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Etnomusica 9: Sulla strada degli Zingari - 1 parte

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 22/08/2012 04:22:10

ETNOMUSICA 9: SULLA STRADA DEGLI ZINGARI (prima parte).

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI
Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza
e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Presentare un popolo diverso dal nostro è sempre un azzardo per cui si azzarda di dare una definizione a dir poco avventata, nel rischio di vedere solo ciò che vogliamo vedere o, quantomeno, di imporre la nostra gerarchia di valori, di misurare e valutare una determinata cultura coi nostri mezzi e i nostri criteri di valutazione di quelle che sono le diverse ‘categorie mentali’, pretendendo di giudicare chi non la pensa come noi, con mezzi non idonei a sindacare l’operato degli altri. Ancor più pretendendo di giudicare chi è ‘diverso’ da noi, vuoi per colore della pelle, razza e quant’altro riferito alle proprie scelte religiose o tribali, totemiche o sessuali, come qualcuno inferiore a noi o, non idoneo di far parte della specie umana in cui tutti, nessuno escluso, dobbiamo infine riconoscerci.
Non a caso la popolazione ‘zingara’, di cui ci occupiamo in questa ricerca, presenta una fisionomia sicuramente umana, seppure oscura ed enigmatica fin dall’origine. Nessuna altra etnia umana è così sparsa sulla faccia della terra come la loro, eccetto forse, quella ebraica, da cui pur differisce, ne più ne meno, come da quella egizia, con la quale, in epoche diverse è stata spesso confusa. Che si chiamino Zingari o Zingani, Gitani o Gipsy, Sinti o Manusci, Lautari o Bohemien, ogni specifico gruppo nomade da sempre fa riferimento a “Rom”, nome che essi stessi si sono dati e che sta per ‘uomo libero’. Un appellativo questo di cui vanno fieri e che sempre affrontano con dignità anche davanti alle difficoltà che la nostra società ‘acculturata’ impone loro relegandoli alla più estrema disconoscenza umana.
Conforme a un ‘percorso itinerante’ sulle rotte di un nomadismo millenario di cui tutt’oggi non si conoscono appieno i confini, la ‘storia’ del popolo zingaro, come ogni etnia di cultura orale non ascrivibile a un’unica area geografica, si basa su ipotesi scarsamente attendibili e quanto meno di autentiche certezze. Diversamente da quanto si pensa, l’esistenza di una ‘cultura’ tipica degli Zingari, o perlomeno di una cultura che presenti caratteristiche comuni a tutti i gruppi conosciuti nell’arco geografico ove si sono ormai ‘sedenterizzati’ o, in cui continuano a ‘spostarsi’, rappresenta uno dei problemi irrisolti di grande interesse etnologico. Negli ultimi tempi, soprattutto in seguito alla presa di coscienza di ricercatori attenti, si è giunti a riconoscere agli Zingari alcune prerogative che in passato erano confutate loro, tra le quali, ad esempio, quella riferita alla lingua ‘romani’ della quale non si conosce la sillabazione né la forma grammaticale, e tramandata oralmente mediante il semplice mezzo mnemonico.
Un’altra peculiarità è la loro ‘cultura’ prevalentemente atipica, la cui adattabilità alle culture ‘altre’, scritte od orali che siano, ha permesso loro di conservare espressioni ‘rituali’ e ‘nomi propri’, rivelatesi inscindibili dalla ‘cultura zingara’ di riferimento. Ma se da una parte è difficile stabilire cosa gli Zingari abbiano smarrito, o meglio, abbandonato della propria cultura, nelle molte ‘altre’ visitate o soltanto frequentate nel corso delle millenarie peregrinazioni lungo le strade del mondo, ancor meno è possibile quantificare l’entità di ciò che hanno assimilato. Studi in proposito, in special modo quelli di riferimento etnologico, hanno rivelato l’esistenza di una cultura ‘tipicamente zingara’ da non confondere con quella di altri gruppi etnici stanziali dell’area indo-europea.
