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Il crollo anchilosato di una cosa

di Maria Grazia Calandrone (Biografia)

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 25/11/2012 18:35:05

(dialogo tra sconosciute)

 

 

Resta un buco nerissimo nel tempo – un vestito di polvere

e catrame, lo stacco da terra

del tallone di lei quando voltava tra schiamazzi erbacei di terriccia – resta come un mucchietto di cenere

il gesto che faceva – il suo piccolo corpo chinato

e corale, ritagliato seguendo il disegno del gesso

sulla stoffa azzurra

del cielo che sta sopra le campagne e conosciamo

perché al fondo di tutta la distrazione c'è quella

immensità, quel pettinarsi

e basta.

 

Resta il dubbio su come muovesse spontaneamente le mani – come un corpo

maturato nella stazione eretta benché porti un peso: la fronte

resa complessa da una lunga opera

di adattamento; poi

scavalcava la finestra per tirar dietro alla palla (International) nello spazio 

preciso e smagliante – dopo tre soli-giorni

di bel tempo: un triangolo d’alberi e in fondo

alla polveriera delle ginestre

la montagna del corpo della madre, quello

che di un essere umano la luce arriva a toccare.

 

Annina (la madre, una cosa poco oscura):

Se resto in casa lei mi sente vicina. Lascio entrare la luce del suo destino

dalle finestre, abito

nelle cose come nell’innocenza

di una visione, inclino

il mio corpo a una parte felice: appoggiata al suo braccio.

 

Certe mattine scendo insieme a lei

fino al mercato – non comperiamo

niente, noi siamo sopraffatte dai colori

e dagli odori complicati che si fanno

dove gli esseri fisici si radunano. Ma piuttosto resisto fino alla luce piuttosto resto

a ponente

nella sera che tornerai davvero: come nei compleanni primitivi

il marchio lancinante del paradiso – una cosa che illumina all'indietro

la lunghezza del corpo. Tendo le mani

perché pietà!

hai, di questo morto

dialetto di scimmia.

 

Io sono il giorno anzi l'istante adriatico

del giorno nel quale ho accompagnato con lo sguardo

la salute felina della sua figura

che elargita e radiosa si allontanava dentro

la chiacchiera rapida e sediziosa dei pettirossi fuori dal mondo (in una sera

più grande del mondo: io

senza io

né mondo) portando l’insonnia e la costruzione di una campagna verosimile molto lontana dal mio congenito

sporgermi verso.

 

Angela (la figlia, piuttosto da lontano – sullo sfondo):

C’è questa donna che mi fa regali

nel sonno come fossi una bambina, qualcosa che sta

al mondo come un piccolo calore: lei

mi rincorre, mi fa ridere

di quel riso alfabetico e armonioso di tutti gli altri bimbi cittadini.

Quando sono malata – in quella strana lingua

zodiacale – mi dice cose che non mi aveva detto la mia stessa madre. Poi

siamo insieme sulla sabbia salata

come due impalcature: zitte – vicine.

 

Sentiva sempre la bambina piangere – dal coma – dallo sfascio

vertebrale – cantava

essenzialmente, per calmarla – il suo canto incosciente

dissaldava

l’armatura di ogni lontananza.

 

Annina:

Penso che la sua mano sia spiccia e docile come una nocciola.

Il suo sonno è uno strappo: vento!, vento... – o brace delle origini

sul bucato, il fresco di una lingua da poco

riappresa – un mattino che sono

torturata dalla gioia di essere viva come questo capello

da cent'anni in disordine sulla mia spalla – questo fenomeno

vitale del tuo corpo che mi fa dire bentornata Angelina: ecco il mio corpo: quello

che della luce un essere umano arriva a toccare.

 

Angela:

Il punto di riferimento dei miei sogni è una montagna, un corpo

grande che scivola

lungo i fusti delle ginestre sotto una pioviggine di limpidezza

fotografica e allenta il terreno – spiega

l’ispirazione imprecisa e accorata delle spighe al cielo. Se ne sente

l'investitura pittorica: un complesso sensibile

una smagliante

lacerazione lenta come un’anima che non vuole andarsene

dal corpo. Poi c’è qualcuno

che mi prende per mano e io senza volere

dico mamma – poi

mi vergogno, ma tocco la sua mano e conosco che è uguale

e riguarda il mio viso.

 

Per qualche tempo la bambina manifestò comportamenti ombrosi:

facevamo il suo nome

come un sordo invocare di bestia nel crepuscolo

dai crepacci di fresco delle finestre – perché si addormentava

oltre i campi adattati al sereno

temperamento delle bufale – severi e bianchi

di bontà e amarezza dalla parte che toccano il cielo

e dunque sembrano restare appesi

per le cime all'infarto celeste

o andare incontro a una morìa d'azzurro

nella brodosa calamità della zolla: cadeva a terra come

a una chiamata – e dentro il nero pareva

tacere senza confine o finalmente

ridere: l’animale materno

piegava in un assenso

uguale a terra e cielo. Gli sconosciuti

si conoscono in sogno perché emerge una terra senza risacca

dal loro volto e il corpo ha una lontananza

calpestabile e arde fino al mare. Noi pensavamo quello

che non la scempia la solleva. Ed è andata così.

 

Annina: Mai!

ti ho lasciata, ho bloccato il teatro della vita

a quand’eri vicina: la testa

diritta e in tutto il corpo la musica di un carapace che abbandona il mare. Avevo superato ogni interesse: ero

calda e santa.

 

Angela: Eccomi,

sono di fronte come un quadro, vorrei che si capisse

dove il corpo diventa

pietra e in quale spacco della pietra posi

l’anello: il tempo quasi

richiuso, la goccia

dell'istante che quadra. Eccomi: ora dichiarami

la mia esistenza.

 

Annina: questa no, non è questa

la mia bambina, non mi scherzate

perché sono vecchia: quando torna farò

molta attenzione. Sarà pronto l'olfatto, l'acume

terra-cielo della vista (ci vuole

una vista per l'erba e una per l'istante

del distacco) e il rigore

splendido della mente: Angelina

– stavolta al campo ti accompagna mamma.

 

25 giugno 2004

 

Storia liberamente tratta dalla trasmissione televisiva "Chi l'ha visto":

Annina, madre di Angela, una bimba di nove anni, viene percossa e mandata in coma dal marito. Si sveglia "incapace di intendere e volere" e la bambina viene data in adozione. La mamma invoca invano la figlia per trent'anni. Dopo trent'anni le due donne sono una di fronte all'altra e la mamma non riconosce in quella donna adulta la sua bambina.

 

 

[ Testo tratto da Fuori dal cielo, Empiria


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