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Cantico di Natale 2 - ’Anno Domini’

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 29/11/2012 07:51:46

Cantico di Natale - (2)
(mito e leggenda di una tradizione sempre viva)

(Testo originale della trasmissione omonima radiofonica scritto per “Studio A” della Radio Vaticana. Da “ANNO DOMINI”:Usanze e costumi di una tradizione – di Giorgio Mancinelli - Grafica e Arte Bergamo. Copyright 1989).

III

E metterò in movimento tutte le genti, perché verrà il
Desiderato da tutte le genti, ed empirò di gloria questa casa,
dice il Signore degli Eserciti”.
(Aggeo II v.VIII – Antico Testamento)

La creazione del Presepe, espressione dell’arte, affermatasi sul terreno artigianale popolare, ha contribuito in gran parte all’affermazione della complessa iconografia del Natale, adducendo all’immagine liturgica, contemplativa, la rappresentazione scenica, tipicamente figurativa, degli usi e dei costumi dei popoli in cui ha trovato la sua affermazione. Nell’anteporre alla realtà storica il ‘nunc et semper’ del meraviglioso, con la creazione del Presepe si è voluta sollecitare la visualizzazione estetica di un ‘effimero rituale’, entro il quale, il mito esercita la propria catarsi.

È così che le figure che compongono il Presepe, altro non sono che le immagini edonistiche di mitiche incarnazioni collettive fermate nella materia, nella gestualità attonita, illuminata dalla rivelazione divina. Natura, archeologia, etnografia, folklore, spettacolo colto e popolare, rappresentazione religiosa e di strada, a un certo momento conversero nel boccascena di quel teatro immaginario e fantasioso che fu il Presepe cortese. Un’esperienza mondana fatta di curiosità artistica e vanità culturale, ambizione ricca e di evasione, dal consueto contesto religioso ed ecclesiale. Tale da diventare quasi un ‘gioco’, originale quanto costoso, assai lontano dal piccolo e pur significativo ‘presepio popolare’ che si costruiva in casa con pazienza e modestia di intenti.

Lontano anche da quell’origine umile che il Presepe aveva conosciuto a Greccio nel lontano 1223 per opera di San Francesco d’Assisi, cui dobbiamo la prima rappresentazione ‘vivente’ con pastori e contadini umbri, secondo la devozione che ispirava i drammi liturgici del tempo, nel desiderio di rendere palesi a tutti, le verità dello spirito. Inizialmente semplici ed essenziali, le prime raffigurazioni riferite alla Natività, pongono autorevolmente l’artigianato popolare sul piano stesso dell’arte, fuse in una simbolica espressione artistica la cui spinta giungerà a lambire la grande manifestazione figurativa e pittorica dei secoli successivi.


Un simbolismo iniziatico confluito nell’arte dai racconti evangelici in quella che è oggi considerata la prima, vera e propria espressione presepiale, conservata a Roma nella Basilica di Santa Mara Maggiore, un tempo detta “Santa Maria ad Praesepe”, dove si conserva ciò che rimane della Domus Sanctae Genitricis (nella foto), così attestata già nel VII sec. Il complesso scultoreo, attribuito ad Arnolfo di Cambio (1240-1310), è costituito da singoli gruppi statuari di media altezza che per la sua collocazione angusta in cui è relegato, lascia titubanti sulla sua appartenenza specifica all’arte presepiale. Ciò nonostante che, oltre ad essere un esempio di rilevante pregio artistico, rimane la prima testimonianza plastica del Presepe, relativa all’entrata nell’arte aulica di una dichiarata tradizione popolare.


È tuttavia rilevante dire, che le prime testimonianze riguardanti il Presepe, sono successive alla datazione che viene fatta per le sculture di Arnolfo, attorno al 1289. Nelle chiese romane ma soprattutto nelle grandi basiliche sorsero a più non posso presepi permanenti formati da grandi figure lignee, di terracotta o di marmo, di notevoli dimensioni, la cui visita richiamava un gran numero di fedeli da ogni parte, rasentando talvolta la blasfemia di quale fosse il più grande e il più ricco. Lo stesso accadeva in molte capitali d’Europa e, soprattutto, nella cattolica Spagna, dove sorsero addirittura altari dedicati alla Natività del Signore, almeno pari in numero a quelli edificati con grande sfarzo per la Sua morte durante la ‘Seimana Sancta’.


