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‘BIRDMAN’ di Alejandro González Iñárritu

Argomento: Cinema

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 13/02/2015 19:44:04

‘BIRDMAN’ (2014) un film di Alejandro González Iñárritu

 

“12” persone avanti con gli anni presenti in sala sono davvero niente per una pellicola che è già un ‘cult’ cinematografico fin dalla sua prima uscita sugli schermi, ma forse è indicativo il suo essere l’inverso di quel “21Grammi” che Iñárritu realizzò nel 2003 e che sorprese tutti per la dinamica ‘forte’ delle sue immagini. Successivamente però quella che era una regia ‘vincente’ non sembrò trovare lo stesso riscontro con i film successivi “Babel” (2006) e “Biutiful” (2010) che insieme formavano la sua ‘Trilogia sulla morte’. Forse perché le storie narrate erano piuttosto complesse da seguire e non soddisfacevano l’aspettativa dello spettatore fino in fondo e, in reatà, non sembrava poi così stravolgente come in questo film dimostra di essere.

Con “Birdman” (2014) invece, si volta pagina, e va letto diversamente, in ogni modo possibile, a tal punto che il film potrebbe iniziare lì dove finisce e viceversa. Inavvertitamente frammentario (come solo i geni sanno fare) Iñárritu offre allo spettatore una possibilità di scelta, quella di stare davanti alla pellicola o dentro il dramma esistenziale dei personaggi che egli stesso ha buttato nella mischia. A incominciare dall’autore, regista, attore che nel personaggio di Riggan Thompson, (Michael Keaton) un attore di talento che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di ‘Birdman’ supereroe alato e mascherato, vuole dimostrare a se stesso di non essere uno dei tanti ‘falliti’ sfornati da Hollywood cui una volta ha arriso il successo, deciso a lanciarsi nella folle impresa di scrivere l'adattamento del racconto di Raymond Carver: “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore”, dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway.

L’altro è Mike Shiner (Edward Norton) suo alter ego, cioè colui che Riggan non può essere per via dell’età, perché si è lasciato andare, perché semplicemente non può. Come dire, ha saltato il giro della giostra e si ritrova con una situazione esistenziale agli sgoccioli, finito con una figlia ribelle Sam (Emma Stone) uscita dal centro di disintossicazione; la moglie Lesley (Naomi Watts) che non ama e che forse non ha mai amato; l'amante Laura (Andrea Riseborough); il produttore, amico e suo avvocato personale Brandon (Zac Galifianakis) che tenta di risolvere tutte le problematiche inerenti alla produzione e non solo. E, in ultimo ma non ultimo, è il pubblico, qui utilizzato nel doppio ruolo (Antonin Artaud?) di spettatore che si trova a prendere parte all’happening teatral-cinematografico che si svolge dentro e fuori la scena.

La struttura filmica non è così nuova come si è portati a pensare, comunque o malgrado ciò, ci troviamo davanti alla consueta tipologia (quotidiana) del ‘teatro nel teatro’: (gli esempi sarebbero infiniti e quindi me li evito), o forse dovrei dire del ‘cinema che si occupa di teatro’ invadendo un campo ‘improprio’ da cui forse ha preso le mosse, ma dal quale si è subito distaccato regalandoci una forma d’arte nuova, decisamente più originale e permissiva. Formula questa da cui Iñárritu all’inizio sembra voler ripartire ma che poi, strada facendo, stravolge a suo uso e consumo, per raccontare una storia surreale e tuttavia ‘onirica’: qui intesa come equivalente d’una attualità in certo qual modo ‘visionaria’.

La critica cinematografica si sta ancora sperticando nel trovare l’aggettivo giusto per etichettare questa pellicola, tuttavia quella che ho trovato più azzeccata è indubitabilmente quella di Paolo Casella: “un film magmatico, gioiosamente ridondante, tracimante vita ed ambizione”. Visto dal lato psicologico l’aggettivo ‘magmatico’ ingloba diverse funzioni a latere in quanto sinonimo di confuso, caotico, indistinto, disorganico; ed anche il suo contrario creativo, insieme di idee brillanti, arabeschi, follie luminose, magmatiche appunto, riscontrabili in molte sequenze e soprattutto nel finale, caparbiamente ambizioso, tale da sembrare ‘appiccicato’ alla storia come un francobollo su un invito, di cui si poteva anche fare a meno poiché recapitato brevi mano.

Non c’è che dire, qui il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu si cimenta con la commedia, benché agrodolce e in alcuni tratti quasi nera, scandagliando nell'animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima: “ovvero cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all'interno dei quali gli attori recitano senza interruzioni, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge prevalentemente l'azione alla strada (in esterno), e dentro e fuori i camerini, i corridoi, il backstage del teatro stesso, in un gioco continuo di immagini rifratte attraverso specchi e spiragli. Temi principali sono l'ego, in particolare quello maschile, e l'incapacità di distinguere l'amore degli altri dalla loro approvazione.”

