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’Il mondo nella rete’ di Stefano Rodotà

Argomento: Informatica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 29/03/2014 08:18:35

STEFANO RODOTA’ “IL MONDO NELLA RETE” Quali i diritti, quali i vincoli. Edit. LATERZA

 

Per chi non avesse letto le mie precedenti recensioni ai libri di Stefano Rodotà su questo stesso sito: “Il diritto di avere diritti” (2012), “Intervista su Privacy e Libertà” (2005) ed “Elogio del moralismo” (2012) tutti editi da Laterza e facenti riferimento a un caposaldo del Diritto Civile nel funzionamento dei sistemi politico-istituzionali rappresentato dal libro “Il terribile diritto” (1981) edito da Il Mulino, recentemente ristampato, suggerisco in primis la lettura di un altro libro, forse più attuale di tutti, “Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione” (2004). Questo perché già in esso il Prof Rodotà (giurista, prof emerito, presidente garante dell’Autorità sulla privacy, co-autore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ecc. ecc.), poneva un vincolo giuridico - istituzionale (nonché letterario motu-proprio) sui diritti e i rischi delle nuove tecnologie alla base dell’informazione e della comunicazione come si è andata sviluppando fino ad oggi e in funzione di quello che sarà domani. Ma se, come si dice, il domani è già qui, avverte Rodotà “È il momento di pensare a un sistema di diritti per il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto”; di pensare a una possibile “… ‘cittadinanza digitale’ che tuteli il nostro accesso alla rete e il nostro ‘corpo elettronico’; le inedite e variegate forme di aggregazione e azione politica nate online, che hanno riempito le strade di tutto il mondo, da Seattle a piazza Tahrir”.

Dunque pensare e/o ripensare ‘a un sistema di diritti e doveri’, perché dal momento che si affermano dei diritti per contro si affermano anche dei doveri che li convalidano, con i suoi vincoli di rispetto delle leggi, delle convenzioni internazionali, delle burocrazie politiche e tutti i bla bla di questo mondo ... ma scusate, non si era detto che il cyberspazio rappresentava la nuova Agorà universale (piazza virtuale) che ripristinava il ‘libero arbitrio’ delle idee, del libero pensiero, della possibilità di essere, pirandellianamente parlando, “uno, nessuno, centomila”, pur nel rispetto di quella libertà e della privacy degli altri che sono alla base di qualunque stato di diritto giuridico? Pertanto quale diritto risulterebbe violato se ognuno è libero di entrare e/o di non farlo (ed anche di uscirne una volta entrato) dal web, global o social che sia? Tuttavia sembra non essere proprio così, o almeno non è così che funziona. Il Prof Rodotà ci rammenta che già nel 1996 John Perry Barlow nella sua ‘Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio’ si esprimeva così: “Governi del mondo industriale, stanchi giganti di carne e d’acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità nei luoghi dove ci incontriamo.”

Dichiarazione che per un istante mi ha fatto pensare a “Io, Robot” un ‘serial narrativo’ creato da Isaac Asimov ove un Robot (Sonny) è in grado di sognare l’indipendenza degli automi dall’uomo. Ma anche ad “A.I.” (Intelligenza Artificiale), dove i Robot (Mecha), si trasformano in una reale minaccia per la razza umana, ma che per la ‘Legge Zero’ ideata da R. G. Reventlov: “Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno”. Immagino vi starete chiedendo tutto questo che cosa centra? Eppure, in qualche modo ci sta, in quanto frequentatori assidui del cyberspazio, il rischio più grande è proprio quello di diventare noi stessi dei Robot che pensano in grande (troppo in grande) e che potremmo finire per superare noi stessi, ridisegnando, come del resto stiamo già facendo, i limiti di quei ‘diritti’ che il Prof Rodotà nel suo libro ha individuato per noi, e che vanno dal ridisegnare il destino della democrazia, ai luoghi della politica, l’abbattimento dei confini geografici, alla negazione degli stessi vincoli dello spazio e del tempo: “Dalla politica alla bioetica, dal diritto ai nuovi media: tutto il nostro sistema è innervato dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con inedite possibilità di conoscenza e partecipazione dei cittadini. Ma vi è pure il rischio che la loro penetrazione capillare porti a una società dell’implacabile sorveglianza.”

