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’Terremoti’ una mostra a Milano

Argomento: Società

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 09/03/2017 18:19:17

TERREMOTI. Origini, storie e segreti dei movimenti della Terra
Milano, Museo di Storia Naturale
29 ottobre 2016 - 30 aprile 2017

“Il cuore ha le sue ragioni,
che la ragione non conosce”. (Blaise Pascal, Pensieri)

In ogni istante della giornata in qualche parte del mondo avviene un terremoto. Secondo il National Earthquake Information Center (NEIC) in un anno si producono alcuni milioni di terremoti, ma solo una parte di essi è registrabile dai sismografi della rete mondiale.
Il terremoto è un fenomeno naturale con il quale la nostra penisola è costretta a convivere, e ogni volta ci si interroga sulla natura di questa manifestazione del nostro pianeta. La mostra a cura di Marco Carlo Stoppato nasce come momento di riflessione volto a comprendere le cause di questi eventi, il perché si verificano, dove avvengono con particolare frequenza, le modalità attraverso le quali le onde sismiche si propagano nel terreno e quali sono le energie sprigionate in pochi secondi. L’esposizione guarda poi alla sicurezza e al futuro, e illustrerà tutte quelle pratiche e quei comportamenti che la popolazione deve sapere e “interiorizzare” per limitare i danni che un terremoto potrebbe provocare.

Introduzione a ‘La luce oltre le crepe’:
Oralità e Scrittura nella Tradizione Poetica Italiana - un saggio di Giorgio Mancinelli.

«Il corso della vita si svolge, per il popolo, secondo una continua e fitta trama di forme tradizionali che ispirano, determinano e interpretano via via le azioni e le situazioni di cui è intessuta l’esistenza dell’uomo» – scrive Paolo Toschi (1) in apertura di “Il ciclo dell’uomo” nel poi non così lontano 1969, e da allora questa realtà non è mai cambiata, almeno secondo la ‘teoria sociale’ intorno allo sviluppo della persona e della società. Se non che l’uomo è diventato uditore vorace, un insaziabile divoratore di ciò ‘che non ascolta più’, dimenticando finanche di esigere significato e valore da ciò che ascolta e, soprattutto, tralasciando di dare un ‘senso’ a quello che dice.
Per quanto tutto questo sembri irrilevante, al contrario, ‘significato’ e ‘valore’ sono due elementi essenziali, disuguali eppure inseparabili della dialettica correlata alla logica del ragionare (pensare, riflettere, desumere) e dell’argomentare (disputare, dimostrare), corrispettive del linguaggio collettivo e comunitario oggi in uso nel mondo. Sia esso espresso nella forma ‘orale’, come enunciazione verbale che s’imprime di significato; sia in quella ‘scritta’, come grafia simbolica diversificata, che non possono essere isolate l’una dall’altra per le medesime circostanze che ne costituiscono la causa, il significato e la ragion d’essere.
Ciò non basta però a giustificare, in un ambito o nell’altro, i tentativi di scoprire, comprendere e interpretare lo strato percettivo e/o cognitivo dell’imprimere ‘senso’ all’uso delle parole (utilità, praticità, relazione, comunicazione); cioè di dare un ‘senso compiuto’ (intrinseco e/o estrinseco) a ciò che la connotazione emozionale, nel suo insieme, suggerisce al linguaggio nel formulare una frase e/o all’interno di un dialogare in cui vi siano espliciti impulsi emotivi e sensazioni inerenti (percezioni, sentimenti, affetti), condivisi dalla parola orale e/o scritta.
Una trattazione questa che, almeno secondo Rudolph Arnheim (2), se per un verso può risultare eccessiva d’interesse per quelli che sono i processi primari della percezione, specifici del ragionare; nell’altro verso, sarebbe fin troppo contenuta, per l’inestricabile ambiguità di cui si compone.
Ma come si sa, la mente ha i suoi labirinti in cui talvolta è difficile districarsi, sebbene per farlo, vada tenuto conto degli ‘impulsi emozionali’, indispensabili in ogni processo percettivo e/o cognitivo, al fine di dare significato, e quindi ‘senso compiuto’ a ciò che si vuole qui analizzare di precipuo interesse ‘teorico sociale’, e che vede inoltre impegnate discipline diverse di tipo antropologico e socio-psicologico, volte a riconoscere all’essere umano la ‘prerogativa’ (individualistica) di selezione e scelta che gli compete (libero arbitrio), e la ‘determinazione’ (altruistica) di propendere per la sopravvivenza della specie antropica. Determinazione che l’individuo nel corso dei millenni si è trovato più volte ad affermare con ostinazione e tenacia, principalmente in occasione di calamità come terremoti, maremoti, accadimenti cosmici di diverso genere, tendenti a stravolgere l’equilibrio del proprio habitat naturale.
Quella stessa determinazione che ‘l’antropologia strutturale’ di C. Lévi-Strauss (3) riscontra nelle somiglianze culturali presenti nella struttura del pensiero umano, riconducibili alla dicotomia dell’ ‘agire comunicativo’ quanto dell’ ‘agire strategico’: sia nell’oralità, in quanto prerogativa caratterizzante l’individuo sociale (dialogo, scambio di idee, di conoscenza); sia nella scrittura e/o altra forma espressiva dell’attività collettiva (graffiti, pitture rupestri, tessuti, simboli votivi ecc.), attinente alla creatività umana. Trattasi dunque di pre-requisiti che stando alla ‘teoria del riconoscimento’ di Axel Honneth (4) si rendono necessari per quanti, avendo perduto tutto o quasi (condizione, status, posizione sociale) a causa dell’evento sismico al centro di questa argomentazione, si ritrova nella situazione primordiale del ‘dopo’ che può essere risolto solo con uno sforzo comune: sostituendo al proprio ‘conscio individuale’ l’opportunità dell’ ‘inconscio collettivo’.
Allo stesso modo di quanti altri (individui) che, pur nello smarrimento, cercano di dare un ‘senso’ filosofico e/o teologico alla propria ‘sopravvivenza’, contestualizzata nel ‘perché’ di ogni cosa: dalla ragione per cui la natura si abbatte con violenza contro una popolazione che stenta inerme a comprenderne la portata; alla spiegazione logica di un distacco forzoso da quelli che sono i costrutti (significati e valori) di un’intera ‘esistenza’ individuale, che li riscatti dall’incognita archetipica, avanzata da C. G. Jung (5), propria della ‘transitorietà umana’. Transitorietà che nell’inconscio collettivo sarà al tempo stesso ‘causa’ ed ‘effetto’ di una medesima problematica che spazia dall’avere al dare ‘senso’ alla condizione di ‘precarietà’ che si è venuta a instaurare dopo l’evento sismico da parte dei ‘sopravvissuti’.
