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Il libretto d’istruzioni

di John Ashbery 

Proposta di Pietro Menditto »

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Pubblicato il 31/12/2012 17:53:18

Il libretto d’istruzioni

da John Ashbery, Un mondo che non può essere migliore Poesie scelte 1956-2007,

Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan, Luca Sossella Editore, ©2008

 

***************************************************

 

Seduto a guardare da una finestra del palazzo

vorrei non dover scrivere il libretto d’istruzioni

per l’impiego di un nuovo metallo.

Guardo giù per strada e vedo persone,

ciascuna si muove con armonia interiore,

e le invidio – sono così lontane da me!

Nessuno di loro deve preoccuparsi di licenziare

questo libretto per tempo.

E, secondo la mia indole, comincio a sognare,

gomiti sulla scrivania e un poco sporto dalla finestra,

la vaga Guadalajara! La città dei fiori rosa!

La città che più volevo vedere e più non ho visto in Messico!

Mi immagino di vedere, sotto il torchio del dover scrivere il libretto d’istruzioni,

la tua pubblica piazza, città, con l’arzigogolato gazebo per l’orchestra!

L’orchestra esegue Sherazade di Rimsky-Korsakov.

Attorno stanno le giovani fioraie, distribuiscono fiori color rosa e limone,

ciascuna affascinante nell’abitino a righe rosa e azzurre.

(Oh! Che sfumature di rosa e azzurro),

e lì vicino c’è il chioschetto bianco dove donne

verde-vestite vi servono frutti gialloverdi.

Le coppie sfilano; in tutti c’è uno spirito di festa.

Per primo, in testa al défilé, c’è un giovane azzimato

in completo blu. In testa gli sta un cappello bianco

e porta i baffi, tagliati per l’occasione.

La sua bella, la moglie, è giovane e carina;

ha uno scialle rosa, carnato e bianco.

Le scarpette sono di coppale, alla moda americana,

e lei ha un ventaglio, perché è pudica e non vuole

che la gente le veda il volto troppo spesso.

 

Ma tutti sono tanto intenti alla moglie o all’amata

che dubito noterebbero la moglie del baffuto.

Ed ecco i ragazzini! Saltellano e gettano cosucce sul marciapiede

lastricato di formelle grigie. Uno, un po’ più grande,

ha uno stecchino tra i denti.

E’ più silenzioso degli altri, e ostenta

di non notare le ragazze carine in bianco.

Ma gli amici le notano, e lanciano lazzi

alle ragazze che ridacchiano.

Eppure tra poco tutto ciò cesserà, con l’incupirsi dei loro anni,

e l’amore che li porterà a sfilare sul corso per un motivo diverso.

Ma io ho perso di vista il giovincello con lo stuzzicadenti.

Aspettate – eccolo – oltre il gazebo,

appartatosi dagli amici parla serio con una fanciulla

di quattordici o quindici anni. Cerco di ascoltare cosa dicono

pare stiano solo mormorando qualcosa

– parole timide d'amore, probabilmente.

Lei è un po' più alta, e abbassa calma lo sguardo

agli occhi sinceri di lui.

E’ vestita di bianco. La brezza le scompiglia

sulle guance olivastre i lunghi capelli neri sottili.

E’ chiaro che è innamorata. Il ragazzo, il giovincello

con lo stecchino, è innamorato anche lui;

lo dicono gli occhi. Distogliendo lo sguardo dalla coppia

mi accorgo che siamo all'intervallo del concerto.

Chi passeggiava riposa e sorseggia bibite con la cannuccia

(le bibite le dispensa da una gran brocca di vetro una signora in blu),

e i suonatori nelle uniformi bianco panna si uniscono a loro e parlano

del tempo, forse, o di come vanno i figli a scuola.

 

Sfruttiamo l'occasione per infilarci in punta di piedi in una strada adiacente.

Qui si può vedere una delle case bianche con le decorazioni verdi

che sono così in voga qui. Guardate – ve l'avevo detto!

E’ fresco e ombroso dentro, ma il patio è soleggiato.

Un’anziana in grigio è lì seduta, si sventaglia con una foglia di palma.

Ci invita nel patio e ci offre una bevanda rinfrescante.

“Mio figlio è a Città del Messico", dice. "Anche lui vi avrebbe invitato

se fossestato qui. Ma lavora là, in banca.

Guardate, questo è lui in fotografia".

E’ un giovanotto di pelle scura, denti perlacei,

ci elargisce un sorriso dalla cornice di cuoio consunto.

La ringraziamo per l'ospitalità perché si sta facendo tardi

e noi dobbiamo cogliere una veduta della città,

prima che ce ne andiamo, da un buon punto panoramico.

Il campanile va benone – quello non sbiadito,

sull’intenso blu del cielo. Entriamo adagio.

Il sagrestano, un vecchio vestito di marrone e grigio,

ci chiede da quanto siamo in città, e se ci piace.

La figlia passa lo strofinaccio sulle scale

– ci saluta con un cenno mentre ci avviamo al campanile.

Ben presto siamo in cima, e l’intera trama della città si stende davanti a noi.

C’è il quartiere ricco, con le case bianco-rosa

dalle terrazze frondose che si sbriciolano.

C’è il quartiere più povero di case blu.

C’è il mercato, dove uomini vendono cappelli e spiaccicano mosche

e c’è la biblioteca pubblica, dipinta in diverse sfumature

di verde pallido e beige.

Guardate! Ecco la piazza da cui siamo appena venuti,

con la gente che passeggia.

 

Ce n’è di meno adesso che la calura del giorno è più intensa,

ma il giovincello e la fanciulla ancora si riparano tra le ombre del gazebo.

E là c’è la casa della minuta signora anziana –

è ancora lì seduta nel patio, e si sventaglia.

Quanto è stata limitata, ma nondimeno completa,

la nostra conoscenza di Guadalajara!

Abbiamo visto l’amore giovane, l’amore coniugale,

e l’amore di una madre anziana per il figlio.

Abbiamo ascoltato la musica, sorseggiato le bibite e visto le case multicolori.

Che altro c’è da fare lì, se non restare? E non possiamo.

E mentre un’ultima brezza rinfresca la cima dell’antico campanile

consumato dalle intemperie, volgo lo sguardo

di nuovo al libretto d’istruzioni che mi ha fatto sognare Gua


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