto chiaro se macchine del genere saranno effettivamente dotate di coscienza. Per quanto, macchine dotate di intelligenza di livello umano sono ormai all’orizzonte, pronte a sostituire l’essere antropico con le nostre ‘controfigure digitali’ in molte delle applicazioni manuali e tecniche virtuali, nonché alquanto creative con software di base molto sofisticati, cosiddetti TTI, (acronimo di Text-To-Image), considerate la vera avanguardia dell’arte digitale, ognuna con caratteristiche differenti dagli altri e addestrate per essere più performanti in certi generi di ‘machine learning’.

“In fatto di arte, ad esempio – scrive ancora R. Piccolo (op.cit.) – l’I.A, ha ‘creato’ nel vero senso della parola, qualcosa di radicalmente nuovo, passando dall’immaginazione individuale allo schermo del computer (pc) in un batter di ciglia. Si può non chiamarla arte, ma quello è il termine che per ora più ci si avvicina. A questo punto le potenzialità di sperimentazione sono letteralmente infinite, tanto più che è possibile addestrare le ‘machine’ con diversi database specifici e, in un certo senso, cambiare la ‘personalità’ al programma, affascinati da questa innovativa tecnologia digitale. Si è perso il monopolio della creatività, le ‘machine’ conquistano l’ultimo baluardo del cervello umano (?)”. La domanda che ci si pone è sempre la stessa dall’avvento della tecnologia che ha rivoluzionato il mondo e, come per l’arrivo di ogni tecnologia che soverchia i paradigmi che la precedono, non sembra sia giunta una sentenza che possa dirsi definitiva.

Possiamo pensare all’ascesa del TTI come per la nascita della fotografia meccanica, che un secolo fa, fu bersagliata da illustri critici che la consideravano ‘disumanizzante’. Allo stesso modo la fotografia digitale non ha estinto le illustrazioni umane, ma ha piuttosto ampliato i ‘luoghi’ in cui le immagini appaiono. Alla stregua dei generatori di immagini con I.A. si aprono possibilità tutt’ora incredibili, permettendo a tutti di dar sfogo alle proprie immaginazioni e crearne di nuove mai viste prima in una manciata di secondi. Va però detto che “non tutto fa il computer”, che l’I.A. non è nient’altro che uno strumento nelle mani dell’“homo faber” di ancestrale memoria, l’uomo che programma, elabora, predispone e che, secondo alcuni, andrebbe considerato addirittura co-autore di molta produzione che con qualche beneficio, si vuole chiamare ‘arte’.

F. D’Isa, artista, scrittore, giornalista e curatore d'arte (in R. Piccolo “Nuovi confini artistici” op.cit.), ravvisa in proposito: “Innanzitutto per padroneggiare l’uso dei software si dovrà avere buona dimestichezza col tutto il mondo visivo e iconografico del passato, perché i termini dell’algoritmo sono quelli legati a questo mondo. Per cui le competenze più importanti da considerare sono quelle che riguardano l’addestramento, quelle abilità più vicine all’ambito sociale o psicologico che in futuro dovrà riuscire a entrare in sintonia con la ‘macchina’ tramite competenze linguistiche e comunicative. L’intelligenza artificiale (I.A.) è la fine del mondo come lo conosciamo, non perché è davvero senziente nel senso che molti vorrebbero dargli, ma per il modo radicale di cambiare le regole del gioco, di spostare il modo in cui si crea (e/o ricrea) totalmente in un altro contesto”.

Come anche suggerisce G. Magini, programmatore e fondatore del progetto “Scrittura Industriale Collettiva” (2013): “In fondo potremmo pensare a questi programmi non più come delle ‘intelligenze artificiali’ che sfidano le capacità cognitive umane, ma come un alleato che espande i nostri confini cognitivi. Un potenziamento del nostro cervello. Una sorta di immaginazione aumentata che ci traghetterà al di là di noi stessi verso un nuovo, e ancora inesplorato, paradigma dell’intelligenza ibrida e della creatività artistica. In un luogo in cui uomo e macchina trovano una sintesi perfetta”.

Come in tutte le cose, anche osservando lo sviluppo di queste nuove tecnologie si può essere ottimisti o pessimisti, almeno stando all’insegnamento del campione di scacchi G. Kasparov – autore del saggio “Deep Thinking: Dove finisce l’intelligenza artificiale, comincia la creatività umana” (2019), ancor più che “…l’ideale è pensare al futuro con positività, auspicando una conciliazione tra il mondo dell’informatica e quello della creatività”.

Come dire che per raggiungere la dimensione auspicabile in principio di questa argomentazione bisogna almeno crederci, ed io, in quanto autore di questa tesi, fermamente ci credo.

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