È psicologicamente accertato che l’individuo sorpreso dallo ‘spavento’ procurato da un evento imprevisto e imprevedibile, quale per l’appunto un terremoto che ne mette a dura prova la sopravvivenza, in molti casi incombe in una sorta di alterazione psicofisica (mentale, dialettico, verbale), come l’improvviso mutismo, la perdita dell’udito, o anche della memoria. Diversamente, mentre uno stato d’ansia e di timore crescente, presuppone una sorta di ‘angosciosa’ attesa del pericolo che un nuovo evento sismico potrebbe comportare. La ‘paura’ connaturata in ogni individuo che si trovi ad affrontare la privazione dei propri affetti e/o l’incapacità di combattere ciò che lo sovrasta, prende il sopravvento, protraendo l’individuo in una fase di disordine invisibile che va dal momentaneo ‘smarrimento’ a quello di possibile ‘abbandono’.
Difformemente, mentre gli effetti dello spavento iniziale riguardano un aspetto problematico che l’individuo psicologico si trova a dover affrontare sul piano (soggettivo) strettamente personale; le conseguenze dell’ ‘angoscia’ e della ‘paura’ da sisma vanno altresì valutate sul piano (oggettivo) specificamente sociale, riguardanti la possibile disgregazione dell’intera comunità d’appartenenza che non va affatto sottovalutata. Poiché, seppure a livello inconscio al momento dell’evento sismico non è recepita immediatamente come ‘paura’, in quanto derivata da causa accidentale; altresì essa influisce sull’equilibrio psicologico autoreferenziale che pone il voler ‘continuare a vivere’ in netto contrasto con l’avvenuta perdita di ‘senso’ del proprio status sociale.
“Non sappiamo – scrive Henry Frankfort (6) – come in passato si provvedesse alla necessità dei singoli di un sostegno soprannaturale alle loro personali esistenze. (..) Né di quale peso gli elementi sopra evidenziati, esercitino sul problema della sopravvivenza e del rapporto tra forme culturali di immediata rilevanza. (..) Come quella di considerare la sopravvivenza apparente, come un atto creativo completamente originale (..) da stimolare nuovi modelli di integrazione. Ed è in questa ‘sopravvivenza come rinascita’ che le forme culturali, benché transeunti, riescono a superare la propria scomparsa.”
Conseguentemente all’evento sismico, la riaffermazione della ‘tradizione culturale’ (qui intesa come amalgama di tutte le espressioni concernenti) da parte del singolo individuo che si trova a dover riconsiderare se stesso all’interno del proprio nucleo (gruppo, clan, società) di appartenenza, si rende quanto mai necessaria, onde arrestare la progressiva involuzione socio-culturale che il sisma ha causato e che improvvisamente avverte come perdita sostanziale di un patrimonio irrecuperabile che solo il recupero della ‘memoria culturale’ di quanti sono sopravvissuti, può aiutare a ricostituire. Necessita una ferrea volontà interiore (individualistica) per riuscire a trasformare in ‘voglia di vivere’, l’estenuante annientamento psicologico e la perdita d’ogni valore affettivo che pure finora l’aveva sostenuto e che l’individuo stesso ha contribuito a formare, onde per cui, ‘continuare a vivere’ si rivela proporzionale a ‘ricominciare a vivere’ che, per quanto auspicabile sappiamo non è sempre possibile.
In quest’ottica pertanto, si pone in evidenza come il problema dello ‘smarrimento’ (confusione, sconcerto, disorientamento) o dell’ ‘abbandono’ (rinuncia, cessazione di interesse, abdicazione), siano consequenziali dell’incapacità relativa all’individuo di dominare gli eventi (nel caso specifico l’evento sismico che si ripete nel tempo), unita alla inequivocabile percezione di totale dipendenza da essi. Questo spiega in parte la fortissima accentuazione emozionale di quanti si pongono interrogativi sul ‘senso’ del proprio agire in un ambito specifico della propria attività, associata e/o della propria condotta nel suo complesso. Ciò che porta alla ‘precarietà’ cui l’individuo va soggetto, in mancanza di una promessa di prosieguo e di futuro benessere in seno alla comunità, o di effettiva capacità di difesa che lo salvaguardi da eventi successivi, e che invece lo scopre del tutto impreparato ad accettare.
Problematica questa che sarà ripresa più volte in questa trattazione ed esaminata nelle diverse accezioni psicologico-filosofiche e socio-culturali corrispettive, affatto discordanti dall’interesse specifico ‘letterario e poetico’ che qui si vuole investigare. Ci metteremmo fuori strada, rifiutandoci di credere che problematiche del genere, solo perché ci appaiono fortemente sfuggenti dai moduli di una società evoluta: “Nondimeno – scrive ancora H. Frankfort (7) – negare ogni problematica lì dove l’incognita della sopravvivenza è particolarmente sentita, sarebbe dare solo parte di una delucidazione che invece richiede un’eventuale spiegazione plausibile.”Secondo Alasdair MacIntyre (8): “.. la rete di corretti rapporti di dare e ricevere possono essere instaurate solamente all’interno di comunità nelle quali sia assicurata una partecipazione attiva e motivata e un interscambio tra i vari componenti – che lo compongono – (..) perché senza di esse lo scambio utilitaristico e manipolativo viene a soppiantare quel più profondo bisogno di ‘reciproco’ e ‘incondizionato’ che è del riconoscimento tipico delle persone”.
Sta di fatto che la contrapposizione prospettata fra ‘oralità’ e ‘scrittura’ cui si fa riferimento nel titolo, vuole essere solo una chiave di lettura per un argomentare fluido non privo di una sua specificità, che scorge nella ‘poesia popolare’, sia in vernacolo che in lingua, una radice organica e funzionale che gli è propria, all’interno di un percorso che si annuncia avvincente solo se proiettato a restituire dignità alle ‘strutture portanti’ della tradizione. Così come ai costrutti mentali tipici di un territorio quanto al lessico di una popolazione autoctona (popolo, gente, razza), per la capacità intrinseca, quando suggerita dal ‘senso’, di cancellare dalla cultura ufficiale, troppo spesso detrattiva, quei pregiudizi antiquati e obsoleti che essa stessa ha coniato appellando la ‘poesia popolare’, ora a ‘erudizione povera’, ora a ‘folklore clandestino’. Quasi anch’esse non fossero, in ogni caso, espressioni ‘reali e vitali’ della nostra formazione intellettuale in costante evoluzione e che perciò stesso impone rispetto e implica il dovere di contribuire alla sua conservazione.