Pur riconoscendo alla cultura zingara di aver trovato in Europa un terreno fertile per affondare le proprie radici, permettendole, a un tempo, una naturale simbiosi culturale, il fenomeno antropologico della loro esistenza sul territorio si offre come piattaforma particolarmente interessante per affrontare il problema della legittimazione etnica all’interno dell’intero agglomerato umano, rappresentato dalle culture ‘altre’ con le quali gli Zingari sono messi costantemente a confronto. Nel caso specifico di questa ricerca conseguita ‘sul campo’, dapprima dal Gruppo Arca diretto da Angela Maria Tettamanti per conto dell’Università Bocconi di Milano, e successivamente da chi scrive, per la parte relativa alla ‘musica comparata’, va qui posto in oggetto il lungo lavoro svolto per la RAI, da cui il libro/reportage “Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” stampato per i titoli di Firenze Atheneum e vincitore del Premio letterario “L’Autore” per la Saggistica nel 2006, dal quale sono tratte alcune delle seguenti parti.

Premessa.
“... ho incontrato anche Zingari felici.”

Ma perché gli Zingari?
Perché ovunque mi sia recato, negli innumerevoli luoghi del mio viaggiare, ho incontrato gli Zingari davanti a me, che mi avevano preceduto o che facevano ritorno da una qualche terra, sempre più lontana e sempre più vaga, che avrei voluto conoscere, e della quale – cosa meravigliosa e misteriosa insieme - portavano il ricordo: la tangibile testimonianza di una cultura arcana ed enigmatica che non conosceva né dove, né quando, né come, e che pure continuava in me a suscitare un certo interesse. O forse soltanto per la curiosità di comprendere come, ancora oggi, agli albori di questo terzo millennio e soprattutto nell’attuale società super comunicativa ed eccessivamente informata quale è la nostra, la loro lingua si presenti verosimilmente riconducibile a un popolo senza scrittura che, al tempo stesso, è potuta sopravvivere. E come, pur venendo essa, a contatto costante con realtà socio-culturali fortemente dominanti, quali quelle europee, capaci di annientarne i contenuti e cancellarne finanche il ricordo, abbia potuto conservare la sua autenticità.
Compresi ben presto che il mio compito sarebbe stato quello di affrontare una lunga strada verso l’ignoto, al seguito “di una percezione intuitiva che..” per dirlo con i termini di C. G. Jung: “..non poteva, allora, né essere compresa in modo migliore, né essere espressa in modo diverso”. Tuttavia, intenzionato a dare un senso a una sfida che fin dall’inizio si presentava ardua oltre ogni considerazione, mi sono spinto lontano nel tempo e nello spazio, superando le barriere imposte dalle difficoltà linguistiche, in un vocabolario fatto di forse e di perché, dove niente o quasi era detto in modo definitivo, in una ricerca dove nulla o quasi avrebbe avuto la tangibile perspicacia del ‘dunque’.Sfida che mi ha permesso, infine, di aprirmi alla conoscenza di una cultura antichissima, prima a me del tutto sconosciuta e che, a un certo punto, ho sentito affiorare come un’eco che risuonava attraverso il ‘suono del tempo’ per essere comunicata ad altre conoscenze – quasi che la sua voce, ancor viva, fosse strumento di mediazione tra il caos originario delle emozioni e il linguaggio articolato dell’intelletto.
Un ‘suono’ in cui, ancor prima di essere musica, si riaffacciava l’eco di sedimentazioni sonore avvenute agli albori dell’esistenza umana, ancor prima forse dell’avvento delle culture primitive, per effetto di sovrapposizioni e interazioni maturate nel corso di contatti prolungati lungo il corso dei millenni. Quello stesso ‘suono’ che Charles Darwin ipotizzava si fosse sviluppato successivamente nel linguaggio della musica dalle vocalizzazioni dei “primati subumani” che funzionavano come segnali emotivi, per cui “..prima di essere colto sfugge costantemente e insieme sfida a essere decifrato”. Lo stesso ‘suono primordiale’ che Eduard Hanslick dice “non avere modelli in natura e non esprimere alcun contenuto concettuale”, e che forse, in origine, anche il nostro spirito era capace di comprendere e che poté tornare a comprendere, per quella sorta di rinnovamento che la natura è solita imporre all’uomo come ritmo del tempo della vita.
Certo, l’idea di un ‘suono’ che percorresse l’intera esistenza di un popolo distribuito sulla quasi totalità della faccia della terra, poteva anche avere un senso, a patto però che quel popolo si riconoscesse in esso, cioè in quella musica che il ‘tempo’ – preso in senso ciclico – aveva verosimilmente impresso in modo virtuosistico e geniale nella sua gente. Era indubbiamente un argomentazione che avvalorava la mia tesi, pensai. Pur tuttavia, ero convinto che non l’avrei dovuta considerare come punto di arrivo o giustificazione per una ricerca che si delineava interattiva, vuoi per la complessità degli innesti, vuoi per la stratificazione delle contaminazioni, bensì alla stregua di ‘ponte’ tra passato e presente, malgrado quest’ultime, intese in senso di interscambio acculturato, togliessero spessore alla sfida che mi ero proposto di affrontare.
