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Rafik e i grandi pani poco cotti

di Antonio Viciani
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Pubblicato il 24/05/2015 22:05:02

 

 L’agente stava in ginocchio e stringeva gli occhi irritati per la mancanza di sonno cercando di capire il francese stentato del bambino. Quello stecchino nero si mangiava le parole come se fossero pane. In piedi accanto ai due un altro agente e l’ispettore–capo aspettavano la traduzione.

– Dice che non voleva scappare, capo. E poi ha detto… bacio – spiegò Angelo rivolgendosi al superiore che lo guardava strano – bacio, sul serio. Non so se ho capito bene ma è tornato da sé, quindi certo non voleva scappare.

– Vedi che questi furbi gli ingenui come te se li mangiano a colazione, Angelo. Sicuro che c’è qualcosa sotto, vedi come sorride? E poi, bacio? Tu sai il francese come io so il coreano, Angelo! Chiedigli come ha fatto a uscire, piuttosto. C’è un buco nella recinzione? – chiese l’assistente–capo al poliziotto. Angelo si alzò, scosse la polvere dai pantaloni e provò a insistere.

– Capo, questo secondo me non ci dice niente e poi cosa cambia? Ce ne saranno mille di varchi nel reticolato, lo sa benissimo, noi possiamo anche continuare a segnalarli ma tanto nessuno li riparerà mai.

– Angelo non fare storie, noi eseguiamo l’ordinanza del Prefetto, fine della storia! Verificare, accertare e fare rapporto, il resto, almeno quello, non tocca a noi. Ora, dai, chiediglielo di nuovo. Che interprete sei se non capisci che dice? – Angelo cercò di ricordarsi che pena prevedeva il codice per aggressione a un superiore. L’ispettore–capo era al primo incarico operativo e non aveva idea della reale situazione di Mare Nostrum. Stilava dei rapporti che sembravano usciti dalla Scuola Superiore di Polizia e ogni occasione era buona per mettersi in mostra con il comando. 

L’agente sospirò e si inginocchiò di nuovo con le giunture che scricchiolavano. Aveva sul groppone una delle notti peggiori degli ultimi mesi e i colleghi giù alla darsena parlavano di altri barconi al largo di Lampedusa. Angelo sbuffò cercando di non pensare all’ennesimo straordinario gratis e si accucciò di nuovo. Voleva rimanere all’altezza del bimbo per non intimorirlo ma era così stanco che pencolava, ora di qua e ora di là. Il piccolo, poco interessato alle parole dell’agente, si fissava le mani, annusava le dita ossute come volesse mangiarsele e non la smetteva di sorridere.

Rafik, non poteva smettere di pensare alla fuga di quella notte, al ricordo della fragranza sotto i denti e al profumo paradiso rimasto nelle mani; di una cosa era certo, potevano fargli tutte le domande che volevano, quelli, anche picchiarlo, ma lui l’avrebbe rifatto cento volte. Alzava ogni tanto gli occhi color nocciola e quegli uomini alti e grassi, resi ancora più tondi dalle tute bianche, sembravano al bambino dei grandi pani poco cotti. Sulle maniche spiccava la bandiera di tre colori, quella la conosceva bene, era la stessa che sventolava sulla grande nave grigia che lo aveva salvato dal mare.

– Allora, Rafik, come ci sei arrivato laggiù? – gli chiese di nuovo Angelo in francese fissando quegli occhi liquidi. Seguì il solito silenzio. L’agente riprovò a interrogarlo ma era distrutto dalla fame e dalla stanchezza. Dal suo stomaco uscì un brontolio rumoroso e il bambino ne rise di gusto. L’uomo lo guardò implorante e gli parlò metà in italiano e metà in francese, come se ormai una parola valesse l’altra.

– Dai bambino, s’il te plait, non ce la faccio più. Je ne mange depuis ce matin. Sto morendo di fame. Alons...

Il bambino trovava che quei pani poco cotti fossero veramente stupidi a fare certe domande, ma questo tipo gli stava simpatico e decise di fargli un favore. Si alzò in piedi, gli fece segno di seguirlo e scattò come un topo verso la recinzione.

