Pubblicato il 13/12/2025 14:34:21
Quando mi sono stancato della zattera, mi sono chiesto se avrei visto ancora questa notte stellata e le galassie immense a rotazione, una volta che mi fossi rovesciato. Quando mi sono rovesciato, ho continuato a intravedere tra le fessure dei legni ormai scalfiti, i visi delle donne delle stelle che vagavano, a volte accostandosi, altre tenendosi distanti, incerte se venire a salutare uno che se ne va. Allora mi sono ricordato molte notti in collina, a lanciare la sete verso gli spazi immensi senza appagarsi mai. Mi sono chiesto se Shakespeare se ne fosse accorto, dalla porta di casa, nonostante la puzza del letame, quando la notte gli girava intorno, o dal teatro aperto, lungo la distrazione che comporta la compagnia delle parole. O se Ovidio, privo delle gran luci di città, se ne fosse appagato per sua consolazione, mentre questa marea rende la vista sempre meno precisa e mi bruciano, cominciano a bruciarmi: gli occhi. Ho pensato allora alle pianure dell’Asia dove i cavalli spaziano e un poeta si immagina le notte come un vuoto che chiede un riconoscimento, e ho pensato al suo venirmi in mente, quando Venezia latita e a Bisanzio si muovono le ore che il tempo non concede a chi è fuggito. Ho fatto finta d’essere una vela e mi sono spiegato, al vento, e credo anche a me stesso, mentre facevo calcoli furiosi di quanto ne restasse trattenendo il respiro. Quindi mi sono accorto che non ho fatto altro – trattenere il respiro – nella città del Grande Indifferente, nonostante le epoche assommate che nessuno ricorda, dove si sembra vivi ma non siamo che un istante che passa che non si accorge di quello che c’è intorno e le persone diventano occasioni di mostrarsi o denaro, al centro di un Sistema piatto, dove nessuno è altro che nessuno mentre cerca nessuno, quando lasciavo la mia mano nell’acqua che mi porta lontano.
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