Mi ritrovai così a percorrere strade scoscese e discontinue che non portavano da nessuna parte per la mancanza di quel ‘carattere etnico’ che pure è riscontrabile nella tipologia di tutti gli agglomerati umani e che pensavo mi avrebbe in qualche modo aiutato a distinguere la ‘singola’ cultura zingara dalle altre. Non fu così: non riuscivo a trovare un’argomentazione che avesse una specifica valenza ‘etnica’ riconducibile ad essi – quasi gli Zingari non fossero mai esistiti e continuassero a non esistere ancora oggi. Il fatto era dovuto soprattutto alla carenza delle informazioni relative ai ‘rapporti storici’ che, necessariamente, essi dovevano aver avuto con le numerose ‘genti’ che avevano incontrate o che abitavano le aree geografiche prima di loro, e che li avevano visti nomadi quando già l’insieme delle loro culture formava la futura conoscenza dell’Europa delle Nazioni.
Ero consapevole del fatto che conoscerli più da vicino sarebbe stato l’avvio necessario per meglio comprendere la loro cultura orale. Fu così che “andando imparai dove dovevo andare”, per così dire incontro a quanti di essi avrei incontrato lungo la strada: un numero imprecisato di genti diverse, autoctone e transeunte, nomadi e sedentarizzate che mi avrebbero accompagnato nel viaggio, con l’apparente semplicità dei loro racconti orali e dei frutti ‘acerbi’ del loro nostalgico poetare. Ancor più, attraverso le loro canzoni e i suoni che essi sapevano ricavare da ogni strumento, qualunque esso fosse, con innato virtuosismo; come pure dal ritmico frenetico delle loro danze, seducenti e arcane che eseguivano davanti ai fuochi accesi negli accampamenti e che, ai miei occhi, sembravano evocare un misticismo segreto, le cui radici si perdevano nelle profondità oscure dei tempi. Fino al raggiungimento di quel ‘suono del tempo’, nucleo indivisibile eppure ampiamente condiviso, cui agognavo in questa mia ricerca.
Al fine di fornire un riconoscimento non solo alle nazioni ma anche alle etnie che le compongono e, conseguentemente, a ogni singola cultura espressiva, anche la più povera, e salvaguardarla dall’essere dimenticata, o peggio definitivamente cancellata, mi sono trovato ad affiancare il Gruppo Arca di Milano nel quadro di una ricerca sulla comunicazione di base, che questi aveva intrapreso già dal 1978 con lo scopo specifico di approfondire il rapporto esistente fra le diverse culture nomadi e la cultura egemone, sfociato poi nella pubblicazione in tre volumi illustrati di un ampio panorama della cultura zingara: “La mano allo zingaro” (1978), “Arte nomade” (1980), e “Gli ultimi nomadi” (1982), per i titoli della IGIS edizioni. Fu così che grazie alle personali esperienze acquisite ‘sul campo’ fra le comunità ROM presenti nel Lazio e in Lombardia, che apportarono alla mia cultura socialmente ‘civilizzata’ non poche sollecitazioni e ripensamenti illuminanti, ho potuto infine approntare la mia personale ricerca etnomusicologica.
Fu però importante per me valutare l’idea originaria che ha poi dato il titolo alla mia ricerca, quel: “Testimonianze etniche della cultura europea” che, in qualche modo anticipava quanto detto da Bruno Crimi “..di essere gli Zingari – a modo loro – i precursori dell’unità europea, nel senso che per primi hanno abolito le frontiere”, e che mi ha permesso in seguito di approfondire i contenuti con studi specifici di altri autori, per lo più apparsi in sporadiche e pressoché introvabili pubblicazioni, che in qualche caso si sono rivelati utili ed eloquenti. In un primo momento pensai che lo studio degli effetti del ‘nomadismo’ in Europa e, più in generale, nell’area asiatica, mi avrebbe consentito di analizzare e comprendere l’arcano delle loro origini ma, ben presto, dovetti ricredermi, poiché constatai di essere soltanto l’ultimo, in ordine di tempo, di una lunga trafila di studiosi e ricercatori che avevano tentato di svelare il ‘mistero’ delle loro origini, destinato ahimè a rimanere tale.
