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Il Forno

di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 05/01/2015 20:06:05

 

Pierre diceva che un sorriso sincero è la più pura delle monete

 

In carrozza
Qualche anno fa mi stavo recando a Bordeaux per risolvere delle questioni con certi vignaioli che avrebbero dovuto fornirmi vino decente ma che da qualche anno si ostinavano a mandarmi barili di aceto, e della qualità più scadente. Mentre tentavo di sonnecchiare per non far caso alle autentiche voragini che, sulla strada, mettevano a dura prova le ruote della carrozza e le zampe dei poveri cavalli, il cocchiere mi annunciò una imprevista sosta a Lamothe-Montravel. Sebbene il motivo della fermata non mi fosse ben chiaro approfittai volentieri per sgranchirmi le gambe e rifocillarmi. La stazione di posta era pulita e ben tenuta, dalle cucine si spandeva un profumo di carni in cottura davvero invitante. Purtroppo però il momento in cui le vivande sarebbero state servite era ancora lontano, per cui l’oste mi offrì una bella baguette appena sfornata ed una brocca di vino per placare i morsi della fame. Visto che la giornata lo permetteva mi accomodai sotto il piccolo porticato antistante la stazione, dal quale si poteva vedere il traffico della strada per Bordeaux, ben poca cosa, in verità, e le vigne che digradavano fino alla Dordogna che scorreva placida fra i campi. Oltre a me si godeva il tepore mattutino un'altra persona, un uomo più o meno della mia età ma evidentemente di più modesta estrazione, almeno a giudicare dall’abbigliamento. Lo sguardo acuto e pensatore invece avrebbe potuto far pensare ad un alchimista, comunque l’uomo era assorto a sbucciare con calma meticolosa una mela. Dopo aver sbocconcellato qualche spicchio del frutto l’uomo mi guardò dritto in viso, poi lo sguardo gli cadde sulla baguette, e uno strano sorriso gli si produsse negli occhi. Essendo stato in esclusiva compagnia di me stesso da lunghe ore avevo voglia di scambiare due parole con qualcuno, per cui mi presentai, in modo meno formale di quanto la mia posizione mi consentisse, tuttavia con un certo orgoglio. L’uomo, a sua volta, sfiorandosi appena il berretto si presentò dicendo: “Jacques, Monsieur, Jacques il fornaio”. Colsi subito l’accento sulla sua professione per profondermi in elogi per la squisita qualità del pane che stavo mangiando. “Non si faccia tante illusioni, Monsieur” tagliò corto Jacques: “Lei non si immagina neanche quanto dolore e quante cose strane vengono mischiate alla farina e all’acqua che servono per sfornare il pane ogni giorno”. La cosa mi insospettì, pensando a chissà quali veleni fossero impastati in un pane tanto delizioso. “Oh no, non parlo di veleni o chissà quali pozioni, ma quanta umanità si consuma armeggiando davanti la bocca di un forno”. La curiosità si stava facendo ormai strada nel mio animo, e spronai Jacques a raccontarmi la sua storia. Egli buttò nel prato le bucce della mela, asciugò il coltello con meticolosa cura, lo richiuse e lo pose nel taschino dei pantaloni, si lisciò un paio di volte la barba con fare pensieroso, si volse verso di me e iniziò il racconto.

 

Racconto di Jacques. I Mercier
Quando avevo 16 anni qua a Lamothe ci fu un anno di carestia, le vigne erano state avare e il tempo ce l’aveva messa tutta per togliere quel poco di raccolto che sarebbe stato lecito aspettarsi, i soldi erano finiti da tempo e le provviste scarseggiavano. I miei decisero di farmi imparare un lavoro che non fosse così esposto ai capricci del clima, così decisero di mandarmi a Bordeaux ad imparare una professione utile. Un lontano prozio aveva sposato la sorella della moglie di un fornaio che aveva bottega a rue Bourbon, poco lontano dal fiume, che avrebbe attutito la nostalgia di casa. Prese le mie poche cose, giunsi a bottega un mattino molto presto per le mie abitudini un orario invece normale per chi faceva il fornaio. Al forno lavoravano marito e moglie, i signori Mercier, presso i quali avevo anche alloggio, una specie di surrogato di famiglia. Il marito, Pierre, si occupava di impastare e cuocere pane e croissants, mentre la moglie, Annette, si occupava di tutto il resto, soprattutto della vendita dei prodotti. Compito che le risultava assai facile vista la leggendaria qualità delle cose sfornate da Pierre. Con i Mercier imparai ad amare il lavoro, svolgerlo con diligenza e passione, ma imparai anche ad amare la farina, riconoscere le qualità migliori, evitare i tentativi di truffa da parte dei mugnai e riuscii ben presto a trasmettere l’amore che ricevevo dai Mercier nelle bellissime e friabili baguettes che sfornavo. Spesso Pierre realizzava degli ottimi dolci, o dei pani speciali, che avevamo l’abitudine di condividere dopo il lavoro, sia per rifocillarci, sia per apprezzarne la qualità e trovare il modo di migliorare ciò che facevamo. I clienti erano felici e quasi tutti innamorati della gioviale Annette; i prezzi erano equi, anzi, per i più poveri c’era sempre qualche pagnotta in più che finiva nelle loro borse, quasi di soppiatto, senza attendere un ringraziamento o il pagamento, spesso Pierre diceva che un sorriso sincero è la più pura delle monete. Dopo qualche anno di lavoro sereno, di tante cose imparate, potevo ormai definirmi un bravo fornaio, i Mercier già parlavano di farmi loro socio, o forse di aprire un altro forno più in centro. Ma una brutta notte i sogni si dissolsero, portati via da una improvvisa piena del fiume che allagò il forno e costrinse i Mercier a chiudere bottega, tornarono a Mérignac, loro paese d’origine, e vissero modestamente coi pochi risparmi accumulati in tanti anni di fatiche. So che alcuni vecchi ed affezionati clienti ancora li vanno a trovare con qualche piccolo dono in ricordo dei buonissimi prodotti che quella coppia aveva creato nel corso degli anni, più per il piacere di dare gioia ai clienti che per arricchirsi.

