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’La Musica di Dio’ 2 - ricerca etnomusicologica.

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 14/12/2023 07:56:15

LA MUSICA DI DIO / 2
Sacro e profano nella Liturgia della Messa – Ricerca etnomusicologica.

Allorché la Liturgia Cristiana delle origini s’annunciava salvifica e sostanzialmente comunicativa di pace e di fratellanza, fin da allora era costume lo scambio e l’offerta dei doni della natura durante la “Messa” che, trasformati in cibo, venivano distribuiti ai più bisognosi in segno di solidarietà, affinché tutti potessero godere della ‘gloria’ per la ‘Resurrezione di Cristo’ con l’animo colmo di gioia, a voler significare che alla ‘nera fame del tempo’ andava corrisposta un’adeguata dose di sostentamento per il corpo e per lo spirito. Sostentamento che, dopo i necessari ‘pianti quaresimali’ e le ‘processioni di espiazione’, ben si prestava ai proponimenti di ringraziamento per il ritorno al quotidiano ‘vivere’ della comunità tutta, raccolta in preghiera per l’arrivo della Pasqua.
Questo il senso intrinseco alla spiritualità religiosa della “Messa Pasquale” delle origini, affermatasi nella concretezza definitiva agli albori del Medioevo per tutto il XV secolo, allorquando Santa Romana Chiesa giunse ad esercitare il suo pieno potere in Europa nella Spagna dei Re Cattolici. Successivamente, con l’instaurazione del Tribunale Ecclesiastico, più conosciuto come Santa Inquisizione, l’aspetto quaresimale della ‘festa’ si tramutò ben presto in patimento popolare a causa delle truculenti “Processioni per la Settimana Santa” a scopo penitenziale, in cui si videro alzare i ‘roghi’ contro il paganesimo e la stregoneria, con la cacciata dei giudei-sefarditi, degli zingari e quant’altri fossero diversi, nel modo in cui abbiamo appreso a conoscere attraverso le insanguinate pagine della storia.

Ma una così ferrea disciplina di tipo aconfessionale, fortemente imposta dall’allora potere regnante, e forzatamente accettata dalle frange dei vecchi cristiani, trovò il disaccordo dei Mozarabi presenti sul territorio fin dall’Anno Mille, sorti in difesa
dell’uso della lingua ‘mozarabica’, che dava atto di un ‘continuum’ dialettale romanzo conservato nella penisola iberica da parte dei Cristiani nell'XI secolo e nel XII secolo, ancorché cancellato dalla loro secolare liturgia avallata in comunione con la Chiesa cattolica, dopo l’abolizione del rito liturgico ‘Mozarabe’ da parte di Papa Gregorio VII.
Molto si deve all’operato di quei padri missionari che, giunti nei primi secoli della cristianizzazione della Spagna, incoraggiarono le popolazioni autoctone, inclusi i mozarabi e i nomadi zingaro-gitanos, a misurarsi con la liturgia della “Messa” cristiana, durante le funzioni imposte loro allo scopo di convertirli al cattolicesimo.

* La celebrazione della “Messa Mozarabe” (LP Philips), nell’interpretazione dei cristiani che verosimilmente ce l’hanno trasmessa nella forma orale, è caratterizzata dal connubio di elementi ispano-gotici con elementi di origine spagnola, quale retaggio di una sua probabile cristallizazione avvenuta nel periodo della calata dei Visigoti in Spagna. In ogni caso è ritenuta la liturgia toledana per eccellenza, essendo Toledo all’epoca il centro di magior forza e vitalità della sua diffusione. Ma mentre nella Cattedrale veniva imposto il ‘rito romano’ di Santa Madre Chiesa, un saggio compromesso permise di conservare il ‘rito mozarabico’ nelle altre chiese territoriali dove la popolazioni si erano insediate.