Ancor più quando la ‘poesia popolare’ si adopera per eludere mediazioni etnocentriche tendenti a invalidare altre forme erroneamente ritenute ‘inferiori’ come, per esempio, la ‘canzone popolare’ (‘non sono solo canzonette’), non trattata in questa trattazione, ma che altresì è da considerarsi alla stregua del linguaggio poetico e popolare dei Bardi e dei Trovieri di un tempo. Per quanto componente non emerita della cultura ufficiale, eccezion fatta per la lirica medioevale, la ‘poesia popolare’, dapprima tipica della ‘oralità’ declamatoria e solo successivamente trasferita nei simboli della ‘scrittura’ e della notazione musicale che pure ci ha accompagnato fin qui, è di fatto un bagaglio secolare prezioso e indispensabile del quale non possiamo e non dobbiamo fare a meno. Ciò in ragione del fatto che la ‘poesia popolare’ ad uso civile e sociale ha permesso e continua a permettere al passato, anche quello più remoto, di essere attiguo al presente. In quanto consente alla memoria di rapportarsi con le vicende contingenti, nel caso specifico del terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna, e di quanti non hanno potuto e non possono dimenticare.
Ciò a dimostrazione di un ‘fatto culturale’ persistente negli animi e nel pensiero di quanti sono ‘sopravvissuti’ ad eventi catastrofici avvenuti in illo tempore, e che si rinnova ogni qual volta la dinamica sismica prende il sopravvento sul lineare corso degli equilibri naturali. Posto che si tratta di eventi terribili, dei quali la ‘memoria del tempo’ riferisce l’inequivocabile testimonianza d’una caducità irreversibile, a cominciare da quelli di più antica memoria fino a quelli qui di seguito elencati: eruzione dell’Etna (1693); terremoti di Casamicciola d’Ischia (1882), di Messina (1908) con ripercussioni in Sicilia e Calabria, e di Stromboli (1919- 1930); fino alle spaventose tragedie del Vajont (1963) e di Firenze (1966). E, ancora, i terremoti che sconvolsero il Belice (1968), il Friuli (1976), l’Irpinia (1980) e gli ultimi in ordine di tempo che hanno colpito l’Abruzzo (2009), l’Emilia-Romagna (2012), il Centro Italia – Lazio, Umbria, Marche (2016).
Le cui storie di riferimento, almeno quelle più in là nel tempo, sono pervenute a noi grazie alla narrazione ‘orale’ di Cantastorie di strada e dalla viva voce di Poeti cosiddetti a-braccio di umili origini che le declamavano e/o cantavano nei borghi e per le contrade, apprese, a loro volta, dalla gente che credibilmente le aveva vissute, e per questo ritenute attendibili. Narrazioni per lo più di tipo ‘lirico-poetico’ entrate poi nella ‘tradizione orale’ in forma di carmi e canzoni propedeutiche alla formazione di un’unica inequivocabile cultura popolare nostrana; e che solo successivamente ritroviamo, ingentilite e/o impreziosite nella ‘scrittura’ autorevole di poeti e letterati quali Saba, Pasolini, Leydi, Marini, De Simone, Paolini che hanno dedicato ad argomenti specifici (ivi inclusi terremoti, cataclismi, alluvioni,) alcune ‘pagine’ memorabili che non vanno ignorate.
Da non dimenticare inoltre, l’apporto dei numerosi informatori e ricercatori quali Croce, Rajna, Pitrè, Nigra, Barbi, Bosio, Altamura, Pianta, Carpitella, Bosio, Lo Straniero, Cocchiara, Lombardi-Satriani, Di Nola, De Martino, solo per citarne alcuni, che hanno raccolto documentazioni vocali, narrative, teatrali e musicali che nell’insieme formano il patrimonio culturale più autentico della ‘tradizione poetica italiana’. Se mai l’esistenza di una ‘espressione della ‘poesia popolare’ improntata sugli effetti e le problematiche sociali del ‘terremoto’ fosse ancora dubbia, la pubblicazione oggi di una nuova antologia poetica dedicata, come quella qui presa in esame, rivela una dimensione culturale di ben più ampio respiro, che abbraccia tutta la comunità investita dallo sconvolgimento sismico i cui tragici accadimenti abbiamo noi tutti ‘vissuti in diretta’ attraverso i media televisivi e la carta stampata, con articoli, servizi giornalistici, reportage e commenti che hanno impressionato e coinvolto quanti si sono prodigati negli aiuti con spirito di sacrificio, partecipi della sofferenza e del dolore di chi l’ha vissuto in prima persona, e che in egual modo ha visto colpiti il territorio e la popolazione.
Siamo qui di fronte alla narrazione di autentiche sciagure umane e disastri ambientali di grandi proporzioni, inclusivi di tutto quanto si evince nella prefazione di Giuseppe Pederiali, e nelle note dei due curatori Roberta De Tomi e Luca Giglioli, che si sono prodigati nella raccolta e nella diffusione di questa antologia poetica dal titolo suggestivo: “La luce oltre le crepe”, degna di essere annoverata negli annali letterari in quanto ‘testimonianza partecipe’ di un accadimento realmente avvenuto, come appunto l’evento del terremoto in Emilia-Romagna. Tema questo forse non fondamentale ma ricorrente, che riaffiora costante nella ’poesia popolare’ di rilevanza civile e sociale, che restituisce spazio alla ‘voce poetica’ e quindi all’ ‘oralità’ declamatoria, allo stesso modo che alla ‘scrittura’ in quanto mezzo di diffusione mediatica di riferimento, rivolta alla selezione e alla catalogazione dei componimenti come fatto contingente di una realtà triste e dolorosa.