 

Intermezzo
Jacques si interrompe mentre l’oste ci porta due belle razioni di cassoulet ed una caraffa di buon vino. Mentre medito sul racconto appena sentito col pensiero vado anche ai miei vignaioli, che devo incontrare di lì a poco. Jacques inizia a mangiare svogliatamente, gli chiedo se con l’esperienza acquistata coi Mercier trovò un altro forno disposto a dargli lavoro, l’uomo annuisce tristemente e ricomincia a raccontare.

 

Racconto di Jacques. Madame Violette
Dopo qualche giorno a passeggio per le vie di Bordeaux trovai lavoro presso un grande panificio, in una zona più centrale – ed asciutta – della città, vicino alla torre dell’orologio, il forno si chiamava, per via di quella ubicazione Les deux horloges. la proprietaria del forno era una donna segaligna di mezza età, Madame Violette, dai capelli grigi e sempre arruffati, e la voce stentorea, che teneva sempre ad un livello molto alto, sia per sovrastare i rumori del lavoro, sia per affermare la propria autorità. Il lavoro in quel forno era sempre tanto, tutti erano sempre di corsa e affannati per poter soddisfare le pretese di Madame, sempre più esagerate, tuttavia tutti erano molto dediti al lavoro e sia il pane che i dolci che sfornavamo erano sempre di ottima qualità. Va detto che la tirchieria di madame spesso ci poneva di fronte a prodotti veramente scadenti, ma la nostra bravura riusciva sempre a far sì che i clienti fossero pienamente soddisfatti. Non c’era l’atmosfera di calda cordialità che regnava nel forno dei Mercier ma ognuno faceva del suo meglio, i clienti, sebbene assai distratti, o infastiditi dai modi arcigni di Madame Violette, erano soddisfatti e tornavano sempre numerosi. Purtroppo, più il tempo passava, più Madame Violette scivolava verso la follia, i suoi modi erano sempre più scortesi ed ogni sua frase rivolta ai lavoratori era scortese e piena di insulti. La donna sembrava vittima della propria superbia, e i suoi moti e deliri di onnipotenza erano più legati a una amara solitudine che alla necessità reale di far funzionare le cose a dovere. Ci fu un anno in cui il maltempo flagellava le campagne e il raccolto non fu dei più fruttuosi, così che i parenti di noi lavoratori avevano necessità di aiuto e non potevano mandarci in città qualche provvista che di solito ci aiutava a tirare avanti, anche perché i salari che Madame elargiva non erano certo tra i più generosi, malgrado la floridità del commercio. Bisogna dire che Madame teneva molto alla qualità e alla freschezza dei suoi prodotti, così ogni sera tutti i pani rimasti invenduti sugli scaffali venivano caricati su di un carretto e portati ad un porcile fuori città. Quell’anno la fame cominciò a farsi sentire, per cui qualcuno cominciò a sbocconcellare qualche tozzo di pane avanzato prima che venisse gettato ai suini, pensando di non fare nulla di male, in fondo era per riempire un po’ lo stomaco, e i suini di certo non avrebbero risentito della mancanza di qualche baguette o di un croissant in meno. Quando Madame Violette capì che qualche baguette invece che nello stomaco di un maiale finiva nel nostro, non ci vide più dall’ira e dall’odio e cominciò a inveire, preda di una crisi di pazzia, urlando che nessuno, ma proprio nessuno doveva permettersi di mangiare anche una sola briciola di pane e che, sì, preferiva darlo ai maiali o anche buttarlo al fiume piuttosto che lo mangiassimo noi. Tutti erano costernati da questo comportamento assurdo e dissennato, ma ormai la pazzia di Madame aveva rotto gli argini e ogni giorno, con gli occhi iniettati di sangue, intimava a chiunque di non permettersi di mangiare alcunché. Un bel giorno il pane avanzato era davvero tanto. Un garzone, appena arrivato alle dipendenze di Madame, le chiese se poteva mangiare un piccolo pain au chocolat, di cui era particolarmente ghiotto, Madame Violette non ci vide più dall’ira e cominciò a gridare e minacciare tutti di non azzardarsi neanche a pensare di poter mangiare qualcosa, e che piuttosto avrebbe mangiato lei tutto il pane, che era suo e nessuno lo avrebbe toccato, se non lei. Detto fatto cominciò ad ingurgitare grossi bocconi di pane ma, ahimè, nella foga dimenticò di riprendere fiato e con un boccone più grosso degli altri in gola si fece paonazza, cominciò ad annaspare in cerca di ossigeno, ma il cuore già in tumulto per la scenata si fermò.
Noi chiamammo subito i gendarmi e il farmacista ma non ci fu niente da fare, Madame venne caricata sulla carretta, di solito destinata al pane avanzato, e portata al camposanto.
Noi non sapevamo più cosa fare ma ligi al nostro dovere continuammo a sfornare baguettes e dolci, come sempre. Dopo qualche giorno arrivò una giovane donna, che si presentò come Mademoiselle Louise Leduc, di Nantes, unica parente di Madame Violette. Mademoiselle incaricò un notaio di sua fiducia di fare un inventario dei beni di Madame e in breve vendette tutto, diede a ciascuno di noi una bella sommetta e se ne tornò a Nantes, ma prima di salire sul calesse ci salutò con questa frase: “Povera zia Violette, la sua avidità alla fine l’ha uccisa, se avesse seguito il mio consiglio di curarsi quando era in tempo, forse sarebbe ancora al suo posto alla cassa, ma per fortuna il buon Dio non permette che le ricchezze accumulate seguano il proprietario nel suo ultimo viaggio. Ora posso tornare a Nantes come una signora, dimenticherò presto la zia ma non la lezione che ha insegnato a me e a tutti voi. Buona fortuna e che Dio vi liberi dall’ingordigia”. Tutti noi salutammo, col berretto fra le mani, la signorina Louise, quando il calesse ebbe svoltato non ci restò che andarcene, e fu così che tornai a Lamothe-Montravel.

