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L’ultima cleopatra

di Angelo Cremonesi
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Pubblicato il 09/12/2014 17:49:53

“La mia Cleopatra!”, “La mia Cleopatra!”.
Il vecchio lo andava ripetendo ormai da più di mezzora, inginocchiato ai piedi della 'dormeuse'. Dove completamente nuda stava Gina la bella, semi-sdraiata, il gomito appoggiato sul raso, e la guancia adagiata sul palmo della mano. Gli occhi guardavano adoranti il vecchio adorante e, di tanto in tanto, l'orologio a cucù.
Si aprì la porta ed entrò Menica la servente: “La mezzora è finita, professore! Vuole continuare?”
Il vecchio, risvegliatosi dal sogno, con gli occhi al pavimento, senza rispondere uscì dalla stanza, mentre Menica porgeva alla bella Gina un catino pieno d'acqua. “Lascia stare, Menica. Non serve. Quando c'è lui, non serve”. “Già – commentò Menica – mica come quel giovane dell'altra sera, che ce n'è voluta per pulire!”. “Suvvia, Menica. Era la sua prima volta. E a quell'età non ti controlli”.
“Eh! Sai quanti ne ho visti, quando anche io avevo l'età per battagliare? Tutti così, iniziano al bordello a vent'anni e tornano al bordello a settanta. E in mezzo cinquantanni di illusioni! Tutti così! Tutti così!”. Dopo lo sfogo, Menica prese il catino ed uscì.
Il professor Arioldi era stato un bravo egittologo quando l'egittologia era già da tempo passata di moda. Si era quindi adattato a insegnare storia antica in vari licei della regione, finché non si accasò in quel paesotto ad un tiro di schioppo dal liceo. Non ebbe figli. Ebbe però quattro mogli. Nessuna delle quali arrivò a festeggiare il decimo anniversario. Erano tutte di buone sostanze. Così, alla tenera età di settantadue anni, poteva vantare una discreta fortuna, oltre alla sua misera pensione. Ciò gli permetteva di frequentare con una certa assiduità il bordello e, in quanto vedovo, di essere benaccetto in chiesa.
Un giorno arrivò in quella 'casa' perbene una nuova giovane a fare la “quindicina”, e lui la notò. Più per il naso importante che per le forme giunoniche.
Cominciò a frequentarla e a richiederle quella particolare prestazione e, col tempo, lei gli si era come affezionata. Tanto che quando, per gli acciacchi dovuti all'età, non si vedeva chiedeva di lui, e lui le mandava dei fiori.
Per qualche tempo tutto rimase all'interno della 'casa'; ma Menica, che aveva anche il compito di riempire la dispensa, ne parlò confidenzialmente dapprima col macellaio, poi col panettiere e infine persino col vinattiere: di piatto in piatto e di bicchiere in bicchiere, quella faccenda della Cleopatra fu sulla bocca di tutti in meno di un giro d'orologio.
Una Domenica, ad un'ora per lui insolita, il professor Arioldi suonò il campanello della 'casa'. Aveva in mano un mazzo di crisantemi non troppo freschi. Una volta entrato, annunciato da Menica, si precipitò nella stanza della 'sua' Cleopatra e, offrendole i fiori, pronunciò difilato una serie di frasi sconnesse che terminarono con: ‑ ...Sono certo che, date queste premesse, accetterete senzaltro...‑ rimanendo poi in silenzio, con la bocca semiaperta, in attesa del suo assenso.
Si trattava di una richiesta di matrimonio maturata mentre se ne andava mesto a portare crisantemi sulle tombe delle altre quattro cleopatre. Nel timore che svanisse il coraggio, si precipitò da lei con quel bizzarro bouquet.
Gina la bella guardò Menica. Menica guardò Cleopatra. Ed entrambe guardarono il professore come se avessero vinto al lotto.
Il professore prese in affitto un quartierino in una strada tranquilla, dove andarono ad abitare le due donne “...Per non urtare la suscettibilità di nessuno. Sapete com'è...”
I preparativi furono frenetici. “Perché non si sa mai...” sussurrava Gina a Menica, volgendo gli occhi al cielo.
Finalmente, un mattino di tarda primavera il professor Arioldi impalmava la sua Cleopatra biancovestita nella chiesa grande strapiena di curiosi. Testimone della sposa, la fedele Menica; testimone dello sposo, un vecchio amico e compagno d'università: il professor Caino Ammazzasperanza.
In chiesa il pubblico si era diviso in due: dal lato dello sposo le signore che, dopo aver spettegolato per settimane sull'età dello sposo e sul 'mestiere' della sposa, ora potevano parlare anche del vestito 'demodé' dello sposo, dell'abito troppo attillato della sposa (ma, soprattutto, del naso di quella Cleopatra). Dal lato della sposa, gli uomini che, in religioso silenzio, sorvolato il naso, da persone prudenti quali erano, scesero con gli occhi lungo quelle curve pericolose molto, molto lentamente, rendendo inutile il paziente lavoro della sarta che aveva cercato di nasconderle: speravano che per miracolo l'abito esplodesse, mostrando ciò che tutti, in raccoglimento, stavano immaginando.
Delusi gli uni e le altre, la cerimonia terminò e la signora Arioldi poté baciare lo sposo, e lo fece in un modo che non lasciò alcun dubbio sulla sua passata professione.