Sebbene il nomadismo, fin dalla prima apparizione degli Zingari sul continente europeo, fosse alla base della loro condizione strutturale, e che avessero sviluppato su di esso il solido attaccamento che regola tutta la loro esistenza, la scelta degli esempi e dei testi acclusi nella pubblicazione sopra citata, prese spunto da più approfondite conoscenze interpersonali di Zingari incontrati sulla strada, e da testimonianze raccolte durante il lavoro di ricerca che, non in ultimo, mi hanno permesso di dare maggiore spessore al mio enunciato. Poiché era mio specifico interesse conoscere come gli Zingari si ponevano di fronte alla storia ‘altra’ dalla loro, com’erano riusciti a preservare il carattere ‘ancestrale’ e la sacralità dei loro ‘miti’ e delle loro usanze, ho iniziato con il raccogliere quelli che erano i frammenti di una cultura solo apparentemente dispersa ma, che pure, ‘sentivo’, tendere ad affermare la propria autenticità all’interno della propria esistenza.
In seguito mi sono affidato alle testimonianze storiche documentate, assai poche in verità, ed a quei testi orali, trascritti solo in piccola parte, che presentavano un più specifico interesse storico-letterario o riferito a una qualche forma di religiosità. La lettura di brevi opere letterarie scritte in forma lirica infine, e in particolare di testi di canzoni, diede luogo a quella che ancora oggi ritengo fosse la prima intuizione del ricercatore, mi ha permesso di creare una cornice musicale al discorso ‘esistenziale’ sui ROM; quello stesso che, man mano e, in assoluta autonomia, si è andato delineando dalla musicalità atipica dei testi, così vicina a quella musicalità che il noto compositore Richard Strauss, aveva a sua volta riscontrato in musica, come in poesia e che: “..desta sentimenti che premono verso la parola e nella parola vive un anelito che tende verso il suono e la musica”.
Sulla spinta di questa affermazione ho quindi iniziato col raccogliere quelle esperienze che, a mio parere, più di altre risultavano formative di una possibile “cultura musicale” zingara, quindi partendo dal presupposto della sua esistenza, o meglio, della sua sopravvivenza in molta della musica non solo europea. Quella stessa che Gino castaldo, con lucida intuizione, includeva nella cosiddetta “musica globale” che più trovava affermazione nel mondo: “Una musica che non ha alcuna cittadinanza, ricca di mille suoni, strutture e atmosfere differenti; in cui echi africani, melodie europee, ritmi balcanici, elettricità rock americana, suoni asiatici, sono fusi insieme in brani che non hanno passaporto, che non vogliono né conoscono confini e che hanno mille radici ma nessuna appartenenza”.
Nel voler sostenere il primo autentico riconoscimento della ‘cultura zingara’ all’interno del processo di formazione della coscienza europea, si è reso fin dall’inizio necessario fare determinate scelte, onde evitare di calcare la mano sugli aspetti dalla connotazione negativa, benché ve ne siano, e di proposito, prefigurare nuovi scenari culturali e artistici, consoni a una società sempre più multietnica, multilinguistica e multimediale quale si prefigura sarà – è ormai nella coscienza di tutti – la società prossima futura. È così che mi sono inoltrato nell’ascolto di centinaia registrazioni su nastro e incisioni fonografiche raccolte in gran parte del mondo: India, Medio Oriente, bacino Mediterraneo e, soprattutto, nel cuore dell’Europa centrale, fino ai Balcani e alla Russia, nell’affannosa ricerca di quanto gli Zingari avevano raccolto e lasciato nelle culture che l’avevano ospitati e che - per dare alito alla premonizione di Ernesto Assante – “...anticipavano quello che il mondo potrebbe o dovrebbe essere, e forse sarò, ovvero una straordinaria comunità nella quale culture differenti sapranno non solo stare insieme, ma dar vita ad ulteriori culture”.
