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Donne di Sardegna

di Bianca Mannu
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Pubblicato il 08/03/2012 22:39:41

DONNE DI SARDEGNA
1
Noi figlie dei graniti
e dei frutici arsi
scaturiti da forre,
noi vive propaggini di vento,
progenie di piccoli ciclopi
disseminati a guardia
di sperdute greggi
sugli apici dei greppi.
Noi, di libero criterio
spoliate vergini,
impaludate in scialli
grevi come la pena dei trapassi.
Noi destinate alla morte
precoce dei sensi,
al silenzio della libido,
designate a vestire
sopra ancor fervide carni
il dolore e il compianto di tutti.
Noi, temibili custodi

d'impietose immolazioni,
eppure d'ogni eroismo destituite
e d'ogni potestà sacrale.
Intanto nell'atterrito silenzio
d'uomini solitamente pugnaci,
innominata investitura
ci fa ministre dei misteri
oscuri del nascere e del decedere.
E anche allora noi, cuore fermo
e alacri atti essenziali,
convogliamo al senso
la voce liberatrice
del gaudio e del corrotto.
2
Io, una di voi, ho mantecato
e cotto il “pane nostru sin' e sale”,
lo “ zichi”, e il “pane salìu”
ho cotto del Campidano
e a milioni le “spianate”
delle cento città montane.
Le mie con le vostre mani,
officina d'alimenti essenziali
e di succedanei cibi
nelle frequenti carestie.

Io con voi donne dei villaggi alti,
gli uomini dietro le bestie,
spersi sui monti o vaganti
fra le stoppie ardenti delle piane,
noi a scardassare ispide lane,
a filare e a tingere, noi,
a disporre orditi e trame
per dar voce alle spole
dei silenti telai:noi sempre,
tessile industria di sussistenza.
E ancora con voi, sotto ingrugniti
cieli autunnali, a interrare
germogli di patate, genuflesse
nel fango dei terrazzamenti
contesi alle fiumare,sasso dopo sasso.
Io voi,donne delle terre basse,
gialle di malaria e turgide
di avanzate gravidanze,
a fabbricar mattoni di fango e fieno
lungo gli argini degli acquitrini
e al tramonto iniziar tresconi
al ritmo delle febbri plasmodiche.
Io-voi nate senza privilegi,
infanti destinate a “s'accordu”,
già molli d'acqua e intente
a sciacquare panni
presso i salti petrosi delle gore
dandoci dentro a gola spiegata
per avversare l'uggia dello sgobbo.
E noialtre a guadare i torrenti,
a svellere giunchi negli anfratti:
così che germinassero
mille e una foggia di canestri
indispensabili e aggraziati
i magri tempi della ricreazione.
Eccoci raccoglitrici
fin dal post-giurassico
esplorare per lungo
e per largo le brughiere:
messi aulenti d'erbe,
di bacche, di frutti
medicamentosi e fiori...
Persino fiori dagli speziati stami,
dal nettare opulento.
Ma a noi, chimiche e farmacologhe
senza attestazioni,
a noi che per secoli
abbiamo amministrato aborti
con succhi di prezzemolo e cicuta,
a noi in combutta
con Persefone e con Ade,
- e perciò gente da roghi -
a noi, in familiarità col sangue
e con gli umori suoi,
coi sintomi del corpo
e coi segni degli effetti,
a noi, mortali sorelle
di Demetra e Dioniso,
fu negata la scrittura,
proibiti i suoi significanti.
Noi, correndo col tempo
e in gara col maestrale,
abbiamo misurato col fiato
la cadenza della sorte.
E col maestrale, mentre cantava,
abbiamo cantato.
Sotto il sole lontano cantava.
Nenie talvolta cantava con noi,
tragiche storie talaltra ululava
per noi, cuori stravolti.
Storie di gole recise,
di garretti mozzati, di colpi
sparati dal fitto di siepi
su le radure indifese
di lacci assassini narrava
parati entro ermi dirupi
per bestie umane avventate
senza probità e senza religione.
E il vento, calando col sole,
azzittiva sul suolo.
Risonavano allora gli schianti
d'affastellate ramaglie: ardenti
s'aprivano fiori notturni
fra tenaglie d'ombra
risalente dal basso
le creste di bianche sassaie.
Poi furono venti e bufere
d'oltremare a combinarsi
coi nostri tribali scompigli,
furono le altrui guerre a intrecciarsi
con le nostre faide rusticane.
E allora questo chiuso
recessivo e tediato
cominciò a sciogliere i suoi cappi
e,senza parere, ad altri lacci
avvolgersi, intanto che
lo sguardo scaltrito nell'astio
di reclusioni, d'esilii
e soggiorni forzati,
accomodato su prospettive inconsuete
d'altre leggi e costumanze,
osava il breve orizzonte saltare
delle patrie scogliere
oscillando, ambivalente,
sugli incomprensibili moti
d'un mondo che “altro” pareva,
eppure era anche “per noi” e,
tra minaccia e suggestione,
ci parlava con straniero idioma.
Col suo glifo, a forza praticato,
finalmente tentammo compitare
il nostro irriflesso vissuto
per conoscerci e riconoscerci
nel simile e nel dissimile
per diventare pure noi gente
d'una umanità più vasta
e non meno inquieta.
Perchè non un eldorado
scemava nella diacronìa.
Né sorgeva, se non come crisi
e desiderio e lotta, il senso
d'una palingenesi balzante
dai lombi delle nuove apocalissi.



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