– Ici, par ici, gros pain pas cuit... – urlò correndo via. I poliziotti dopo un momento di sorpresa gli corsero dietro. Il bambino ogni tanto si voltava e rallentava vedendoli lontani, li canzonava e poi schizzava via di nuovo. Quegli omoni che arrancavano gli ricordavano i vecchi del paese alla festa del raccolto, quando inseguono i bambini fino alle ultime capanne. Si allontanò e si voltò ancora, prendendo a dileggiarli come si usava fare al paese, con grandi movimenti delle anche e rumorose pernacchie.

Mentre si avvicinava alla recinzione del campo di accoglienza ripensò al giorno prima, a tutte quelle stupide domande, al momento in cui dalla rete aveva visto la sua torta. 

Era quasi buio e anche se la torta era lontanissima, l’aveva scorta subito, abituato com’era a scoprire un frutto rachitico sotto le foglie secche. Mano a mano che si faceva più vicino aveva sentito il rumore delle macchine che impastavano, le voci dalla cucina, l’odore della farina, dell’acqua e del lievito e arrivato al capannone,, in mezzo al pane, pronte da caricare sul furgone del forno, aveva trovato le torte lasciate a raffreddare. Quelle cose al campo non le aveva mai viste. Allungate le braccia e aveva portato al petto una di quelle ruote calde. Sentiva sulla pelle un tepore dolce, una struggente friabilità come di fiore sbocciato dalla terra, un fiore di Allah, sceso quaggiù per lui. Strisciò la schiena contro il muro e finì seduto, si poggiò in grembo la torta, ci affondò le mani, ne prese una gran manciata e se ne riempì la bocca. Era un sapore nuovo e Rafik cercava di collegarlo a qualcosa di noto. Quel profumo celestiale gli ricordava qualcosa di meraviglioso. Pensò al sapore del pane della nonna oppure al dolce succo dei frutti che portava suo padre e invece no, questa era un’altra cosa. Sembrava meglio di un capretto arrosto, meglio di un pollo alle spezie. Gli si sciolse in bocca una cosa mai sentita e non riusciva a figurarsi niente di tanto buono. Chiuse gli occhi e si concentrò. Adesso si, lo faceva pensare a qualcosa che conosceva, erano i baci della mamma.

 

 Ormai era arrivato alla fine del campo. Ancora lontani alle sue spalle arrancavano i pani poco cotti, raggiunse la recinzione, s’infilò sotto lo strappo nella rete e sgusciò dall’altra parte.

Quando Angelo e i colleghi arrivarono alla rete un agente alzò l’arma gridando.

– Fermo o sparo!

Angelo gli sbatté il braccio verso terra con un colpo secco.

– Ma che sei cretino?!? – urlò. L’altro gli si scagliò addosso e i due finirono a terra azzuffandosi come bambini. Gli altri agenti cercavano di separarli.

Di lì a poco arrivò il capo sbuffando come una locomotiva rotta.

–Si può sapere che combinate voi due? In piedi! Subito!

Angelo e il collega si alzarono, scuotendosi la polvere.

–Siete due imbecilli. Dov’è il ragazzino?

I due si guardarono senza sapere chi dovesse parlare.

– E’ scivolato sotto la rete, capo, questo idiota voleva sparargli! – disse Angelo.

L’altro intervenne.

– Ma che dici, seguivo solo la prassi, mica avrei sparato.

Il superiore lì zittì con un gesto.

–Insomma basta! Correte dietro al ragazzino e di corsa!

Angelo cominciò ad alzare la rete ma vide un puntino che si avvicinava e disse.

– Non serve capo. Guardi, sta tornando in qua.

Quell’affarino nero correva adesso verso di loro saltando le buche del campo come un topolino. Arrivato alla rete, ci passò sotto come se fosse la cosa più facile del mondo e andò dritto da Angelo. Teneva qualcosa nella maglietta ripiegata a sacco con le mani. Si mise davanti all’agente e tirò fuori una grande torta di mele. 

– Mange, police, tu fame! – disse con un sorriso sdentato.

  

 

[ Racconto settimo classificato al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie ]

 


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