Ed è questo il punto clou colto dal Prof Rodotà in questo libro sulla pervasività delle reti sociali e global, all’interno del quale egli attribuisce una dimensione nuova (comunque vincolata) al rapporto tra democrazia e diritti: “Il bisogno di una tutela un tempo impensabile, come il ‘diritto all’oblio’ e alla cancellazione dei dati personali” dai database delle major economiche e dagli ‘official consumer report’ che li utilizzano spesso per scopi non sempre consoni alla salvaguardia della privacy del singolo e della costituzione comunitaria relativa alla razza, all’etnia ecc. così come alle cosiddette diversità di genere. Se si pensa che ogni giorno almeno 2miliardi di persone in tutto il mondo si rapportano in rete, lascio immaginare quali problemi inesplorati possono scaturire. “Come affrontarli in termini di diritti e democrazia?” “Il mondo del web può avere regole sebbene mobile, sconfinato e in continuo mutamento?”, è quanto si chiede l'autore ed a cui cerca di dare delle risposte. Riguardo alla locuzione ‘diritto all'oblio’ la giurisprudenza ha da tempo affermato che: «è riconosciuto un “diritto all’oblio”, cioè il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all'onore e alla reputazione, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione». Con ciò s’intende, in diritto, una particolare forma di ‘garanzia’ che prevede la non diffondibilità, senza particolari motivi, di precedenti pregiudizievoli, per tali intendendosi propriamente i precedenti giudiziari di una persona.

In base a questo principio, ad esempio, non è legittimo diffondere dati circa condanne ricevute o comunque altri dati sensibili di analogo argomento, salvo che si tratti di casi particolari ricollegabili a fatti di cronaca. Di fatto ‘Il diritto all’oblio’ farebbe così parte dei cosiddetti diritti inviolabili, cioè quei diritti che non sono esplicitamente espressi dalle costituzioni, ma la cui esistenza è comunque riconosciuta da esse. In Italia, la sua tutela è infatti garantita dall’art. 2 della Carta Costituzionale, secondo cui “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Si tratta quindi del diritto di un individuo ad essere dimenticato, o meglio, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca. In sostanza, un individuo che abbia commesso un reato in passato ha il pieno diritto di richiedere che quel reato non venga più divulgato dalla stampa e dagli altri canali di informazione; a condizione che il pubblico sia già stato ampiamente informato sul fatto.

Questo principio, alla base di una corretta applicazione dei principi generali del diritto di cronaca, parte dal presupposto che, quando un determinato fatto è stato assimilato e conosciuto da un'intera comunità, cessa di essere utile per l'interesse pubblico: smette si essere oggetto di cronaca e ritorna ad essere fatto privato. Tuttavia quello appena sopra espletato (anche se non pienamente), è solo uno dei grandi temi qui investigati, dalla ‘cittadinanza digitale’ alla ‘neutralità e anonimato’, dalla ‘qualità della democrazia elettronica’ alla necessità di un ‘Internet Bill of Rights’. Su questo specifico argomento riporto qui di seguito un interessante articolo apparso in laRepubblica.it nella pagina dedicata a ‘TECNOLOGIA & SCIENZA’ (20 novembre 2007), in cui lo stesso Rodotà analizza proprio quella che in italiano si può definire “Una Carta dei diritti del web” come la si può desumere anche dalla voce stessa di Rodotà nella sua apparizione televisiva ad ‘8 e Mezzo’ andata in onda sulla 7:

«Quasi nelle stesse ore in cui a New York una commissione dell'Onu approvava con uno storico voto la proposta di moratoria della ‘pena di morte’, a Rio de Janeiro il rappresentante delle stesse Nazioni Unite chiudeva il grande Internet Governance Forum affermando che i molti problemi che si pongono in rete richiedono un Internet ‘Bill of Rights’. Accosto questi avvenimenti, che possono apparire lontani e qualitativamente assai diversi, per tre ragioni. In entrambi i casi è balzata in primo piano l'importanza di una politica globale dei diritti. In entrambi i casi non siamo di fronte ad un definitivo punto d'arrivo, ma ad un processo che richiede intelligenza e determinazione politica. In entrambi i casi il risultato è stato reso possibile da una lungimirante iniziativa italiana. Per la pena di morte si trattava di onorare una primogenitura culturale, quasi un dovere verso una storia che porta il nome di Cesare Beccaria e della Toscana, primo Stato al mondo ad abolire nel 1786 quella pena, "conveniente solo ai popoli barbari", come si espresse il Granduca Pietro Leopoldo. Tutta diversa la situazione riguardante Internet, visto che l'Italia non può certo essere considerata un paese di punta nel mondo dell'innovazione scientifica e tecnologica. E tuttavia proprio da qui è partito, negli ultimi due anni, un movimento che ha progressivamente coinvolto ovunque settori sempre più larghi, dimostrando così che la buona cultura è indispensabile per una buona politica.

