Quanto può la poesia concentrare, nel suo darsi, lo scavo nelle architetture delle abitudini pregresse, dei riti abituali che hanno coltivato vita e letteratura, delle appassionate dispute e scritture, delle pudiche scoperte di profondità e di altezza, dei “bagagli smarriti” di amori e seduzioni, della certezza costitutiva, in altre parole, di essere noi la summa delle nostre memorie, nella misura e nel dettaglio delle aggregazioni mentali emotive e morali che hanno definito quel che siamo nella radice permanente del nostro essere, può ingenerare, con gli anni, un’ interruzione, un qualcosa che aspira e chiama altri dubbi che ci sembravano risolti. Ecco la querelle o se si vuole la domanda terribile sulla natura dei numeri primi che si pone questa raccolta di Nicola Romano, tutta tesa a cercare in una ricapitolazione, à rebours, se c’erano altri sbocchi ai propri vissuti, se le risposte a certi interrogativi, lungo l’arco di una vita, erano quelle o bisognava cercare altrove.
É quel groviglio di esistenza e meditazione, di narrazioni, incontri, rapporti sentimentali, paesaggi e visioni a corredo di un modo d’agire pensoso che, a un certo punto del vivere, ci sembra privo di quei presupposti a cui l’interiorità si era nel tempo assuefatta e su cui si era quietata senza averne chiara consapevolezza. Da qui un riorientarsi ad altre prospettive, ad altre possibilità che erano state scartate e che interrogano, stimolate da indizi che ora paiono improrogabili e urgenti:
“…E pensare ch’eravamo/la baia e il plenilunio/la sera afosa/salvata dalla brezza/ma caddero i castelli/con detriti di nomi/troppo presto scordati…”
Alle torsioni delle immagini e delle cose, degli affetti, delle seduzioni vecchie e nuove entro un paesaggio meridionale destoricizzato a favore di una mitologia mediterranea di “correnti di memorie” cui non mancano lune, mare, musica e arsure il Nostro è rimasto sostanzialmente fedele: la poesia di Romano ha una sua segreta, un po’ contorta e allusiva bellezza, che, passando attraverso un sottile gusto meditativo, a tratti concettoso, si avanza a dare più profondi sensi e immagini e accadimenti e tocca risultati più vivi e vitali:
“…Sono un roseto/ privo di corolle…”, “…e sono cava/senza più pietrisco…”, per chiudere. “…Sono il setaccio/ di tutto ciò che ho perso”.
I versi di Romano che a tratti mostrano, in rapido appuntare, analogie, visioni, eventi, tendono a raccogliersi in folgorazioni prive di contemplazioni e tese all’epigramma perchè la materia dei versi vola dritta ai suoi assedi di memorie che nascondono segreti dorati, tentazioni e abbandoni quasi a fermare, nel tempo, quella sorta di “paese interiore” che ora dice ora nega, ora rivela ora copre. Ed è nel riepilogo visionario e memoriale delle occasioni, degli ambiti a lui consueti, della sua terra della sua casa della sua stanza delle linee paesaggistiche lontane dal pittoresco che il poeta inchioda il “mistero” o se si vuole il “destino” del suo esistere a una poetica mai paga della propria “scrittura” della vita, avallando il dubbio di una poesia sempre nuova e fondatrice.
Si legga “Un mondo” carica di un umore nero al fondo, in animazione arresa, densa, lunga e anche dolorosa, di incertezze come amuleti o feticci, con improvvisi soprassalti e invenzioni di quell’artigianato umano e naturale carico d’inquietudine, di rimesse nei timori e negli eccessi sfuggiti ad atteggiamenti e figure di sapore espressionista.
La serrata scrittura, il tono narrativo o descrittivo della mitologia di sé non tragga in inganno; realtà più realtà macina poesia, Romano vuol pagarla cara la sua scrittura, non si illude a mettere le ali se prima non ha scavato come una talpa nel vivo e nel pietroso del reale, anche se il mestiere di scrivere gli fornisce un impasto tra voluto realismo e un residuo di preziosità sapiente.
Ogni poesia, ogni lume che accende la sua ispirazione testimonia un poeta consapevole dello scavo, ogni componimento vuole interpretare vitalmente i fatti e i pensieri nel loro affacciarsi allo sguardo per fermare il tempo prima che si consumi in uno scorrere documentario, in un avvenimento senza storia, poiché il “tempo mio d’adesso” è più prezioso di un periodico appuntamento.
Il passato in poesia, dunque, non è solamente quel che è stato ma viene proiettato vitalmente sul presente, nella fusione o se si vuole nello scontro di epoche diverse, conservandone le dilatazioni semantiche, il rigore e la concretezza ma pure la suggestione, il mistero, i contrasti perché sia sempre possibile “raccattare l’anima”, “…ma occorre seppellire/ ogni abitudine/silenziare ogni trillo/ rivisitare favole ed orpelli/ per poi lasciare libera/ e totalmente franca/-non tremula candela-/una parola che vada/a inseminare il mondo”.
Fino alle ultime pagine, fino a “Una voce” che ha appena il tempo di rimestare turbamenti che lo stillicidio dei giorni di questo svolgere avanti e indietro il rotolo degli anni sconfina nel presente della pandemia: “Ma quando è stato detto/ che s’ammorbava l’aria” che porta con sé note strappate a una musica che tarda ad accordarsi con certezze su cui fondare:
“…Rimane solo nebbia che s’imbianca/tra i pali dei lampioni alla marina/e d’una vita forse trasognata/solo un fondiglio erboso di ruscello”.
Luzi scriveva che la poesia è nella natura nelle cose negli oggetti, basta cogliere la novità del riflesso, lo scarto di un movimento, l’ordine dell’insieme; tra un niente e una menzogna si affollano i ricordi, gli affetti della vita, selezionati sul filo di una conseguente parola poetica, ed è qui la forza evocativa di Nicola Romano: il tedio che arranca con l’abitudine viene sovrastato dalla illusione o dalla speranza. La dura astrattezza delle cose perdute ed inerti, vinta dalla confidenza di un lavoro di artiere allenato, può significare una capacità nuova che affranchi e significhi la qualità alta della sua scrittura.