Gli esperti sono tutti d’accordo sul fatto che lo schema della liturgia morarabe è romano, quantunque essa presenti, come tutte le liturgie occidentali, elementi affini a liturgie orientali (bizantine). Alla liturgia Mozarabe è attribuita la più antica versione del “Pater Noster” nell’uso proprio della ‘cantillazione’, una sorta di recitazione quasi intonata (derivata dalla maniera ebraica di cantare in prosa i passi della Bibbia), eseguita con voce nasale, nel modo usato dai cristiani orientali nella lettura dei testi liturgici. Ancor prima quindi della riforma gregoriana, il ‘testo’ veniva eseguito nelle chiese spagnole durante l’occupazione dei Mori, facendo in modo che questi non ne comprendessero il senso. Una certa eleganza formale proviene da un altro esempio ripreso dall’antifona “In pace” come preludio corale al Salmo successivo:

«Lumen ad revelationem gentium: et gloriam plebis tuae Istrael.
Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuum in pace.
Quia viderunt oculi mei salutare tuum.
Quod parastiante faciem omnium populorum.
Gloria Patri et Filio, et Spiritui sancto.
Sicut era in principio, et nunc, et semper,
et in saecula saeculorum. Amen.»

Quella contenuta in questa registrazione dal vivo della “Messa Mozarabe” (*), fu eseguita dal Coro del Seminario di Toledo e del Collegio de Infantes diretto da P. Alfonso Frechel con una orchestra di strumenti antichi, diretta da José Torregrosa. Degna di nota è l’affermazione di un cardinale presente nella Sala Conciliare del Vaticano II il 15 Ottobre 1963, il quale, dopo aver assistito all’esecuzione dellla “Messa Mozarabe”, disse che era il rito più bello che fosse mai stato celebrato nella Basilica di San Pietro.

* La “Misa Flamenca” (presente su LP Philips lato opposto alla “Messa Mozarabe”): costituisce una chiave di lettura di particolare interesse etnico e musicologico all’interno della tradizione liturgica Gitano-Andalusa ‘musicalmente compiuta’, così come è entrata nella religiosità cristiana, eseguita da gruppi ‘gitanos’ che hanno partecipato a questa registrazione ‘dal vivo’, entrata successivamente nella grande tradizione liturgica della cattolica Spagna. Si è spesso detto delle possibili influenze indiane, ebree, arabe e bizantine che avrebbero concorso alla formazione del topos ‘flamenco’, ma va qui considerata la profonda trasformazione che la “Misa” ha subito nel corso dei secoli, allorché i Gitanos anziché lasciare il paese, trovarono riparo nelle ‘cuevas’, le grotte nascoste fra le montagne più interne della penisola spagnola.

Ciò, che non avvenne con gli Ebrei-sefarditi, i quali, dopo aver tentato inutilmente di sottrarsi al terrore dell’Inquisizione di convertirli al cattolicesimo imperante, affiancando le migliaia di maestranze che giungevano in pellegrinaggio da tutta Europa per lavorare alla costruzione dei grandi santuari di Montserrat, Barcellona, Toledo e di Santiago de Compostela, furono in parte costretti a lasciare il territorio e a trovare rifugio nel resto d’Europa e oltreoceano, a seguito della colonizzazione del Nuovo Mondo.
In quell’epoca, la religiosità consolidata sul territorio, successiva ai primi canti sacri improntati sul gregoriano ed entrati in uso durante le grandi festività stabilite dalla Chiesa Cattolica Romana, fecero la loro apparizione nei primi ‘villancicos’ cantati per la Natività di Nostro Signore e ricreati sulle popolari ‘canciones de cuna’ (ninne nanne popolari), verosimilmente in contrapposizione lineare con le ‘lamentazioni funebri’ legate alla celebrazione della Settimana Santa che veniva officiata un po’ dovunque in Spagna con grande solennità, a cui partecipavano le masse popolari con tanto di devozione più o meno sentita.

A Siviglia, considerata epicentro della tradizione araba e moresca nonché gitana e quindi in parte miscredente, la “Misa Flamenca” si adeguò lentamente e straordinariamente nell’alta espressione liturgica, forse la più alta in assoluto, conosciuta come la ‘Saeta’, una sorta di canto religioso fortemente espressivo che in seguito fu accolto nel corpus del ‘Cante grande’, e che possiamo definire una ‘specificazione‘ dell’animo profondo del “Cante jondo”, a sua volta elaborata nelle scuole di Jerez e di Siviglia sulle salmodie corali dei fedeli cattolici nelle processioni liturgiche. Le più antiche e forse le più belle ‘saetas’ rimangono quelle lanciate, anzi scagliate appunto come una saetta, in onore della Vergine Maria o del ‘Cristo Morto’talvolta anche come vere e proprie frecce contro le istituzioni durante il sostare della processione, allorché, all’interrompersi della banda musicale che l’accompagna, si creava un spazio liturgico espressamente dedicato al ‘Cante’. L’ambiente è dunque quello trecentesco del Medioevo che troverà il suo completamento alla fine del Cinquecento, coè al ‘tempo’ in cui le celebrazioni per la Settimana Santa conobbero il loro apice nelle rappresentazioni della ‘Passione’.