“Chi meglio di un attore molto amato ma poco apprezzato per rappresentarlo?” si chiede Iñárritu che ha curato la sceneggiatura con Alexander Dinelaris , Armando Bo, Nicolás Giacobone, la cui cifra ‘letteraria’ rimarca d’appresso le tematiche affrontate nei racconti di Carver sull’argomento. Tematica che inoltre è argomentata da una fotografia strepitosa che Emmanuel Lubezki ha permesso a un montaggio ‘nichilista’ apparentemente inesistente quanto voluto, e che Douglas Crise e Stephen Mirrione hanno trasformato in sequenze solo apparentemente scollegate/collegate. Metodo questo certamente appreso dai grandi maestri del cinema, non in ultimo dai tagli ‘in grigio’ del grande Alfred Hitchcock, e in alcune sequenze dalla ‘black-comedy’ di Robert Altman e Quentin Tarantino; per un ‘mosaico’ complessivo che anche Paolo Sorrentino in “La Grande Bellezza” (2013) ha cercato a suo modo di interpretare, e che è finito per diventare un ‘puzzle’ privo d’insieme.

Non che in “Birdman” questo scopo venga raggiunto in pieno, in ragione del fatto che le figure femminili sono bistrattate e ridotte a ‘cose d’uso ’ dal maschio privato delle sue voglie, perché contratto in se stesso, perché narcisista vissuto in funzione del suo alter-ego attore-teatrante e sessuofobico. Pur tuttavia assistiamo almeno ad una interpretazione femminile di pregio, rispondente in pieno ai nostri giorni e al tipo di approccio che molte ragazze (e lo dico con cognizione di causa) hanno nei confronti del maschio e della vita più in generale. Ma questa non è né una pagella né tantomeno un analisi di giudizio, per quanto va qui detto, si assiste ad uno show di autentiche interpretazioni d’autore le cui azioni coinvolge in pieno lo spettatore sì da trasmettergli il ‘patos’ drammaturgico.

Patos che sul finire, in realtà non c’è un finale o forse ci sono più finali possibili, ogni spettatore s’appresta a scrivere o riscrivere il finale che vuole e che si trasforma, comunque, nell’eterna favola dell’uomo che insegue il proprio essere infinito. Come in “Miracolo a Milano” (1951), (cito qui per i più giovani che potrebbero non conoscerlo) dove nella ritrovata fiducia nel prossimo i clochard ridotti all’estremo s’involano verso il cielo aperto alla speranza; qui il protagonista, uno straordinario Michael Keaton, riacquista la fiducia di sé, dopo essere caduto nel baratro del suicidio, salvatosi s’invola verso l’aperto cielo. La metafora dell’astro che solca lo spazio davanti a lui è quello d’una pazzia che ritrova la serena via di fuga da ciò quella vita che ormai ha cancellato.

Da non sottovalutare nel film l’utilizzo della ‘colonna sonora/soundtrack’ in cui il muro sonoro/musicale torna ad essere anch’esso protagonista, in quanto scandisce in tempi certi i tagli incerti del montaggio e forse della stessa regia: un’alchimia di suoni/rumori di scena e solo-percussioni eseguiti con straordinario virtuosismo dal batterista messicano Antonio Sanchez. Di lui va ricordato il suo primo disco in-solo “Migration” (2007) che include un ampissimo gruppo di rinomati jazzisti conosciuti: Pat Metheny, Chick Corea, Chris Potter, David Sanchez and Scott Colley. “All About Jazz” lo definì: “Uno dei migliori debutti del 2007”. Sanchez disse egli stesso del suo album: “Non voglio che le persone dicano che questo è un album di un batterista, vorrei che questo possa essere qualcosa di qualunque musicista. Io penso in termini musicali, non quante vendite otterrò e se soffio abbastanza sulla brace o no. Vorrei che la musica fosse molto melodica e accessibile a tutti con un sacco di belle interazioni”.

Buona visione, quindi, per un film che non ha ancora finito di far parlare di sé e destinato ad essere un ‘cult’ del nostro tempo. Non è ancora il capolavoro raggiunto di Alejandro González Iñárritu regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, compositore e montatore d’origine messicana che ha aperto il Festival Internazionale di Venezia 2014 con questo film che ha già ottenuto numerose ‘nomination’ per i Golden Globe e gli Oscar nelle diverse categorie che si distinguono. Ma essendo egli ancora giovanissimo e pieno d’idee vado certo delle mie intuizioni e presto assisteremo al suo debutto ufficiale nell’empireo delle grandi star della regia cinematografica. Un augurio?!


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