Una società multiculturale dunque, nella quale far confluire a pieno titolo quella che fin d’ora con rispetto chiameremo “cultura zingara” che si avvale di una tradizione orale rigorosamente tramandata per generazioni seguendo metodi iniziatici che hanno talvolta del ‘soprannaturale’ e che, si esprime con manifestazioni non dissimili da quelle riconosciute ad altri popoli, e per lo più rintracciabili in quelle che sono da considerarsi autentiche manifestazioni dell’esistenza umana, e che vanno dal tramandare propri usi e costumi; conservare una ritualità specifica all’interno della propria religiosità; indossare vesti multicolori e gioielli per adornarsi secondo un proprio gusto estetico; possedere una propria cucina ‘tipica’; fare uso di utensili e praticare alcuni fra i mestieri più antichi del mondo e, non in ultimo, utilizzare strumenti musicali per l’accompagnamento di canti e danze, così come, esprime particolare gioia in occasione delle festività.
Pur tuttavia, di là da ogni stereotipo e da implicazioni politico-sociali, va qui tenuta presente una realtà – fondamentale in questa ricerca – cui non possiamo restare indifferenti, e cioè che si continua a considerare gli Zingari dentro l’emarginazione sociale, alla stregua della mortificazione, maltrattati contro ogni logica, rifiutati e appellati, ancora oggi, come ‘maledetti’. Il che è rivelatore di diffidenze celate e rancori antichi mai venuti meno. Al contrario, penso, che un piccolo passo in avanti nel pur difficile corso della ‘comprensione’ vada fatto. Sono convinto più che mai di dover dare voce alle ‘diversità’ culturali, al pari delle altre grandi culture, al fine di pervenire alla reciproca quanto auspicabile umana ‘accettazione’ di tutte le minoranze etniche identificabili.
Coloro i quali credono in una categoria umana coerente, pur dissimile da ogni altra per sua natura, accordano con ciò anche agli Zingari il privilegio e il riconoscimento di una ‘civiltà’ che gli è propria, e che si incarna in quelle che sono le sue caratteristiche più originali. Come appunto deve considerato il nomadismo, attraverso il quale si pongono in evidenza gli aspetti tipici del vivere zingaro e, con ciò, il loro modo di essere “diversi nella diversità”, ancor più dotati di una cultura originale che gli è propria, se confrontata con le altre culture esistenti e altrimenti considerate ‘primitive’. Un riconoscimento in tal senso che li riscatta definitivamente dal ‘non esistere’ come agglomerato umano, restituendo loro quella identità che gli Zingari rivendicano quale espressione ‘reale’ e ‘simbolica’ che in larga misura consente loro di rimanere se stessi: i soli protagonisti della propria storia.
Ma qual è la vera musica degli Zingari?
In accordo con quanto affermato da Augusto Romano: “..non vi sono società cui il fenomeno musicale sia sconosciuto”. Onde per cui la ricerca qui approntata sulla ‘musica zingara’ ha significato di scavare nell’apparente semplicità multiculturale, rintracciare gli aspetti ‘tipici’ accomunanti, avvalendomi della ormai indiscussa universalità della musica. Universalità qui usata in una prospettiva diversa che si avvale di tante discipline e di nessuna in particolare ma che trova ampia conferma in quanto affermato da Hegel, secondo cui: “..la musica prende le mosse dalle interazioni” ed evolve dalla sua esistenza di voce dell’emozione alla condizione di arte “in forza dalla sua aggregazione”.
Se condividiamo la definizione di Hegel ci sembra quasi che l’esistenza della ‘musica zingara’ sia tale solo in funzione del processo di commistione con le altre culture. Cioè equivale ad ammettere che non si conosce una musica zingara autonoma se non quella che possiamo ascoltare in ambito ‘tradizionale’ di altre culture, entrata oggi, sebbene con qualche forzatura, nel panorama della musica globale. Ma non è così. Pur dovendo ammettere di essermi trovato alle prese con una tradizione orale molto frammentaria e apparentemente senza possibilità di recupero, che pur andava rintracciata all’interno di un’area culturale molto vasta fino ad essere estesa ai cinque continenti, posso qui affermare non solo della sua esistenza, ma anche di una sua essenziale originalità, la cui fonte è pressoché sconosciuta talvolta agli stessi Zingari.