Trascritto da una ‘cronaca’ che ben ricrea l’ambientazione recente dello svolgersi di una ‘Processione per la Settimana Santa’, leggiamo insieme questo racconto:

“Nella mattina degli ultimi giorni stazionano nella Cattedrale (di Siviglia), varie Confraternite e Congregazioni recanti in solenne processione i rispettivi e meravigliosi ‘pasos’. Le Confraternite presenti sono in tutto 49 con complessivi 91 ‘pasos’, distribuite nei 6 giorni che compongono la Settimana Santa. I confratelli indossano ampie cappe e alti cappucci a punta con rispettivo stemma (di appartenenza) sulle spalle e sul petto. Impugnano lunghi ceri o pertiche con lo stesso stemma in cime. I gruppi statuari, montati su enormi palchi sorretti a spalla dai fedeli e stupendamente addobbati, rappresentano le vicende dell’agonia e della morte di Cristo, come è narrata nei Vangeli. L’accompagna la Vergine Maria lussuosamente vestita come persona viva, stringente nelle mani il fazzoletto o la corona, il petto trafitto da una o più spade. Il Venerdì mattina è il turno della Cofradia de los Gitanos con due ‘pasos’ entrati nella tradizione popolare.»

Quello che segue è il ‘Pasos’ che Antonio Machado (**) ha incluso in una sua raccolta poetica:

“Oh la saeta, el cantar
al Cristo de los gitanos,
siempre con sangre en las manos, siempre por desenclavar!
Cantar de la tierra mia,
que echa flores
al Jesùs de la agonia,
y es la fe de mis mayores!
Oh, no eres tù mi cantar!
No puedo cantar, nì quiero
a ese Jesùs del madero,
sino al que anduvo en el mar!”

“Oh la saeta, il cantare / al Cristo dei gitani, / sempre con il sangue nelle mani, / sempre per dischiodare! / Il cantare del popolo andaluso, / che tutte le primavere / va chiedendo scale / per salire alla croce! / Cantare della terra mia, che lancia fiori ( al Gesù dell’agonia, / ed è la fede dei miei padri! / Oh, non eri tu il mio cantare! / Non posso cantare, né lo voglio / a questo Gesù sulla croce / se non a quello che camminò sul mare.”

Lo studioso Manuel Martinez Torner tuttavia non include la ‘saeta’ nel genere ‘flamenco’ e la considera a parte come di un genere decisamente religioso per la sua caratteristica spirituale tipicamente occidentale. In pieno accordo con quanto riferisce padre Diego da Valencina che fa risalire la ‘saeta’ alla ‘lauda’ francescana, si tratta qui di un autentico ‘grido’ pari a una frecciata che si leva improvviso e quindi inaspettato sopra la processione ad invocare il mistero che la liturgia contiene:

“Vienes de los remotos paises de la pena”.
“Viene dal remoti paesi della pena.”

Recita con accorato pianto chi effettua il lancio della ‘saeta’, riportando alla mente il “Pianto della Madonna” di Jacopone da Todi, per quanto non manchino attribuzioni a più antichi riti pagani. Su questo stesso terreno fortemente impregnato di religiosità si è formata nei primi anni ’60 l’idea di una “Misa flamenca” moderna in stile ‘flamenco’ che rispondesse alle esigenze del popolo andaluso. La sua celebrazione, in quanto avvenimento rituale che esprime un ‘mistero’ ha riscaldato gli animi dei Gitanos che infine ne hanno cristianizzato il senso in una performance di intensa drammaticità.