Quale politica, allora? - ci si potrebbe chiedere. Il risultato finale di Rio è stato possibile grazie anche al fatto che, un giorno prima, era venuta una dichiarazione congiunta dei governi brasiliano e italiano che indicava proprio nell'Internet Bill of Rights lo strumento per garantire libertà e diritti nel più grande spazio pubblico che l'umanità abbia mai conosciuto. Ma questa svolta, assai significativa, esige ora una adeguata capacità di azione. Nelle discussioni che hanno preceduto la dichiarazione, il ministro brasiliano della cultura, Gilberto Gil, aveva esplicitamente evocato la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Siamo di fronte ad una situazione che sta diventando paradossale. Ancora sottovalutata e osteggiata da più d'uno in Europa, la Carta sta diventando un punto di riferimento costante per tutti quelli che, in giro per il mondo, sono impegnati nella costruzione di un nuovo sistema di garanzia dei diritti, tanto che studiosi statunitensi hanno parlato di un "sogno europeo" che prende il posto del loro "sogno americano".

E' tempo, dunque, che l'Unione europea abbia piena consapevolezza di questa sua forza e responsabilità verso l'intera "comunità umana", com'è detto esplicitamente nel Preambolo della Carta dei diritti. Proprio perché conosciamo bene i limiti dell'influenza dell'Europa, il suo futuro politico si lega sempre più nettamente alla capacità d'essere protagonista di questa planetaria "lotta per i diritti". In questa prospettiva, l' 'Internet Bill of Rights' fornisce una occasione preziosa. Proprio perché dall'Onu è venuta una insperata apertura, è indispensabile rafforzare e rendere concreto il processo così avviato. Indico le prime tappe di questo cammino. La dichiarazione italo-brasiliana è aperta all'adesione di altri Paesi. Non è una operazione facile. Ma il ministro degli Esteri ha dato prova di grande intelligenza politica nel guidare il processo verso il voto sulla moratoria della pena di morte, sì che si può pensare che non sarà indifferente rispetto a questa diversa opportunità. Più agevole dovrebbe essere una azione volta a far sì che, proprio come è accaduto per la moratoria, l'iniziativa italiana si risolva in una più generale presa di posizione del Parlamento europeo.

Qui, tuttavia, si apre una questione più generale. Mentre la Carta dei diritti fondamentali si avvia a diventare giuridicamente vincolante, e ad essa si guarda come ad un modello, la Commissione europea prende iniziative che, anche con discutibili espedienti procedurali, limitano grandemente la tutela di diritti fondamentali, ad esempio in materia di raccolta e conservazione dei dati personali. Si deve uscire da questa schizofrenia istituzionale, che vede le grandi proclamazioni sui diritti troppo spesso contraddette da concrete e forti limitazioni, democraticamente pericolose e tecnicamente non necessarie o sproporzionate. Una terza via d'azione riguarda le stesse Nazioni Unite. Poco tempo fa Google, consapevole della necessità di prevedere più forti garanzie per i dati personali, ha proposto l'istituzione presso l'Onu di un "Global Privacy Counsel". L'indicazione va raccolta perché offre uno spunto concreto per cominciare a riflettere sulla futura presenza dell'Onu in questo settore. Ma, soprattutto, quella proposta pone un problema più generale. Nel corso di quest'anno abbiamo assistito ad un forte attivismo del mondo economico. Oltre alla proposta di Google, vi è stata una iniziativa congiunta di Microsoft, Google, Yahoo, Vodafone, che hanno annunciato per la fine dell'anno la pubblicazione di una Carta per tutelare la libertà di espressione su Internet.