 

Verso Bordeaux
Il pasto stava per finire, così domandai a Jacques se avesse ripreso a fare il fornaio una volta tornato al suo villaggio. “Oh no, Monsieur, ne avevo abbastanza, coi soldi di Mademoiselle presi un orticello che mi dà ancora da vivere. Talvolta insegno a qualcuno come ottenere delle buone baguettes ma non accetto danaro in cambio, al massimo qualche regalo. Non voglio fare la fine di Madame Violette”. Annuendo presi commiato da Jacques, la mia carrozza era ormai pronta e i cavalli scalpitavano per poter riprendere il viaggio.
Grazie al lauto pranzo e al dondolio della carrozza, in breve mi assopii e in sogno mi apparve Madame Violette che si rimpinzava di pane e, come accade nei sogni, accanto a lei c’erano strani personaggi, tra cui i miei vignaioli e il fattore che curava le mie terre e si occupava di inviarmi, dopo ogni raccolto, i barili di quello che inevitabilmente diventava aceto ancor prima di festeggiare il suo primo compleanno. Dopo qualche ora di dormiveglia, agitato da questi fantasmi, giunsi alla mia tenuta dove ad attendermi c’erano il fattore Michel e il maître de cave Simon attorniati da tutti gli altri contadini. Dopo i rituali di accoglienza chiamai Michel e Simon nel mio studio, chiedendo loro di portare una brocca del vino che avevano intenzione di mandarmi quell’anno. Li feci sedere con me e li invitai a berne un sorso. Le loro facce disgustate valsero più di ogni altra frase. Li guardai per alcuni lunghi attimi e li vidi farsi paonazzi, di certo non per la quantità di quel che avevano bevuto, ma per la qualità. Decisi così di far loro questo breve discorso: “Vedete, miei buoni vignaioli, questa tenuta è della mia famiglia da qualche centinaio di anni, ma mai come ora la qualità e la quantità dei vini è stata così deludente. Lo avete visto anche voi, l’avete assaggiato. Io non penso che sia perché voi non sapete fare il vostro lavoro con passione ma perché forse non ne vedete l’utilità. Forse vi immaginate che io nel mio palazzo a Bergerac passi il tempo a scolarmi litri e litri di vino e a voi non lasci che qualche spicciolo e le uve più scadenti”. Forse è così, pensai, mentre dal fondo della memoria Madame Violette mi faceva un cenno ma forse si può cambiare. “Se il vino prodotto da questa vendemmia sarà superiore a quello dell’anno scorso, tutto il vino in più sarà vostro. E, pensate, se la qualità sarà buona, se non addirittura ottima, in fondo abbiamo le migliori vigne della zona, voi potrete vendere il vino che sarà vostro di diritto.”

 

Inutile dire che quell’anno, e quelli seguenti, il vino divenne fra i migliori della zona e se, ancor oggi, il vino con cui si volle in qualche modo ricordare il mio nome, è considerato uno dei migliori al mondo è grazie ad una povera panettiera avida e miope.

 


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