La ‘Misa’ qui trasposta nell’uso interpretativo del ‘flamenco’ è : “..evocazione di un atto storico unico e manifestazione di un fatto che permane nell’eternità al di là dell’umana capacità di comprendere e rappresentare”, che trova la sua originalità nell’utilizzo di elementi d’ispirazione gregoriana e reminiscenze della più antica polifonia spagnola, connessi con temi gitano-andalusi, e trascritti per l’occasione da solisti impegnati alla chitarra e cori misti. Ma è infine il ricorso fatto alla ‘saeta’ che nel momento più alto dell’ ‘Eucarestia’ l’ha accesa di interiorità carnale, quasi da ricondurla alla trascendenza pagano-naturalista (e umana) delle origini.

“Non è stato facile adattare la Messa in spagnolo alla metrica fisica del canto flamenco – scrive Antonio Mairena co-autore di questa suggestiva ‘Misa Flamenca‘ – in quell’occasione: non v’è espressione drammatica più graffiante della seguiriya; non c’è alcun cantico che eguagli la serenità della malagueña; né alcuna spiritualità potrà mai essere comparata a quella della soleà. In questo lavoro di trasposizione della prosa in versi, noi abbiamo cercato di rispettare alla lettera le parole sacre. Il rimanente è venuto da solo e molto è dovuto all’esperienza e alla tradizione del Cante.”

Non è un caso che all’interno della “Misa flamenca” ritroviamo alcuni dei canti che hanno dato forma al corpus del ‘Cante gitano-andaluso’. Ed è ancora e soprattutto la struttura austera e ieratica del ‘Cante jondo’ a sovrastare l’intera partitura della “Misa” pur rispettando l’ordine della sequenza ufficiale: Introito, Gloria, Kirye, Credo, Sanctus, Agnus Dei. In quanto frutto di un’autentica espressione artistico-musicale la “Misa flamenca” trova la sua affermazione nell’ambito della moderna religiosità spagnola la cui salda continuità l’ha accolta nella tradizione, in quanto sintesi di una perfetta fusione del fatto religioso con la tensione drammatica espressiva del ‘Cante’.

Esattamente come l’hanno vissuta in prima persona i suoi esecutori e tutti coloro che assistettero al rito, e registrata dal vivo il 29 Giugno 1968 nella Chiesa del Barrio ‘A’ del poligono di San Paolo a Siviglia:

«La piazzetta di Santa Ana era il cuore del flamenco di Triana. Giungeva fin lì il suono metallico del martello sopra l’incudine, e si univa al rintocco della campana che chiamava al tempio. Un gitano, Manuel Cagancho, creò al ritmo di questo suono un canto per seguiryas che ora figura nella Misa Flamenca. Nella preghiera e supplica del Kirye, l’eco profondo della malaguena imprime la sua andatura con reminescenze del canto gregoriano. Il Gloria, cantico di esaltazione e allegria per la presenza di Dio sulla terra, si fa solenne e rispettoso sull’eco del romance gitano. L’andatura grave nel lamento della petenera serve a introdurre il Credo, mentre per il Sanctus è usata la soleà; l’accordo della chitarra introduce la tonà, la debla e il martinete che si fanno preghiera. L’unione sublime del Padre Nostro con il sangue e la carne del Figlio di Dio medesimo nell’atto solenne dell’Agnus Dei è invece affidato alla seguirya gitana nello stile più puro del Cante jondo: ..se ha puesto de rodillas y vibra y reza canta y llora.»

L’eco profondo della ‘malaguena’ tradizionale è qui trasposta nella forma del ‘Kyrie’ è intonata sulla reminiscenza del canto gregoriano:

«Dime donde ba allegar. / Este querce tuyo y mio. / Dime donde ba allegar. (..) / Yo cada dia te quiero mas. / Que Dios me mande la muerte.»

“Dimmi dove ci porterà. / Questo amore tuo e mio. / Dimmi dove ci porterà. (..) / Mentre io t’amo ogni giorno di più. / Spero che Dio mi mandi la morte.”

Un tema, questo della morte, che ritorna spesso nella letteratura e nel canto ispirato dei Gitanos, ma qui siamo di fronte a un fatto musicale che esula dalla semplice operazione colta sul folklore, che possiamo facilmente abbinare all’impatto della tradizione spagnola, l’espressione singolare dei Gitanos che hanno fatto del ‘flamenco’, e in particolare della “Misa Flamenca”, un momento trainante dello spirito che li accomuna alle altre eppur diverse culture presenti sul territorio: indiana, ebraica, araba e bizantina, ma, soprattutto cristiana, qui confluite come per un ‘encuentro’ fattivo fra il popolo gitano-andaluso e il resto del mondo.