Va qui detto, inoltre, che la scelta degli interventi critici di seguito riportati, non è stata attuata in ordine di un distinguo delle tematiche affrontate, in ragione di una sola tematica presente: il terremoto che ha colpito le regioni dell’Emilia-Romagna. Così come, per un principio di equità della provenienza degli autori stanziali e immigrati presenti sul territorio, non si è tenuto conto dell’uso linguistico italiano o vernacolare con cui i poeti hanno scelto di esprimersi singolarmente. Come neppure dell’attinenza espressiva al tema, la correttezza o no delle locuzioni, la ridondanza verbale, la complementarietà e/o la supplementarietà del fenomeno poetico con altri fenomeni più illustri. Bensì, si è preferito soffermarsi sulla musicalità intrinseca alle parole, ai ritmi e alle assonanze componenti l’intero nucleo ‘poetico-emozionale’ il solo in grado di legittimare l’abbattimento di ogni barriera linguistica e razziale.
Pur tuttavia una scelta andava fatta più per questioni di contenimento degli spazi critici che non per ragioni qualitative, pertanto va detto che ogni singolo poeta presente nella raccolta, nessuno escluso, contribuendo con impegno a una causa onorevole di per sé giusta, ha dimostrato la propria vicinanza umana, sociale e civile alle popolazioni colpite dall’evento sismico con quanto di più umile e discreto ognuno era in grado di disporre: la propria ‘oralità’ e ‘scrittura’ poetica, autentica e amica che spero incontri tra la gente la giusta corrispondenza che merita. Pertanto rivolgo a ognuno di loro, il mio più rispettoso e sentito: ‘grazie’.

Della memoria e dell’oblio.

Allorché il silenzio propaga la sua eco luttuosa su un evento sismico che improvvisamente è arrivato a sconvolgere la natura di un territorio spargendo morte e distruzione, inevitabilmente la popolazione colpita subisce una brusca recessione a causa della perdita del ‘vincolo temporale’ con una parte della ‘memoria’ individuale e collettiva di riferimento che entra in cortocircuito per lo sbigottimento inatteso e lo spavento che ne consegue. “Allo stesso modo che la ‘memoria’ è essenziale per la definizione dell’identità, tra i vari elementi concomitanti, quando una persona incappa in una forma di amnesia, uno di quelli che causa maggiore sofferenza è proprio la perdita del senso del sé” – scrive A. C. Grayling (9). Altresì il comune parlare quotidiano (gergale, dialettale, in lingua) tipico del lessico individuale, non rinvenendo la necessaria corrispondenza con la realtà, segnata dallo sconfinamento in corso in ‘territori emozionali’ diversi da quelli conosciuti, s’arresta basita, chiusa nel proprio ‘silenzio’, davanti a quelli ch’erano i ‘luoghi eletti’ della memoria definitivamente e/o apparentemente perduti.
Accade così che le ‘parole’ rivelino tutta la loro usura, il lessico individuale/familiare e/o collettivo/popolare successivamente si impoverisce a causa della sopravvenuta cancellazione (involontaria) di usi e modi di dire del linguaggio ‘vernacolare/gergale/dialettale’ che gli è proprio; legato com’è al proverbiale quotidiano, utilizzato dal ‘pensiero dinamico’ a custodia e salvaguardia della ‘memoria’ del recente passato. Sono infatti le immagini e i volti di quanti la furia violenta del sisma ha spazzato via con le pietre delle case, le fontanelle agli angoli delle strade, i campanili delle chiese, i monumenti insigni, le piazze e i luoghi di ritrovo che, insieme alle fabbriche, le masserie e i poderi agricoli, sono destinati a restare, almeno per un certo tempo, nei ricordi dei sopravvissuti, in quanto ‘luoghi concettuali’ e/o ‘simbolici’ investigati dalla memoria inarrendevole. “Secondo alcuni ciò che fa di un individuo la stessa persona per tutta la sua vita, è l’insieme dei ricordi che si accumulano nella sua mente e che egli si porta dietro". (10)
Acquisizione questa che trae la propria essenza vitale attraverso l’inestinguibile e vigoroso apporto della ‘cultura’ autoctona e/o trapiantata nel territorio, in cui si sviluppa e sedimenta all’interno della ‘tradizione’, in quanto formativa del ‘corpus memoriae’ più o meno coerente, formato da credenze e pratiche condivise nell’ambito della realtà sociale e della ritualità religiosa. Di cui sono parte integrante le testimonianze di eventi sociali e storici, le usanze e i costumi, le credenze e le superstizioni (Feste patronali religiose, Sagre popolari tipiche della ‘civiltà contadina’, gli Almanacchi e i Lunari) che, per lo più, si rifanno alla ‘cultura orale’, per definizione ‘poetica’ e ‘canora’, cioè non mediata dalla scrittura, in cui la pausa ‘silenziale’ è solo un frammento emblematico delle forme e dei ritmi del linguaggio abituale.
Ma è l’insieme dei ricordi, più o meno consci, più o meno inventati e/o elaborati dalla ‘memoria simbolica’ a trasformare i cosiddetti ‘luoghi elettivi’, in luoghi di raccolta del ‘sentimento del passato’ che ogni singolo individuo si porta dietro come bagaglio di esperienze più o meno vissute, conseguenti al pieno ‘riconoscimento’ avvenuto all’interno della tradizione, e che va esteso alle forme del non umano e/o del soprannaturale. Ovvero a quel ‘sovrumano’ che la consuetudine attribuisce alla natura, all’ecosistema terrestre, al proprio habitat, così come ai concetti formativi e intellettivi, al proprio status di salute ecc. capaci di restituire all’individuo e alla collettività, la sua imprescindibile ‘veridicità esistenziale’ all’interno della significazione umana del mondo.
È nei cosiddetti ‘luoghi della memoria’, in cui si raccoglie l’‘identità’ formativa e/o integrativa dell’esperienza umana, seppure ostentata all’interno di un ambiente fluido e in costante cambiamento, che pure si consolida quel ‘valore’ pregno di ‘significato’ che accorda all’individuo e alla collettività intera di cui è parte integrante. Quell’aspettativa di vita ‘costante’ che rende immuni allo scorrere del tempo le necessità della coabitazione solidale, l’integrità di gruppo e la giustizia sociale che, l’evento sismico, per il potere ineffabile che lo distingue, ha ripetutamente nel tempo, tentato di condurre a una funzione ‘sovrumana’ spontanea, legata alla ‘paura epifanica’ delle origini. Il cui significato estrinseco oggi sfugge alla concepibilità, e per questo non meno ineccepibile di emanazione metafisica e/o trascendentale emblematica del ‘sacro’.
