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Due strani ragazzi

di Mattia Bacchetti
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Pubblicato il 18/06/2012 19:40:35

A volte i loro sguardi siincrociavano durante i dieci minuti della ricreazione, ma nessuno dei due avevamai avuto il coraggio di presentarsi davanti all’altro e aprire la bocca.

Quandolo sguardo di lei si posava sulla sua figura appoggiata al muro mentre fumavauna sigaretta, lo vedeva solo e pensieroso, alienato da tutto e tutti, come senon fosse realmente li, come se la sua testa fosse completamente altrove.

Leinon capiva perché Gabriel, quel ragazzo, se ne stava sempre in disparte;parlava solo con chi gli andava a rivolgere la parola, e non erano molti.

Luifra tutte quelle teste che sapevano aprir sempre bocca riusciva a vederne unache gli sembrava diversa dalle altre, ma questo, pensava, era solo un suopensiero e forse si sbagliava, forse era solo un’illusione.

QuandoNicole, così lei si chiamava, si trovava con le sue compagne di classe,capitava che parlassero di Gabriel, ma le sue compagne si limitavano a dire chesecondo loro era un “gran fico”, ma che stava sempre zitto e questo per loronon andava bene, meglio parlare di un sacco di cose che non hanno nessunvalore, che starsene zitti... Per lei invece in quel ragazzo c’era tutta unmondo da scoprire, c’era qualcosa che la incuriosiva moltissimo e che allostesso tempo le piaceva.

Anchea Gabriel piaceva Nicole, soprattutto perché quando la vedeva si sentivameglio, più allegro di quello che solitamente era o dei pensieri che gliaffollavano la testa, ma non riusciva a trovare la forza per presentarsi e nonaveva la minima idea di che cosa potesse dirle, e questa sua insicurezza lofaceva stare male, molto male.

Gabrielnon sapeva se piacesse a Nicole; Gabriel non sapeva se piacesse nemmeno a sestesso: quando si specchiava si vedeva e si sentiva a volte brutto a voltebello, poi bellissimo e poi ancora brutto; non si riconosceva in quell’immaginecon quei cosi rossi e neri sparsi per il viso, e spesso non parlava con nessunoanche perché si sentiva diverso, sproporzionato dagl’altri e disarmonico con sé;sapeva di essere in una certa maniera che a lui piaceva e di cui era fiero, mache però scompariva quando si trovava immerso fra la gente; dava troppaimportanza alla bella apparenza estetica, dava troppa importanza alle idee e aigiudizi che secondo lui si facevano le altre persone, su di lui e su tutto ilresto… “Ma a cosa pensate? Cosa pensate quando mi guardate? Cosa quando stateli in cerchio a sparar parole al vento? E quando siete soli?”

Eraquindi l’apparire uomo che lo tormentava: non riusciva proprio ad immaginarsicome uno di loro, per lui era inconcepibile essere un essere umano, se peressere umano s’intendeva quello che vedeva lui ogni giorno.

Sapevadi essere il più vivo, se non l’unico che se ne rendesse conto, fra quelle vociche gli pareva discutessero solamente e continuamente del nulla: pettegolezzisu quello e su quell’altro, dibattiti su programmi televisivi, ambizioni avestiti costosi e magnifici, e con che enfasi…

“Malo sai, ieri hanno buttato fuori Gianmarco!! Che palle! Secondo me era ilmigliore, era simpatico e pure fico!”

“Haiproprio ragione, anche secondo me è così, però vabbé c’è ancora Valentino!”   

Manonostante questo, a volte si sentiva proprio schiacciare, e diventareminuscolo, insignificante.

AncheNicole non sopportava quello che le toccava vedere e sentire ogni mattina, ma alei non capitava quello che accadeva al ragazzo, non sentiva quellasopraffazione che entrava dagli occhi e si spandeva per tutto il corpo, leiriusciva ad avere comunque il sorriso acceso sulle labbra e riusciva a far trovarea se stessa o agl’altri (almeno ci provava) un qualcosa per sorridere, perfarti sentire bene.

Eraancora inverno e spesso pioveva e così Gabriel, dopo la camminata incominciatada casa sua, arrivava a scuola tutto mezzo e pieno di vita: come il sole etutta la natura, lui la pioggia l’adorava, quel semplice fenomeno climatico lofaceva sentire estremamente vivo con quella sensazione che si prova quando sicammina a testa alta con la bocca leggermente aperta ad accogliere l’acqua chepiomba dal cielo, goccia per goccia, sulla pelle e sulla lingua. In pochi,almeno a scuola sua, pensava, piacerà mai una cosa del genere.

Pernon parlare di quei piccoli brividi di freddo che ti invadono per un istante ilcorpo e le viscere! Wuuuh, che sensazione!

