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Il caso Spotlight - quale verità racconta?

Argomento: Cinema

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 01/03/2016 08:25:43

‘IL CASO SPOTLIGHT’: quale verità racconta?

È sempre molto intrigante assistere al gioco degli ‘Oscar’ dimenticandoci di quando giocare a ‘Monopoli’, per così dire, si monopolizzavano gli interessi di questo o quell’altro giocatore, dopo l’accettata propria sconfitta. Gli americani in questo sanno il fatto loro, ce lo rivela la loro politica internazionale facendo il gioco di tutti e di nessuno, cioè solo il loro. È quanto accaduto anche quest’anno con l’assegnazione degli Oscar che abbiamo seguito in quella che è detta ‘la notte più attesa dell’anno’. In verità di così atteso non c’era gran che, perché i ‘giochi’ erano già fatti, o per meglio dire, conclusi. Anche se ‘fatti’ rendeva forse di più, sempre che si voglia dare a questa parola un senso divergente dalla normalità (un’altra parola orrenda). E con ciò mi riferisco alla pretesa americana di essere i migliori in tutto, soprattutto nel cinema. Pur volendo per molti versi dar loro ragione, abbiamo assistito all’ennesimo atto egoistico di auto-incensarsi, di auto-premiarsi, di auto-(aggiungete pure quello che volete), premiando una pellicola al di fuori di ciò che di fatto concerne al cinematografo, cioè la creatività di fare ‘Cinema’, che va oltre la dimensione della cronaca nuda e cruda o del reportage fine a se stesso. Acciò pensa già stampa quotidiana, la TV, e che si chiama appunto ‘cronaca’ e ‘reportage’ e spesso lo fa con maggiore evidenza di qualsiasi mano registica, perché, come da sempre si dice: “la realtà non ha bisogno di molti commenti”. Mentre la “finzione’ deve (must) in qualche modo superare la realtà” argomentandola di tutto ciò che spesso la realtà non ha, e cioè il contorno fantastico dell’immaginario, e superare il dialogo (sceneggiatura) tra le parti in concorso.
Ciò per dire che in “Il caso spotlight” di Tom McCarthy, vincitore dell’Oscar ‘per il miglio film’ tutto questo non c’è, o almeno non traspare, tant’è che la pellicola (attenti a chiamarla film) riprende una inchiesta/documentario che a suo trempo fece molto scalpore (e per questo già vincitrice del premio Pulitzer 2001), ma che si era già vista e di cui si conoscono tutti i risvolti. Senza nulla togliere alla bravura attoriale di alcuni interpreti, la pellicola non approfondisce la scabrosa tematica che affronta, non apre una disamina sull’argomento ‘pedofilia’ ma si limita ad elencare una sequela di abusi sui minori che da tempo occupa le pagine dei quotidiani. Appunto un ‘report’ di cronache già viste e sentite, e per fortuna ‘non messe in evidenza visiva’ dal regista che se non altro andava sì premiato per non aver calcato il coltello nella disgustosa piaga sociale che ha affrontato. Ciò di cui più risente la sceneggiatura è la mancanza di ‘patos’ (disagio, turbamento, vergogna, ribrezzo ecc.) nel gruppo degli attori- giornalisti per i quali tutta la vicenda si limita ad essere ‘solo ed esclusivamente’ uno scoop redazionale di cui farsi vanto. Del resto non basta fare qualche sporadico accenno ad una presunta deontologia del mestiere, all’integrità morale che dovrebbe governare certi apparati ecclesiastici, ad una giustizia sociale che non c’è in nessuna parte del mondo, e che gli americani ben conoscono, altrimenti questo genere di film non avrebbe un nesso ‘reale’ con le amenità (ingiustizia, stupidità, ecc.) che dicono di combattere.
Riguardo al mancato patos che indubbiamente avrebbe dato mordente alla pellicola, manca qui il ‘momento clou’ o quella che si definisce come ‘scena madre’, dove nello scontro fra gli interpreti viene a identificarsi la posizione del regista, la sua idea di cineasta (criticabile o meno), la linea che egli intende perseguire nel suo fare cinema. Soprattutto la posizione contrastante dei diversi ‘giornalisti’ che si relazionano con il problema sociale, perché di problema si tratta e per di più che potrebbe anche essere/diventare personale. Fatto è che in questa ipotetica redazione sembra mancare totalmente l’anima del giornalismo, cioè l’aspetto critico dell’inchiesta, dove tutto scorre sulla superficie piatta di una pagina di giornale. Superficialità che è solo impensabile però, quasi che ai giornalisti debba mancare una certa etica comportamentale, o una famiglia di riferimento, così come una vita privata propria fatta di sentimentalismi ecc., per cui sembrano tutti robot al servizio di un ‘padrone monetario’, che non giova affatto all’economia della trama specifica, tale da risultare incompiuta e per questo elencabile nel genere inchiesta/documentario.
La tematica qui trattata non è affatto nuova, in molti in questi giorni si sono affabulati nel confrontarlo con “Tutti gli uomini del Presidente” di Alan J. Pacula del 1976, sul caso Watergate che “..nello scrupolo quasi maniacale della ricostruzione dei fatti senza invenzioni romanzesche né indugi psicologici (..) faceva un eccellente rapporto sul giornalismo americano”. Così il Morandini che, a riguardo del film lo definisce “..piatto come un tavolo da biliardo” non tralasciando che pure “..esiste anche un fascino dell’orizzontalità”; questo “Spotlight” si raffronta con il cugino nichilista di quel film, presentandosi ‘nudo e crudo’ al giudizio di uno spettatore che, se non è americano, altri non può essere che un cittadino di un possibile ‘quarto mondo’ che non legge i giornali e non guarda la TV semplicemente perché non ce l’ha. Per me, che sono entrato al cinema aspettandomi di vedere come si conduce un’inchiesta con gli attuali mezzi tecnologici o, al limite, aspettandomi risvolti nascosti rivelati solo per il cinema, mi rammarico di aver visto un documentario noioso e senza mordente.
Ben altro mi è capitato visionando il già citato “Tutti gli uomini del presidente” ma, e soprattutto, vedere e rivedere quel capolavoro che è “Quarto Potere” di Orson Welles del 1941; senza nulla togliere ad altre inchieste famose, come quella ad esempio dal fronte della guerra civile di “Z l’orgia del potere” di Costa-Gravas del 1969, di ben altro spessore. Nonché alcuni film di Oliver Stone, per non dire dei tanti film di Wim Wenders al limite tra film e reportage quale, ad esempio, è stato “Buena Vista Social Club” che ottenne l'Oscar come miglior documentario che viene assegnato come migliore dall'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, cioè l'ente che assegna gli Academy Awards, i celebri premi conosciuti in Italia come premi Oscar. E senza indugio alcuno cito inoltre “Le vite degli altri” di F. H. Von Donnersmarck del 2007 vincitore di numerosi Film Awards, David di Donatello, Golden Globe e dell’Oscar per il miglior film straniero. Poi, così tanto per spezzare l’atmosfera pesante e si avesse voglia di ‘Cinema’ per così dire autentico, perché non rinfrancarsi con “Prima Pagina” di Billy Wilder del 1974 con l’irresistibile coppia Walter Matthau e Jack Lemmon … almeno si ride.


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