Una sorta di osmosi che porta all’annientamento della cosa materiale in sé, con ripercussioni sullo stato psico-fisico dell’individuo e, in qualche modo, della capacità di coesione con la collettività che lo rappresenta e che si trova a fronteggiare apertamente con i soli mezzi che ha a disposizione, la propria atavica paura dello scontro con gli elementi fenomenologici della natura e lo scoramento per l’impotenza di reagire che ne consegue. Uno scontro prepotentemente impari, in quanto l’evento del ‘terremoto’ arreca come si è visto, oltre allo spavento improvviso, l’angoscia della negatività che incombe sul futuro, senza mai diventare ‘né sapere né possesso’, ma che solo indica l’incompiutezza dell’essere antropico di fronte alla potenza del soprannaturale e/o del prodigio trascendentale. Purtroppo il pregiudizio culturale è qualcosa che frequentemente separa la percezione che l’uomo d’oggi ha di se stesso dalla sua storia passata.
Anche quando tutto ciò contrasta fortemente coi fondamenti della ragione, la scelta conscia e/o inconscia del ‘silenzio della memoria’, non declina l’individuo dall’aggrapparsi al supporto dell’esistenza vissuta, della discendenza e del prosieguo della specie, in ragione di una sopravvivenza possibile. Tuttavia, per quanto dura da sostenere, per superare i condizionamenti che la natura mette in campo quali ostacoli alla contraddittorietà delle intenzioni di difesa della specie, la scelta del ‘silenzio della memoria’ concorre nell’attuare una sorta di ‘rimozione’ forzata e più o meno definitiva dell’avvenimento nefasto, fino a cancellare dal lessico quotidiano le espressioni che lo ricordano più da vicino o che, in qualche modo, riecheggiano il dolore ad esso legato.
Ma se il ‘terremoto’ col suo rombo potente cancella quelle che sono le ‘passioni della mente’, è indubbio che la ragione e/o la memoria, risentano maggiormente della carenza di ‘senso’ nelle parole che le discernono (distinguono, differenziano, caratterizzano). Quelle stesse parole che il ‘silenzio’ dei sopravvissuti raccoglie in sé, e da cui scaturiscono i lemmi luttuosi del dolore e del pianto, l’oralità sospirata della disperazione. Ciò che, straordinariamente, pur si rivelano pregni di una insospettabile vena ‘poetica’ che sovrasta la parola (parlata), e diventa suono, e poi musica, ‘liricità’ epica; attraversa la vocalità orale del mutismo sonoro (pianto rituale, coro muto, barcarole), e che consciamente e/o inconsciamente l’individuo racchiude nel proprio ‘mutismo interiore’.
Ne risulta, comunque, una scelta che svilisce il senso antropologico di ‘sopravvivenza’ che si vuole far emergere in questo scritto, imperniato sul travagliato cammino umano gravato dalla paura. Quella stessa paura che – secondo Umberto Galimberti (11) –“..allontana gli altri, diffondendo intorno a sé un vuoto che più nessuno riesce a riempire; (..) lo si scopre quando è già penetrato per devastare, far tacere, nascondere, negare l’esistenza di un mondo interiore abitato che si vuole disabitare”. Ma che si rivela, infine, il solo mezzo per accettare con sottomissione un ‘continuare a vivere’ che, al contrario, si svelerebbe conflittuale con se stesso, di pari passo con il riconoscimento della struttura del male come privazione di un bene dovuto. Sulla base del ‘possesso’ e della ‘necessità’ che si configura quale ‘rete di dare e di ricevere’ che conduce alla realizzazione (per quanto possibile) del proprio benessere individuale e comunitario.
Si tratta di una concessione a parere di molti eccessiva che implica una diversa cognizione del ‘tempo-intermedio’ che passa dalla profondità psichica del dolore (trauma psicologico subito), alla ‘rimozione’ del dolore stesso (come reazione psicologica); dalla ‘memoria’ che ne accantona il ricordo instaurato con la rappresentazione luttuosa (evento escatologico), ai recessi di un’ostilità preconcetta che spinge verso l’ ‘oblio’ più profondo. Stando a Plutarco: “l’oblio, trasforma ogni evento in un non-evento”, fondando la sua concezione sull’assunto che vede nella ‘memoria’ un organo della percezione del passato, proprio come gli occhi e gli altri sensi sono organi della percezione del presente. Franco Rella (12) parla invece del ‘dolore’ come “..la ripetizione dell’inconscio (individuale e/o collettivo) che si propone come atteggiamento ontologico nuovo: diametralmente diverso, nei confronti del presente e del passato, che tuttavia, (per reazione conforme), rende pensabile anche una diversa costruzione del futuro.”
Un ‘sentire’ comune che è anche un ‘ricordare’, seppure a un livello metafisico, consapevole della precarietà e la caducità del presente che si lascia vivere, e la cognizione del futuro altrettanto precario che incombe. Lo stesso che, nel punto della sua massima resistenza e di massima tensione, ha prodotto in passato l’idea avanzata del pensiero psicoanalitico di Sigmund Freud (13), per cui i due eventi si equivalgono, in quanto “..il ricordare è sempre un rivivere, viceversa la rimozione di un ricordo, rende più difficile che il fatto storico si ripeta due volte alla stesso modo, per quanto, se associato da alcune persone ad un altro ricordo individuale non rimosso, potrebbe, accadere che dall’inconscio tenda ad emergere nella memoria collettiva”, formatasi in ambito filosofico e maturata all’interno del concetto dinamico (metastorico) che l’ha consegnata alla tradizione.