* Composta da Ariel Ramirez negli anni che vanno dal ‘50 al ‘63 come un’opera per solisti, coro e orchestra, accompagnati da strumenti tipici delle popolazioni latino-americane, la “Misa Criolla” (CD Philips), denota con estrema originalità una simbiosi di intenti musicali diversi, realizzati grazie alla perfetta combinazione di temi religiosi ed elementi folkloristici ripresi da ritmi e forme musicali proprie della sua terra di appartenenza: l’Argentina. Forme che riprendono diverse forme musicali tuttavia tipiche proprie molte popolari, come ad esempio il ‘carnavalito’, qui utilizzato come forma di esaltazione del fatto liturgico.

Acciò la ‘Misa’ è a tutti gli effetti una Messa cristiana come la interpretiamo oggi, seppure con inserimenti popolari legati alla tradizione ispano-americana in cui Ariel Ramirez ha saputo conciliare il fervore religioso con l’elemento folklorico dando ad ogni sequenza della messa un elemento di originalità: Il ‘Kyrie’ apre la messa con i ritmi della vidala e della baguala, due forme espressive rappresentative della musica tradizionale creola argentina; il ‘Gloria’ è accompagnato dalla danza argentina del carnavalito, segnato dalle note del charango; il ‘Credo’ invece, è scandito dal ritmo andino della chacarera trunca; mentre il Carnaval de Cochahamba, tipico della tradizione boliviana, fa da cornice al ‘Sanctus’, e infine, l’ ‘Agnus Dei’ che conclude la Messa, è improntato sullo stile strumentale tipico della Pampa argentina.

Bella e gradevole all’ascolto la ‘Misa Criolla’ raccoglie in se il pacato ‘spirito del tempo’, stranamente dimesso, quasi sussurrato, che potremmo attribuire al vento, se non fosse che è proprio quest’ultimo a trasportarlo attraverso la Cordigliera che attraversa tutta l’America Latina fino agli estremi della Patagonia. Quello stesso ‘spirito’ che fa vibrare le corde degli strumenti e ottunde le pelli delle percussioni, così come risveglia i semi contenuti nelle zucche sonore utilizzate per i ritmi-a-ballo durante le numerose feste che si tengono un po’ ovunque, nei piccoli pueblo arrampicati sugli altipiani alle grandi ciudad delle vallate, fino ai villaggi dei pescatori che coronano le coste. Uno ‘spirito’ allegro, espressione di forme musicali puramente folkloristiche caratterizzate dalla presenza di strumenti e ritmi tipici della tradizione popolare latino-americana che s’intrecciano con i temi della tradizionale Messa religiosa.

Trovo davvero molto interessante conoscere come il compositore Ariel Ramirez, è giunto al concepimento della “Misa Criolla” in questo racconto del lontano 1964 qui di seguito proposto in essai:

«Nel 1950 presi una nave che, dal porto di Buenos Aires mi avrebbe portato nel continente europeo. Genova fu il luogo in cui, per la prima volta, posi i piedi su quelle terre. Il mio proposito era quello di lasciare un messaggio sulla nostra musica per mezzo del mio piano e aspiravo a porre al centro di quella illusione la città di Parigi. Però un invito da parte di un amico di infanzia, Fernando Birri, mi deviò a Roma nell’ottobre dello stesso anno. Da qui iniziò una serie interminabile di avventure con diversi pianoforti… diversi nuovi amici ed un’infinità di nuovo pubblico. Nei quattro anni in cui restai a quelle latitudini il mio domicilio fu Via della Lungara 229, nel cuore trasteverino di Roma. In quel periodo, con la mia musica, percorsi in lungo e in largo l'Italia, l'Austria, la Svizzera, la Germania, l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia, la Spagna, in dignitosa povertà, alloggiando in alberghetti, collegi religiosi, conventi, ospedali, case di amici, Università, in un costante andare e venire, che mi riportava comunque e sempre a Roma dove cento mani cattoliche si tendevano per aiutarmi. […]