Eindovinate un po’, anche a Nicole piaceva la pioggia, così tanto che quandopioveva scendeva dall’autobus una, due, o anche tre fermante prima per farsiuna rinfrescante camminata.

Avevanomolte cose in comune, ma ancora non lo sapevano.

Lapensavano similmente anche sulla scuola: a entrambi piaceva andarci perchésapevano di poter imparare cose nuove, capire dei fatti, riflettere su idee eanche conoscere se stessi e gl’altri; però d’altra parte, guardando in facciala realtà, si vedevano circondati da cervelli morti, molluschi parlanti, per iquali la scuola non era che un obbligo da odiare, un ritrovo per blaterare opiù semplicemente un posto dove dover passare la mattina, con gl’occhi puntatisul cellulare, sfogliando il portatore di notizie, o magari prendendo appunti,o meglio, scrivendo parole su parole senza nemmeno pensare a quello che stadicendo la tua penna, come se quelle nozioni andassero bene per principio,tanto alla fine dei conti quello che conta è saperle, quelle nozioni, alleinterrogazioni e ai compiti, per prendere un 6 o magari un 8. E questo eraanche quello che a loro due non piaceva, il fatto di dover essere giudicati conun voto, un numero, senza nemmeno sapere quello che tu veramente sei. Lovedevano il buon uso della scuola, ma solo nei loro pensieri.

Unamattina piovosa, molto piovosa e grigia, quasi nera, di quelle quando il cielosembra emanare un energia nascosta, imperscrutabile ma fortissima, quasi dametter paura, Gabriel stava appena uscendo dal sottopassaggio che gli facevaaccorciare la strada quando, guardando avanti a sé, scorse scenderedall’autobus fermo a due fermate prima della scuola, Nicole.

Rimasefermo, finché lei non fu avanti sul marciapiede.

Decisedi seguirla e spiarla, ma no, non era spiarla, era guardarla, solo guardarla.

Mentrela osservava, un sorrisino gli si apriva sulle labbra: gli piaceva, comecamminava, come si muoveva, spensierata e immersa in chi sa quali pensieri allostesso tempo, come guardava o come si soffermava ad osservare certe cose che lastupivano.

Gabrielrimase molto colpito da quello che aveva visto, anche se un po’ se loimmaginava.

Giunserofino a scuola senza che lei si accorgesse di niente e così, tutti e due bellibagnati, entrarono nelle loro classi.

Nell’auladi Nicole entrò la professoressa di geografia: “Buongiorno prof” intonarono iragazzi quasi in coro, alzandosi in piedi; “Buongiorno ragazzi” rispose laprofessoressa.

Geografia,la materia che studia il mondo intorno a te, piaceva moltissimo a Nicole ed eraanche contenta di come la studiava, insieme a quella professoressa che non siera arresa di fronte alla svogliataggine di alcuni ragazzi e che era riuscita afar tirare fuori ad ogni singolo alunno qualcosa di proprio; non era unalezione quella di geografia, era una scoperta di sé, degl’altri, e di tutto ilmondo circostante.

Nicoleera molto contenta di avere almeno un professore che facesse aprire le menti airagazzi, ragionando su vasti argomenti, anche non scolastici, chiedendo loro leproprie idee, dimostrando che si deve anche saper stare in silenzio, ascoltando,scoprendo quanto è semplice e benefico.

Nellaclasse al piano di sopra, quella di Gabriel che se ne stava nell’angolinoaccanto alla finestra a leggere, c’erano voci dappertutto, quasi non siriuscisse a tener la bocca chiusa; e che discorsi “Quel bastardo di matematicami ha messo un rapporto! Ma io rispondo come mi pare e piace!” “Madonna ma haivisto com’è grassa quella in terza C, e poi si mette pure le minigonne!” “No,non ho studiato niente per italiano…pensa te se mi metto a leggere quellaroba!”.

Entròil prof. d’italiano mentre le voci ancora squillavano “Buongiorno” disse, esolo qualche voce più giovane rispose “Buongiorno prof.” e la lezione cominciò.

Ilprof. spiegava, ma le sue parole rimbalzavano sugli scudi invisibili che glialunni avevano sulle orecchie, ed entravano, nelle teste dei ragazzi studiosi,come nozioni da saper ripetere trasformandosi in appunti.

Gabrielaveva ascoltato e riflettuto e se n’era stato zitto, mentre altri avevano presoappunti e altri se n’erano stati là, come se nessuno stesse parlando di cose unpo’ più profonde a cui pensare, alcune ragazze a truccarsi o su internet coltelefonino, oppure a fare i cruciverba, mentre i ragazzi discutevano su chiaveva vinto la scorsa partita di campionato. Era stata la solita lagna, ma quelgiorno non poteva starsene senza far niente, così, suonata la campanella, eraquello il momento che stava aspettando, Gabriel si precipitò dal professore…“Scusiprof…vorrei parlarle” disse. “Ah, Dimmi Gabriel” “Ok, ma preferirei indisparte” “Come vuoi, Andiamo in biblioteca” suggerì il professore.