Alla ‘memoria collettiva’ in ambito antropologico e storiografico, si attribuisce l’accezione strutturale di estensione del concetto di ‘memoria individuale’ in quanto, in entrambi i casi, sussiste una condivisione in termini; cioè sia nel caso della memoria esterna (collettiva), sia interna (individuale), questa va comunque riferita a un’unica entità formativa (popolazione, comunità, gruppo sociale, ecc.) in cui, verosimilmente, si è plasmata e ha dato forma al corrispettivo ‘topos’ culturale che, tramandato da una generazione all’altra attraverso le diverse forme della comunicazione (oralità, scrittura, immagini ecc.), in esso si esprime e si rappresenta. Benché ognuno di noi non ne sia consapevole, si profila in questa corrente della filosofia contemporanea, scrive inoltre MacIntyre: “..una crescente rilevanza di risultati derivanti dagli straordinari risultati che ha ottenuto, concernenti la natura del linguaggio e la varietà di modi in cui l’uso del linguaggio ci consente di stabilire relazioni con i nostri interlocutori o con ciò di cui parliamo.” (14)
Nel caso specifico del ‘terremoto’ qui preso in considerazione, la tematica contestualizzata della ‘memoria culturale’ non è sufficiente a colmare ‘il silenzio delle parole’ che anche a noi, argonauti del web e della comunicazione, vengono meno nel momento in cui il rumore roboante del ‘terremoto’ s’accompagna ai crolli, ai cedimenti, alle crepe che attraversano i muri che si sgretolano come sabbia al vento; mentre il suo boato è causa di sbigottimento e paura che, almeno stando alle cronache si ripete con gli stessi effetti disastrosi sugli esseri umani in ogni parte del mondo in cui esso si verifica. Su tutto ci sono oggi i reportage e i commenti che circolano sulla carta stampata e sugli schermi TV che permettono un resoconto in tempo reale di quanto intorno è inaspettatamente cancellato alla vista, e le registrazioni verbali dei sopravvissuti che sull’eco del rombo sismico fanno sentire le loro ‘voci’ accorate, in via di cancellazione dal lessico della memoria.
Certamente di interesse antropologico è il substrato della coscienza sociale cosiddetta ‘di specie’ che s’intreccia con lo studio dell’evoluzione umana (anamnesi di famiglia, DNA, ecc.), che col passare del tempo è andata acquisendo valore di capitale mnemonico importantissimo per lo studio del formarsi nell’identità individuale e/o collettiva di quel ‘paesaggio dell’anima’ che si delinea a livello introspettivo. Non è affatto strano che da questo punto di vista pur rappresentativo della consuetudine di usanze entrate nella tradizione, la singola ‘identità’, esca in qualche modo arricchita dall’esperienza del ‘terremoto’, almeno per la parte che gli concerne. Cioè nell’identificazione di uno ‘spazio’ materiale e/o simbolico cosiddetto ‘luogo della memoria’, nel quale è attivo un processo di produzione di ‘senso’ che, facendo leva sulla continuità col passato, lo rinsalda e funzionalizza alle esigenze del presente senza stravolgere la quieta consuetudine dell’ordine delle cose.
Anche la sociologia gioca qui un suo ruolo importantissimo, onde rileva realtà diverse di un concetto fluido (oggi diremmo liquido) che si intrecciano a formare un’unica ‘identità’ modellata non solo sul ‘vissuto’ personale e di gruppo, ma anche sulla storia biologica degli esseri umani. Vissuto che trasforma un sito (amato, cancellato, dismesso, tragicamente ricordato), in un ‘‘luogo’ della memoria’: sia esso un monumento, un evento storico o un anniversario; una cerimonia, uno sventolare di bandiere e canzoni, oppure la narrazione di leggende e racconti o l’enunciazione di poesie e filastrocche, il cui soggiornare nella memoria, da forma a uno ‘spazio simbolico’ di riferimento, avente significato e/o un valore di mero riconoscimento all’interno della tradizione. Come ad esempio, un luogo di elezione familiare e/o abitativo che sa di focolare acceso, dell’odore del pane appena sfornato, del profumo di bucato dei panni stesi al sole, delle grida allegre dei bambini che giocano nei cortili, degli sguardi severi sui volti dei vecchi seduti all’aperto che, discutendo fra loro, dimenticano le brutture del passato, per allentare le tensioni del presente che incombe.
Come anche del non parlare delle paure ‘inattese’ e delle lacrime ‘amare’ versate perché non fanno rumore, e di tutti quei ricordi che l’evento sismico improvvisamente ha cancellato, quasi non fossero mai stati. Insieme alle cose materiali che (e il dubbio viene) sembrano soltanto ‘sognate’ all’interno di quel ‘mondo interiore’ costruito sul parlare comune, di ‘verità’ spesso sconosciute che non hanno più ragione di essere. E che pure permette di entrare in contatto con eventi precedenti seguendo le tracce che esse hanno lasciato nella loro mente, per convinzione e/o per convincimento, per cui i nessi causali fra le esperienze fatte e i ricordi del presente formano un ponte con il passato. Come anche suggerisce Umberto Eco (15): “Questo intrico di memoria individuale e collettiva che allunga la nostra vita, sia pure all’indietro, e ci fa balenare davanti agli occhi della mente, una promessa di immortalità”.
Come anche ha sottolineato Paul Ricoeur (16), la problematica della ‘memoria’ incrocia quella dell’ ‘identità’ tanto a livello collettivo quanto individuale: “Il cuore del problema è la mobilitazione della memoria al servizio della richiesta della rivendicazione di identità”; in quanto tra memoria e identità esiste un legame forte per cui le ragioni di debolezza e vulnerabilità dell’una, vanno ricercate nella fragilità dell’altra in cui la ‘memoria’ rappresenta la “componente temporale dell’identità”, che permette a quest’ultima di risollevare il difficile rapporto con il ‘tempo che passa’ e di proiettarsi verso il ‘tempo a venire’. In pieno accordo con quanto rileva Paola Massa (17) che infatti fa ricorso a come: “Nella dialettica tra passato e futuro, tra ciò che è stato e potrà essere, i luoghi di memoria si costituiscono come universo di simboli nel quale l’intento di conservazione della memoria storica collettiva coincide con il progetto di fondazione dell’identità culturale della collettività stessa”.
Tempo che improvvisamente deflagra, perché un inaspettato assordante silenzio, “che è difficile da descrivere”, lo scardina nel profondo, spesso arrivando fino a soppiantare la ‘memoria civile e sociale’ di un’intera realtà territoriale, contadina e industriale come quella della Bassa che nella conservazione del territorio e delle tradizioni popolari, riponeva una certa ‘continuità’ affettiva della ‘memoria’. Almeno stando a Pierre Nora (18), per il quale: “I luoghi della memoria, non sono ciò di cui ci si ricorda, ma il ‘dove’ in cui la memoria lavora; non la tradizione stessa, ma il suo laboratorio”, configurando così una topografia simbolica che, anche se non sempre coincide con il ricordo, viene costruita e talvolta inventata attraverso la ‘memoria’ e costituisce il prodotto di un processo di elaborazione del ricordo nell’oblio, consentendo all’anima un minimo di introversione.