Frutto di un’intuizione prevalentemente musicologica, questa ricerca tenta di configurare un ‘corpus musicale’ nascosto, in parte occultato da coloro che ne sono i fautori, che risulta in qualche caso atipico ma altrettanto vitale, capace ancora di sorprenderci. Come sosteneva Claude Lévi - Strauss: “Fra tutti i linguaggi la musica riunisce i caratteri contraddittori d’essere a un tempo intellegibile e intraducibile, giacché il suo privilegio consiste nel saper dire quello che non può essere detto in nessun altro modo”. È come ammettere che la musica altro non sia che la “metafora musicale” di se stessa e che, lo ‘spirito’ che anima l’ ‘ars-musicandi’ sia solo un diverso genere di musica: “..le cui strutture sonore – per dirla con Cristina Cano – non sono inventariabili in un vocabolario, per cui la musica si presenta come un linguaggio aconcettuale”. All’interno del quale, come rivelato da Ida Magli: “...anche la musica si esprime in una forma di tempo senza tempo, che non comincia e non finisce, e che per ciò è una musica non musica”.
Linguaggio che noi possiamo più facilmente intendere se recuperiamo il suo significato originario di ‘suono del tempo’ che si fa metafora di quell’ ‘assoluto naturale’ che è poi la musica elargita all’uomo nell’età dell’oro. Cioè, quando uomo e natura non erano ancora scissi e si trovavano in armonia e che, rievoca il tempo della perfezione originaria. Perfezione che “..può essere recuperata solo in condizioni eccezionali, quando il nefasto incantesimo che ha dato luogo alla separazione dell’uomo dalla natura si rompe” e ci permette di cogliere i ‘suoni naturali’ che sono ‘vivi’ dentro e fuori di noi. Poiché, come affermato da Károly Kerényi: “..una cosa viva non può essere conosciuta che in stato vivo, in cui si evidenzia una immediata commozione”.
Lontano da questa possibilità ho qui cercato di trasmettere quelle che sono le mie esperienze nell’ambito di una più ampia conoscenza culturale estesa alla musica e a quello che essa rappresenta oggi in Europa, in cui l’arrivo sempre più numeroso di immigrati extraeuropei sta dando avvio a una complessa forma di interazione culturale, anche in senso propriamente musicale, che deve essere ancora valutata, quantomeno nelle sue strutture di linguaggio sonoro, non del tutto assorbito nella sua originale autenticità. Linguaggio che, in qualche modo, ho usato per indicare quelle che sono le linee di questa ricerca basata sull’impronta delle ‘varianti’ strutturali all’immaginazione cui C. G. Jung ha dato nome di “archetipi”.
In questo contesto, altro sarebbe un approccio ‘diretto’ con la letteratura zingara, alfine di trovare quella che è la sua funzione primaria di ‘testimonianza viva’ dell’estro spontaneo di una certa parte ‘sconosciuta’ della creatività umana; così come lo sarebbe l’ascolto diretto della musica originale o, quantomeno, quella eseguita da autentici gruppi zingari, e che faciliterebbe quel ‘processo di riconoscimento’, all’interno delle pur diverse culture qui investigate, e che darebbe indubbiamente i suoi frutti. Vuoi per l’aprirsi di un nuovo fronte di conoscenza comprensivo di quella espressività popolare che è alla base della primitiva cultura del mondo; vuoi perché permetterebbe l’accesso allo straordinario ‘virtuosismo’ di cui la ‘musica zingara’ sembra pervasa.
Se, come si è detto, la musica non è un genere ma una condizione dello spirito, quanto raccolto nelle pagine di questa ‘premessa’, tuttavia, non la fa riecheggiare in noi, per cui l’ascolto ‘dal vivo’ dissolverebbe ogni dubbio lecito. In accordo con Augusto Romano: “..se ne può parlare solo nel modo tecnico che, per così dire, circonda l’ascolto tuttavia senza farne parte, (..) per cui, parlare della musica è solo un modo per convincerci che esiste”. A voler trarne una conclusione e, allo scopo di ampliare una più diretta conoscenza della materia trattata, fornisco qui di seguito una cospicua discografia, purtroppo di non facile reperimento, che aspetta solo di essere rovistata oltre i confini delle mode e degli stili o delle barriere linguistiche, ed ascoltata senza preconcetti di sorta. È necessario quindi superare le ‘barriere razziali’ che separano gli Zingari da Noi, e andare oltre le divergenze culturali e le discriminazioni politiche o i limiti posti dalle religioni, nella convinzione che l’aggregante prospettiva della ‘musica zingara’ possa essere riconosciuta come musica patrimonio dell’intera umanità, solo allora potremo un giorno riscrivere una ‘storia’ migliore.


Tratto da “Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” di Giorgio Mancinelli, MEF Firenze Atheneum, premio letterario “L’Autore” per la Saggistica, 2006.