L'Estate stava terminando e la signora Arioldi pensava a come raccogliere il frutto della semina prima che l'Autunno fosse troppo inoltrato. Pensò dapprima a una forte dose di calomelano (ma come procurarselo?). Poi pensò a qualcosa di più potente, magari il cianuro. Ma anche in questo caso i rischi erano troppi.
Le venne in aiuto Menica: perché non usava ciò che sapeva fare meglio?
Fu così che consultarono fior di medici nei paesi vicini (e perfino in città) sul come resuscitare un morto: 'quel' morto.
I luminari rispondevano tutti, ciascuno a modo suo, che la natura fa il suo corso e che non si può andare oltre i suoi limiti.
Quando già avevano persa ogni speranza di risolvere la faccenda in modo naturale, s'imbatterono in una targa posta presso l'androne di una vecchia casa, dove si erano fermate per ripararsi dal sole: 'dott. *** Specialista in malattie veneree'.
‑ Proviamo? – disse Menica.
‑ Proviamo ‑ rispose Gina, ‑ E' quello che si avvicina di più ­‑aggiunse.
All'uscita portavano con loro una scatoletta per pasticche contenente della 'polverina bianca del Sudamerica'.
Una sera, prima di coricarsi, prendendo a scusa il mal di testa del marito, Cleopatra gli suggerì di aspirare con forza quella polverina che aveva avuto da quel giovane medico “al quale ho parlato del tuo mal di testa, amore”. Il vecchio, dopo aver messo la dentiera nel bicchiere pieno d'acqua, accettò il suggerimento ed aspirò con forza più e più volte la polverina contro il mal di testa.
Quando alzò lo sguardo verso la moglie, la vide nuda stesa sulla dormeuse mentre lo guardava voluttuosamente. Qualcosa di miracoloso avvenne pochi secondi dopo. Gli parve di essere tornato ventenne: col cuore in gola balzò su di lei. Per la prima volta dopo molti anni tornava a sentirsi un uomo. Il cuore gli batteva forte forte. In poco tempo giunse al culmine del piacere. E, proprio mentre stava per accasciarsi esausto e felice, il cuore lo abbandonò.
‑ Infarto, mia cara signora. Un colpo secco. Con l'età non si scherza! - disse il medico condotto.
Il funerale si snodò per le vie del paese a passo lento lento.
Dinanzi al feretro, il prete parlava con Dio.
Dietro al feretro, la vedova parlava con Menica e col defunto; nelle seconde file si parlava della vedova e del defunto; più dietro ancora, della cospicua eredità; e nelle ultime file si parlava del più e del meno.
Sbrigata la pratica, Gina rientrò a casa, lasciandosi alla spalle il dolore pubblico, dando sfogo alla gioia privata. Afferrò la prima bottiglia che trovò, rosolio, ne versò per sé e per Menica. Dopodiché le due donne si stravaccarono ai due lati della dormeuse, esauste. Gina alzò gli occhi abbracciando con lo sguardo tutto quanto potesse entrarvi. “Tutto questo, e tutto il resto, ora appartiene alla vedova Arioldi: a me!” pensò. Alzò in alto il bicchiere: ‑ Al professor Arioldi buonanima! - disse, e ad un tempo le due donne tracannarono il liquore alla memoria del vecchio puttaniere.
Allo scadere del mese, la vedova Arioldi organizzò una piccola festa per commemorare il professore. Tra gli invitati, il signor sindaco, antico cliente di Gina la bella, e don Cesare, il nuovo giovane parroco, che aveva officiato la veglia e la messa funebre. Terminati i convenevoli, i divani e le sedie erano già tutti occupati. La dormeuse fu una scelta obbligata: là si sedettero, l'uno accanto all'altra, il diavolo e l'acqua santa.
Don Cesare sentì un brivido salirgli lungo la schiena, ed emise un lievissimo sospiro: lo stesso sospiro che emettono le vecchie bigotte accingendosi a sgranare il rosario. A quel segnale inaspettato iniziò un parlottio lamentoso, sommesso e incomprensibile, intercalato da frasi in latino altrettanto incomprensibile, che durò parecchio tempo, un tempo interminabile anche per il parroco, che aveva iniziato a sudare come se portasse un'enorme croce sulle spalle.
Terminato il rosario, Menica passò con il vassoio dei cioccolatini, prima; col vassoio dei biscottini, poi. Infine, venne offerto il tè alle signore e il cordiale agli uomini. Il tutto inframmezzato dai ricordi più o meno veritieri sulle virtù del defunto, evitando con cura ogni accenno alla vedova.
Al momento del commiato, la vedova appariva inconsolabile. Aveva ancora in mano il ritratto del marito, tolto con cura dalla mensola del camino, dove stava appoggiato tra le quattro cleopatre, due di qua e due di là, e ripeteva: ‑Il mio Antonio! Il mio Antonio!
Pregò don Cesare di fermarsi ancora un poco, per un attimo di raccoglimento.
Intanto, al piano di sopra, Menica aveva cambiato le lenzuola.
Il candido don Cesare non poteva immaginare che salendo le scale dell'inferno si sarebbe trovato in paradiso...

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