Processo che almeno sul piano collettivo e/o comunitario è consapevolmente gestito e guidato da determinati gruppi sociali (clan, gruppi societari, consorsi familiari, banche locali e altri) che si muovono relativamente alle proprie disponibilità economiche e di mezzi, e si riorganizzano sul territorio per recuperare parte del ‘passato di memoria’ (palazzi, scuole, ospedali, cimiteri, monumenti, ecc.) che servono alla ripresa della vita sociale e civile dei sopravvissuti al fine di restituire loro una qualche ‘identità’ e una forma di vita decorosa. La stessa che fino a ieri pure assicurava una qualche continuità di sussistenza (affetti, casa, lavoro, identità ecc.), e che si ritrovano oggi a vivere un presente indeterminato, cosparso di ‘paura’ e di ‘dolore’, a fronte di un futuro presumibile di precarietà. “Esiste infatti una geometria del silenzio – scrive ancora Pierre Nora (19) – che penetra come una linea retta e che talvolta respinge, come una linea convessa, tutto quello che incontra..”, e che si delinea con rigore razionale, solo in quanto referente di un passato di conservazione della tradizione.

Della paura e del dolore.

Se consideriamo la ‘paura’ un riflesso dominato dall’impulso riflessivo e/o istintivo che irrompe ogni qual volta si presenta un condizionamento della libertà e/o incolumità a causa di una reale situazione di pericolo, come nel caso del ‘terremoto’ oggetto di questa trattazione, ècco subentrare nell’individuo una certa difficoltà di reazione che sfocia nell’istintiva protezione del proprio corpo e/o la ricerca di aiuto per se stesso e per gli altri (familiari, parenti, amici ecc.). Ciò provoca la successiva modifica delle azioni comportamentali che interagendo sui circuiti ‘emozionali’ del cervello, trasformano la ‘causa’ in ‘effetto’ dando luogo ad altrettante patologie psicologiche più o meno permanenti come: ansia, panico, timore, insicurezza, che sono vissute con profondo disagio dagli individui toccati dal sisma.
Disagio che talvolta diventa autentico malessere che lascia l’individuo nello sconsolato ‘abbandono’ delle proprie forze, inibendo ogni suo atteggiamento oggettivo, in quanto agisce sullo stato intimistico e/o egoistico dell’individuo mettendo a repentaglio le sue già precarie difese psico-fisiche al di là di tutte le convenienze, i calcoli e le forti negatività esperienziali che, se ripetute, portano alla destrutturazione dell’‘identità’ costruita con sacrificio d’intenti, e che di per sé è incommensurabile e causa di maggior ‘dolore’. Identità che nel pensiero metodologico ‘liquido-moderno’ innescato dal sociologo Zigmunt Bauman (20), asseconda la ‘paura’ e ne sviscera i diversi aspetti originali: (paura della morte, orrore del male ecc.); arrivando fino alla dinamica d’uso (volontà intrinseca, necessità della paura); alla ripugnanza per l’ingestibile (precarietà e insicurezza come derivati della paura) e oltre, fino al terrore globale (problematicità e catastrofismo insito nella paura).
Finanche a giungere, nella sua efficace analisi, a proporre ‘rimedi’ o, perlomeno, precauzioni e suggerimenti per affrontare la ‘paura’ più diffusa, che egli ritiene nata e alimentata dalla nostra costante insicurezza, e cioè “la paura di avere paura”, come appunto osserva: “..la vita liquida è quella che scorre fluida, o si trascina, da una sfida all’altra, da un episodio all’altro, (..) mentre i pericoli che innescano le paure hanno finito per apparire compagni permanenti e ‘inseparabili’ della vita umana anche quando si sospetta che nessuno di essi sia ‘insormontabile’. (..) Pertanto, abbiamo “..ragione di considerare le probabilità negative troppo alte per giustificare la misura rischiosa, o troppo basse per dissuaderci dal correre il rischio” di combatterle, per altro evidenziando il paradosso di una “conclusione provvisoria per chi si chieda che fare”. (21).
Tuttavia lo schema cui Bauman affida le possibilità di una risoluzione della ‘paura’, non è dimostrativo, bensì ‘conoscitivo’, in quanto discopre alla ragione quanto c’è nel substrato umano di tipo psicologico, le cui certezze sono messe a rischio dal continuo mutare delle ‘paure’ cui l’individuo va soggetto: dal ‘millenium bag’ alla febbre ‘aviaria’ o la ‘mucca pazza’; dalla minaccia del ‘buco nell’ozono’ alla ‘sofisticazione alimentare’ o la ‘guerra batteriologica’ la cui capacità distruttiva potrebbe mettere a dura prova la sopravvivenza umana definitivamente. Sebbene queste siano solo le grandi calamità più o meno denunciate che riportano alle apocalissi bibliche di là da venire, in verità, non c’è nulla di ‘apocalittico’ nel suo dire, se non che ci mette di fronte alle ‘paure’ cui andiamo incontro, riguardanti il presente e la capacità di ‘sopravvivenza’ economico-sociale, culturale e politica che reclamano a gran voce un futuro degno di fiducia.
Dobbiamo notare che la ‘calcolabilità’ (di rischio) non significa prevedibilità, ciò che si calcola è solo la ‘probabilità’ che le cose vadano davvero male e che sopraggiunga il diluvio finale, mettendo in luce un aspetto della ‘paura’ tutt’ora sotterraneo, scaturito dalla sindrome spaventosa della ‘catastrofe personale’ per cui si teme di essere presi ‘a bersaglio’, di essere personalmente distrutti “..per essere lasciati indietro, di essere (definitivamente) esclusi”. I riferimenti sono per lo più imputati alle nostre ‘paure’ quotidiane, ma ciò non sorprende – lascia intendere ancora Bauman (22): “..possiamo preoccuparci solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare, (..) prosperando sulla speranza / aspettativa / fiducia che, grazie alla continuità tra il presente e il futuro, farà la differenza, e determinerà la forma del futuro.”
