“Ora e qui / ridurre in cenere / la materia bastarda. Era / vano l’esercizio di virtù. / La passione / indefinibile / divorò l’esistenza, ma non / è indispensabile / disimparare la vita. / Io voglio che al primo dolore / corrisponda una nuova potenza / desiderabile. E sublimare uno scheletro / non serve più a niente. / Rinuncio ad amare la morte, / quell’idea di una piccola pace / desiderabile. / Agire con impeto cancellerebbe / una lunga distruzione. / Non si può / restare fragili / artisti mentali. Adesso / la rivoluzione viene, / non è più / una cosa impossibile / vedere la grazia / carnale e tenera / di un minuto di pace. / Io voglio che al primo dolore / corrisponda una nuova potenza / desiderabile. E sublimare uno scheletro / non serve più a niente. / Rinuncio ad amare la morte, / quell’idea di una piccola pace / desiderabile. / Odiare con impeto cancellerebbe / una lunga distruzione”.
Tutto questo si scrive e poi si canta sulla melodia dell’Eccezione di Carmen Consoli.
Ma io perché faccio queste cose?
Ora rispondo, e la prima risposta è una specie di aforisma: “giocare” non è sempre un sinonimo di “fare”, soprattutto se uno gioca qualche decennio dopo l’infanzia.
Chi scrive pubblicamente è fatto per scrivere, come una macchina funzionante: quindi non si nega a nessuno, e non si nega mai, ma non si nega niente. Le canzoni rifatte a mo’ di poesie impegnate sono slanci nel mondo dell’apparenza, cioè nello spettacolo.
Lo spettacolo vive gloriosamente e gioiosamente, anche con fatica.
Così va bene.
E poi mi spingerò fino ad un piccolo punto odioso? E dirò che i miei esercizi di metrica sono poesie, e queste poesie sono contenutistiche? Non lo dirò mai. La fame inghiotte tutte le situazioni, anche quelle metriche, e per questo addenta anche Carmen Consoli. La mangia, la assimila, la adotta. Perché no? La situazione è molto pratica, come deve essere: si agisce per un risultato oggettivo e la spinta è sempre un po’ agitata. La fame è fame, come sa chi la prova.
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