Per un maggiore approfondimento di questa ricerca, sono consultabili numerosi documenti bibliografici e sonori di notevole interesse etnomusicologico apparsi in collane librarie e discografiche prestigiose, qui sotto elencate:

Bibliografia:
“Storia del mondo antico” – vol.I, II, IV, e “Storia del mondo medievale” – vol. I, II, III, Cambridge University Press – Garzanti, Milano 1988
“Atlante delle popolazioni” – Garzanti, Milano 1997
“I popoli della terra” – Mondadori, Milano 1974
“Il Corriere Unesco” – anni 1973/1974 – Editalia, Roma
“Il Corriere Unesco” – anno 1984 – Giunti, Firenze
“L’origine della specie”, Charles Darwin – Bollati Boringhieri, Torino 1967
“Antropologia strutturale”, Claude Lévi-Strauss – Il saggiatore, Milano 1980
“Gli archetipi dell’inconscio collettivo”, C. G. Jung – Bollati Bor.,Torino 1980
“Modelli di cultura”, Ruth Benedict – Garzanti, Milano 1960
“La cultura orale”, Tullio De Mauro – Laterza, bari 1977
“Dialetti degli zingari italiani”, Giulio Soravia – Pisa 1977
“Storia delle religioni”, Mircea Eliade – Peyot, Parigi 1951
“The Larousse Encyclopedia of Music” – Amlyn, London 1978
“The History of Music in Sound” – Oxford University Press, London 1966
“Storia della Musica”, vol. I,II,III,V, - Feltrinelli-Garzanti, Milano 1991
“La musica nel mondo antico”, Curt sachs – Il Saggiatore, Milano 1966
“La musica nel Medio Evo”, Gustave Reese – Sansoni, Firenze 1981
“Storia degli strumenti musicali”, Curt Sachs – Il Saggiatore, Milano 1966
“Storia della danza”, Curt Sachs – Il Saggiatore, Milano 1980
“Dizionario della Danza e del Balletto” – Jaca Book, Milano 1998
“”Gli strumenti musicali e il loro simbolismo nell’arte occidentale”, Emanuel Winternitz – Bollati Boringhieri, Torino 1982.
“Simboli sonori”, Cristina Cano – Franco Angeli, Milano 1985
“La maschera e il pregiudizio, la storia degli Zingari”, Loredana narciso – Melusina Editore, Roma 1990
“Music in the World of Islam”, J.jenkins e P. Rovsing-Olsen – Horniman Museum, London 1976.
“Monumentos Historicos de la Musica espanola”, Servicio de Publicaciones del Ministerio de Education y Ciencia, Madrid 1977/1982
“Situation de la musique et des musiciens dans les pays d’Orient”, Alain Danielou – Olschki, Firenze 1971
“Le structure sociale de l’inde traditionnelle”, Alain Danielou – Buchet-Chastel, paris 1976
“Semantique Musicale”, Alain Danielou – Hermann Editeurs, Paris 1978
“Musica e Psiche”, Augusto Romano – Bollati Boringhieri, Torino 1999
“De bouche à l’oreille”, Cahiers de Musiques Traditionnelles – Georg Editeur, Geneve 1988
“Lacio Drom” anni 1973/1974, Bruno Nicolini e Mirella Karpati, L.C. Roma
“The Journal of the Gypsy Lore Society – Wolver Hampton, England
“Les Etudes Tziganes” – Paris VII, France

Discografia :
The History of Music in Sound – His Master’s Voice
Ethnic Folkways Library – Nonesuch Records
Musical Atlas – Emi/Unesco Collection
Musical Source – Philips/Unesco Collection
Melodya – (Russia)
Request Records - House of Culture of Bucharest – (Romania)
Balkanton (Bulgaria)
Jugoton – (ex Jugoslavia)
Emi/Columbia – (Grecia)
Le Chant du Monde, Editions Musée dell’Homme, Ocora, Universo del Folklore / Arion – (Francia)
Archives Internationales de Musique Populaire – (Svizzera)
Hispavox – (Spagna)

Per l’Italia sono disponibili le seguenti collane, nelle quali sono rintracciabili brani di musica zingara dedicati:
Dischi Albatros – Vedette Records
I dischi del Sole – autonoma
Musiche dal Mondo – Fabbri Editore
World Music – la Repubblica
Hemisphere Real World – Emi Italiana
Meridiani Musicali – Editoriale Domus

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