“Sentaprof, non voglio che lei si offenda per quello che sto per dirle, anzi, vorreiche lo prendesse come un consiglio” esitò un poco “secondo me lei èstanco…stanco di spiegare la sua materia ad un pubblico di automi” silenzio;continuò “le sue lezioni a me interessano perché mi fanno riflettere, mapotrebbero piacermi anche di più e magari essere più attive, più…più vive…selei fosse…fosse più sicuro di sé e non si lasciasse sconfiggere da quel brancodi imbecilli che ho in classe” “Io, lasciarmi sconfiggere?” “Sì prof, io lavedo così: nessuno la segue, e questo non è colpa sua, lo so, ma potrebbedimostrargli la loro…” “La loro?” “Ecco, indifferenza”.

Rimaseroin silenzio per qualche secondo: Gabriel fissava gl’occhi del prof. chesembravano sia sconvolti sia pensosi, e con qualcosa di nuovo dentro; poi ilprof. parlò: “Credo d’aver capito: tu vuoi che loro si rendano conto, che siaccorgano, che non riescono a pensare ad altro al di fuori del loro piccolofinto normale mondo…giusto?” “Si prof., vorrei che si svegliassero, cheuscissero da quella nube di stupidità che li avvolge” “E’ impossibile Gabriel”“Maledizione, non dica così; lo so che sarà difficile, ma almeno ci provi” “Ciho provato già per troppo tempo con molti ragazzi, ma i risultati ce li haidavanti agl’occhi; io posso anche provarci, ma non ti aspettare che sia io afarli cambiare, devono essere loro stessi a capire” “Ok, grazie prof.” “Oh, diniente, a domani” “A domani”.

Queldiscorso aveva rincuorato un po’ tutti e due, uno perché finalmente aveva dettoquello che pensava, l’altro perché si era finalmente sentito dire qualcosa divero.

Iltempo faceva il suo corso e i fiori erano già sbocciati dalle gemme, gl’alberipieni di verde, rigogliosi splendevano già dal primo mattino nel cielo celestee  l’odore d’aria fresca della mattinaaveva un sapore inebriante sul viso di quei due ragazzi che avevano entrambideciso, essendo passato l’inverno, di andare a scuola in bicicletta.

Durantele pause capitava che si scambiassero sempre più sguardi fuggitivi, come seentrambi volessero trasmettersi qualcosa e in effetti qualcosa c’era: si vedevanofuggire e andare per quel mondo che sentivano intorno a loro, di cuiconoscevano l’esistenza, ma che ancora non potevano vivere come volevano, dovendo abitare con la propria famigliae dovendo andare a scuola ancora perun anno.

Nonvedevano l’ora di levarsi dalla lorocittà e di uscire, fuori, ovunque, a visitare il proprio pianeta.

Mentrela fine della scuola si avvicinava, con l’arrivo dell’estate e il peso dell’ultimotanto atteso anno di scuola che si faceva sempre più incombente, Gabriel siaccorse di non essere il solo a venire in bicicletta perché sempre, durante lericreazioni, ne vedeva due parcheggiate oltre a quelle dei professori, la suaed un’altra; pure Nicole se n’era accorta ma non riusciva a scoprire di chi eraquella bici verde che tanto le piaceva.

Ungiorno, quando l’ultima campanella suonò e la massa di ragazzi uscì, Gabriel sidiresse verso la sua bicicletta infilandosi le cuffie nelle orecchie; dopo averlaslegata, alzò lo sguardo e si accorse che accanto a sé stava una ragazza giratadi spalle che imprecava al lucchetto “Mmmmh! Maledetto! Ti vuoi aprire!”.

CosìGabriel si tolse le cuffie e le chiese “Hey, vuoi una mano?” “Ah no, nonimporta grazie” lei rispose rimanendo girata.

Mavedendo che il lucchetto rimaneva chiuso Gabriel continuò: “Sei sicura?” “Eh…”sospirò lei “non proprio…” e voltandosi lentamente scorse il telaio verde diuna bici con appoggiata la stessa figura che tanto la incuriosiva tutti igiorni.

Gl’occhighiaccio di lei si fermarono su quelli scuri di quella faccia che si trovavadavanti: l’insicurezza del ragazzo svanì di colpo come per magia e allungata lamano verso quella di lei che stringeva il lucchetto, lo prese e con forza giròe STAC, si aprì.

Siaprì anche il sorriso, sulle labbra e nel cuore di quei due strani ragazzi.

Avevanomoltissime cose in comune, e ora le avrebbero scoperte una ad una.


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