Ripetutamente tornai in molte di queste città come Londra, dove stipulai contratti con la BBC, interessata affinché un mio programma radiofonico si diffondesse nel Latino america. Alla stessa maniera stipulai contratti con Università come quella di Cambridge, di Utrecht, di Delf, di Santander oltra a società concertistiche e di teatro. A poco a poco stavo convertendomi a questo mondo che lentamente si andava ricostruendo dopo la guerra. Tutti i miei profitti furono resi possibili grazie all'aiuto ricevuto da esseri umani straordinari che contribuirono non solo alla mia formazione culturale, ma anche alla mia crescita spirituale. Sapevo di dover trovare una forma di ringraziamento per tutto questo. Fin quando, un giorno del 1954, non potendo resistere alla tentazione di prendere un’altra nave, quella del ritorno alla volta di Buenos Aires dove mi attendeva mia figlia di cinque anni ed i miei genitori che superavano ormai la settantina. Mi commuoveva pensare che quello che avevo ricevuto era esclusivamente dovuto all’amore di queste persone per la mia musica e la mia persona, finché compresi che l'unico modo che avevo per ricambiare quelle persone era quello di scrivere in omaggio a loro un opera religiosa benché non sapessi come realizzarla. […]

All'arrivo in Argentina tutto era mutato: mentre la mia carriera si andava affermando e le mie canzoni diventavano molto popolari; cominciai a cercare e raccogliere poemi di carattere religioso del Nord dell’Argentina che iniziai a pensare alla realizzazione di una ‘messa’ con ritmi e forme musicali della mia terra. In quegli anni Padre Catena, Presidente della Comisión Episcopal Para Sudamerica, fu incaricato di realizzare la traduzione in spagnolo del testo latino della ‘messa’, secondo le direttive del Concilio Vaticano II presieduto da SS Paolo VI. Il quale nel 1963 mi presento a chi, con straordinaria erudizione avrebbe realizzato gli arrangiamenti corali dell'opera: Padre Jesú Gabriel Segade. Dacché la sua composizione fu conclusa ci sentimmo di dedicarla a tutti quegli amici che mi avevano aiutato così generosamente durante quegli anni cruciali della mia gioventù.»

Con questo sentimento torniamo oggi ad ascoltarla valorizzando l’entusiasmo di un giovane ‘migrante’ che come i tanti che in ogni parte del mondo vengono accolti, portano con sé qualcosa del loro retaggio culturale che forse dobbiamo imparare a conoscere, contribuendo con un entusiasmo e umiltà, a riconoscere negli altri qualcosa della nostra missione fortemente intrisa di misticismo religioso e di sentimento umano, così come Ariel Ramirez a suo tempo, ha contribuito a diffondere la sua e ormai nostra “Misa Criolla"»


Ma un'opera musicale richiede - per essere conosciuta - una trasposizione concreta, cui dare la giusta dimensione che merita, nello spirito in ‘lengua’ con il quale mi piace concludere questa ricerca, col proporre una ‘sequenza’ del poeta spagnolo Pedro Salinas (***):

«Los cielos son iguales.
Azules, grises, negros,
Se repiten encima
del naranjo o la piedra:
nos acerca mirarlos.
Las estrellas suprimen,
de lejanas que son,
las distancia del mundo.
Si queremos juntarnos,
nunca mires delante:
todo lleno de abismos,
de fechas y de leguas.
Déjate bien flotar
sobre el mar o la hierba,
inmóvil, cara al cielo.
Te sentirás hundir
despacio, hacia lo alto,
en la vida del aire.
Y nos encontraremos
sobre las diferencias
invencibles, arenas,
rocas, años, ya solos,
nadadores celestes,
naufragos de los cielos.»

Note:
(*)“Messa Mozarabe” eseguita dal Coro del Seminario di Toledo - Collegio de Infantes diretto da P. Alfonso Frechel e l’Orchestra diretta da José Torregrosa.
(**) Antonio Machado, “Poesìas Compoletas”, Espasa-Calpe 1981.
(***)Pedro Salinas, ‘La voce a te dovuta’ – Einaudi 1979.

BUON NATALE E BUONA VITA A TUTTI VOI.

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