Un aforisma che mi sento di cogliere in Bauman è il seguente: “L’incomprensibile è diventato normale. (..) Irreparabile.. irrimediabile.. irreversibile.. irrevocabile.. senza appello.. il punto di non ritorno.. il definitivo.. l’ultimo.. la «fine di tutto». Esiste uno e uno solo evento cui si possano attribuire a pieno titolo tutte queste qualificazioni nessuna esclusa. (..) Quell’evento è la ‘morte’. (..) La morte incute paura per via di quella sua qualità diversa da ogni altra: la qualità di rendere ogni altra qualità non più superabile. (..) È per questa ragione che la morte è destinata a restare incomprensibile a chi vive, e anzi non ha rivali quando si tratta di tracciare un limite realmente invalicabile per l’immaginazione umana. L’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo.” (23)
“L’endemico nella morte sta nella personificazione dell’ ‘ignoto’, l’unico tra tutti gli ignoti che sia pienamente e veramente ‘inconoscibile’.” Con ciò il sociologo sembra voler contrastare e/o neutralizzare, la ‘paura’ che non viene con l’arrivo della morte, bensì che trasuda dalla consapevolezza che sicuramente prima o poi essa arriverà. Per poi spingersi oltre, e spezzare una lancia in favore di questa umanità defraudata della speranza, scolpendo una sua frase sulla dura pietra della filosofia: “Soltanto noi uomini sappiamo che la morte è inevitabile (sebbene non ce ne facciamo una ragione), e siamo alle prese con il compito tremendo di sopravvivere all’acquisizione di tale consapevolezza, con il compito di vivere con – e nonostante – la nozione dell’inevitabilità della morte”. (24)
Per la stessa ragione, come scrive Maurice Blanchot (25) che: “..l’uomo non è a conoscenza della morte solo in quanto uomo, ma piuttosto è uomo solo in quanto è morte nel divenire”. E questo è esattamente l’operato del sociologo che è in lui, ‘decodificare’ ciò che in filosofia è criptico e incomprensibile alla globalità; far affiorare e gestire le ‘paure’ antropologiche legate a origini animistiche e superstiziose occultate dal pensiero ermetico, volutamente oscuro, impenetrabile e imperscrutabile, allo scopo di rendere l’umanità consapevole del proprio esistere, del proprio abitare su questa terra, cioè: “..rendere possibile vivere nell’inevitabilità della morte”, considerando la ‘paura della morte’ non come metafora di se stessa, bensì in ciò che C. G. Jung (26) nella sua infinita ricerca e con grandissimo acume ha trasformato in ‘archetipo’ originario, modello stesso di vita.
“La cognizione del dolore” (27), titolo del romanzo di C. E. Gadda, bene si attaglia al ‘senso’ che qui si vuole dare alla sofferenza angosciosa che segue al dispiacere per la perdita dei propri cari e comunque degli affetti cui un individuo e/o una collettività è legata per tradizione. Vuoi per attaccamento dovuto alla familiarità, all’ereditarietà o al costume; vuoi per condizione umana verso la propria gente, il proprio territorio e il luogo di nascita, così come verso i ‘valori affettivi’ aggiunti che permettono di ricordare i momenti salienti e forse migliori d’ogni singola vita. Ciò nonostante un’ulteriore riflessione si rende qui necessaria, e ancora una volta concentrata sull’evento sismico, che riguarda sia la componente percettiva ed esperienziale del ‘dolore’ di tipo psico-fisico (razionale); sia quella prettamente psico-filosofica (irrazionale) messa in campo come reazione alla ‘sofferenza intellettiva’, all’unico scopo di discriminarne l’intensità a livello cerebrale, cioè spostando il ‘centro’ di provenienza dello stimolo pregiudizievole alla più determinata dimensione cognitivo-emozionale, trasferendo le esperienze negative del passato ai fattori benefici della creatività odierna.
Una risposta empatica che ripropone l’individuo bisognoso delle necessità più elementari, sul piano della combattività per la sopravvivenza, concedendogli un potere immenso di trasformazione come investimento di futura continuità, per alcuni, non meno importante del cibo e dell’acqua per il proprio sostentamento. Il riferimento alla ‘cultura’ è lapalissiano in quanto la ‘conoscenza’ di un individuo e/o di una collettività, esercita un ruolo cruciale nell’era della competizione globale per continuare a vivere il presente e immaginare il proprio futuro. Una risposta reagente che esamina l’esperienza del ‘dolore’ fisiologico come sintomo vitale/esistenziale di difesa, atto a promuovere e accrescere quelle potenzialità individuali che, in qualche modo, contribuiscono a migliorare la qualità della vita. Risposta che sa di mera consolazione e tuttavia sorprendente della natura umana, proprio perché rende possibile la speranza e il possibile ritorno alla felicità. Si dice che il dolore sia uno dei più profondi maestri di saggezza, uno degli insegnamenti principali che esso impartisce è proprio il riconoscimento della sua importanza nella trama delle cose.
Potenzialità queste, successive all’impatto emozionale dell’evento sismico che oltre a dare risposte comunque spontanee, spingono al maggiore impegno, alla comprensione, alla cooperazione e a un diverso approccio immaginativo e creativo che, messo in campo da rinnovati fattori socialitari e/o culturali, tende a contrastare la perdita dei valori tradizionali. Il cui crollo definitivo comporterebbe nell’individuo un’inquietudine profonda che va considerata nella sua singolare realtà di sofferenza e, più in generale, in quella pluralistica di collettività umana ferita. Soprattutto quando si è messi di fronte a un evento sismico che ancora una volta ha colpito duro, così come ‘dure’, perché fortemente esperienziali, risultano alcune delle poesie incluse in questa antologia che pure risentono della sofferenza se non fisica certamente interiore.
Del resto, da sempre il ‘terremoto’ ha sviluppato di queste forme pseudo-letterarie, poetiche e narrative, tanto negli strati autorevoli e qualificati urbanizzati, quanto fra le popolazioni delle egemonie regionali e contadine e non solo, anche fra i disoccupati e gli emarginati, fra gli emigranti e gli integrati che, al pari degli stanziali delle città, hanno vissuto e, in qualche modo, subito con rassegnazione e paura l’evento sismico, talvolta con maggiore precarietà di altri. In molti casi, infatti, scrittori forse anche improvvisati, testimoniano in questa raccolta la loro presenza con poesie in versi sciolti, per quanto particolarmente efficaci, che nel dolore e nella disperazione, pur riflettono di una condotta consapevole della fragilità umana, a conferma di una ‘speranza di vita’ che non è mai venuta meno …

“..perché anche il dolore è vita”. (Valerio Zurlini)

(prosegue)







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