In luglio Microsoft ha presentato i suoi Privacy Principles. Ma è possibile lasciare la tutela dei diritti fondamentali su Internet soltanto all'iniziativa di soggetti privati, che tendenzialmente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi e che, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche "istituzioni" capaci di intervenire? Si può accettare una privatizzazione della governance di Internet o è indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni, secondo un modello definito appunto multistakeholder e multilevel? L'Internet Bill of Rights, infatti, non è concepito da chi lo ha immaginato e lo promuove come una trasposizione nella sfera di Internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali. La scelta dell'antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie "costituzionali".

Non dimentichiamo che Amnesty Internacional ha denunciato il moltiplicarsi dei casi di censura, "un virus che può cambiare la natura di Internet, rendendola irriconoscibile" se non saranno prese misure adeguate. Ma, conformemente alla natura di Internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall'alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che si sono già materializzati nella forma di "dynamic coalitions", gruppi di diversa natura, nati spontaneamente in rete e che proprio a Rio hanno trovato una prima occasione di confronto, di lavoro comune, di diretta influenza sulle decisioni. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all'integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l'Unione europea, la regione del mondo dove più intensa è la tutela dei diritti. Le obiezioni tradizionali - chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? - appartengono al passato, non si rendono conto che "la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale", come ha scritto benissimo Antonio Cassese commentando il voto sulla pena di morte. Nel momento stesso in cui il cammino dell'Internet Bill of Rights diverrà più spedito, già vi sarà stato un cambiamento. Comincerà ad essere visibile un diverso modello culturale, nato proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini.

Un modello che favorirà la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per la "global community of courts", per quella folla di giudici che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall'innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l'unico potere opponibile alla forza degli interessi economici. Né utopia, né fuga in avanti. Già oggi, all'indomani stesso della conferenza di Rio, molti sono all'opera e sono chiare le indicazioni per il lavoro dei prossimi mesi: inventario delle "dynamic coalitions" e creazione di una piattaforma che consenta il dialogo e la collaborazione; inventario dei molti documenti esistenti, per individuare quali possano essere i principi e i diritti alla base dell'Internet Bill of Rights (un elenco è nella dichiarazione italo-brasiliana); elaborazione di una prima bozza da discutere in rete. La semina è stata buona. Ma il raccolto verrà se saranno altrettanto fervidi gli spiriti che sosterranno le azioni future.»

Di particolare interesse (e di grande attualità) risultano gli articoli di fondo che completano il libro, firmati da studiosi di fama internazionale, in cui si parla degli ultimi accadimenti riferiti al web, da Wiki Leaks sullo spionaggio politico-economico degli stati, sul come si spiavano le vite degli altri, e una levata di scudi “appello di 560 scrittori e intellettuali” contro i sistemi di sorvegliana: tra i quali troviamo U. Eco, M. Carlotto, M. Amis, P. Auster, E. De Luca, D. Grossman, O Pamuk, A. Rashid e appunto tantissimi altri. Un altro capitolo è dedicato alle tabelle con tanto di dati e mappe elaborate dalla rivista Limes, su “I numeri della rete” di utilità per studiosi della comunicazione. Inoltre, una ‘cronologia della rete’ elaborata dall'amico Ernesto Assante che ripercorre le tappe salienti dell’avventura umana (e robotica) dell’era della comunicazione tecnologica digitale:

Dagli esordi del 1962 “quando il Rand (il think tank militare americano) inizia a discutere delle possibilità di difesa delle comunicazioni interne in caso di attacco nucleare”; alla nascita di Internet nel 1983 come rete globale di computer; al 1989 quando al Cern di Ginevra si scrive il progetto di un grande database di ipertesti, alla nascita del primo motore di ricerca di massa nel 1995; fino al 2014 quando il presidente degli Stati Uniti Barack Obama presenta al Dipartimento di Giustizia il nuovo decreto sulla riforma della Nsa: stop allo spionaggio dei leader alleati. In chiusura una forbita ‘bibliografia essenziale’ di grande utilità per continuare a ‘studiare’ e ‘risolvere’ un ‘problema’ (non proprio virtuale) riguardante il diritto di essere cittadini del cyberspazio non senza incappare in talune problematiche che un sano diritto può risolvere. Se avete pensato che questa lunga esposizione vi impegni troppo a lungo siete in errore, il tutto è contenuto in un piccolo libro di 136 pagine che si lasciano leggere al pari di un’avventura ‘sci-fi’ ma che invece corrisponde al vero. Purtroppo! e/o fortunatamente, sta a voi deciderlo.


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