Alla Natività sono dedicate alcune delle più belle “Cantigas de Sancta Maria”, attribuite ad Alfonso X el Sabio, (1221-1284) re di Castiglia e León, e che fanno parte della più vasta raccolta medievale di canti e musiche esistente: 400 composizioni strutturate sul ‘virelai’ provenzale e in parte alla ‘laude’ italiana, oggi patrimonio di una vasta area musicale che dalla Spagna si estende, attraverso l’Occitania, fino alla Lombardia e consente di cogliere gli effetti di un avvenuto interscambio musicale che ancora la Spagna alla cultura del resto d’Europa.


L’attività svolta dalle botteghe artigiane dedite alla creazione delle figurine e delle più complete scenografie presepiali che si sono viste a memoria d’uomo soprattutto in Italia diede, a un certo tempo, impulso a tutta una categoria manifatturiera di pregio artistico che ebbe un peso sociale e culturale di notevole entità. I ‘pasturari’ sicialiani e calabresi, i ‘figurari’ partenopei, i ‘pupazzari’ laziali, i creatori di ‘piputì’ bergamaschi, gli ‘intagliatori’ valdostani, tutti si misurarono nella difficile arte della miniaturizzazione, ad esempio: delle diverse tipologie somatiche delle diverse razze, delle espressioni tipiche del ‘meravigliato’, lo ‘stupito’, l’ ‘adorante’, lo ‘spaventato’ ecc., lavorando anche materie povere come la creta e il gesso, la cartapesta e il legno tenero.


Ve ne erano di finemente modellate e dai colori vistosi, vestite e agghindate secondo l’usanza del luogo di provenienza, o la moda di corte dell’epoca; che raggiungevano l’estro dell’arte o la bizzarria della ricerca parodistica, e anche della tridimensionalità scultore. Altre volte erano informi, non decorate e neppure colorate a seconda del grado di povertà e indigenza delle famiglie, eppure tutte toccate dal calore di quell’amore di chi le aveva prodotte, di chi nell’immaginazione rimetteva la speranza di una vita di pace e di serenità futura.


Ed eccoli sfilare tutti davanti ai nostri occhi: la vecchia con l’arcolaio, il pecoraio con le ricotte, la lavandaia, il ‘verduraro’ con le sue ceste, il ‘ciaramellaro’ suonatore di ciaramella lo strumento tipico del Natale, il boscaiolo, il suonatore di flauto, il pastore dormiente, il mulattiere, la portatrice d’acqua con le sue brocche che arriva dal pozzo o dal ruscello, e tantissimi altri che seguono la via che porta alla capanna, o al luogo santo, dove la sacra famiglia composta da Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù, stanno attoniti, col bue e l’asinello, nella fissità e nello splendore che li attornia, aspettando la visita dei Re Magi e le schiere degli Angeli che caracollano dal cielo.

Tu scendi dalle stelle,
o Re del Cielo,
e vieni a una grotta,
al freddo al gelo.
O Bambino mio Divino
io ti vedo qui un tremar,
o Dio Beato
ahi, quanto ti costò
l'avermi amato!
A te che sei del Mondo
il Creatore,
mancano panni e fuoco;
o mio Signore!
Caro eletto Pargoletto,
quanto questa povertà
più mi innamora
giacché ti fece amor
povero ancora”...
(il testo prosegue ma solitamente si canta solo questa prima parte)

Il brano composto da san Alfonso de’ Liguori (1696-1787) è così conosciuto, tanto da essere ormai un ‘classico’ della tradizione popolare, oggi eseguito e cantato anche nell’ambito delle cerimonie liturgiche ufficiali. Ma mentre il Presepio popolare artigiano, è vissuto nel tempo come esperienza comunitaria senza pretese di qualche velleità artistica, quello ‘colto’ allestito all’interno palazzi signorili e chiese, vanta una storia autonoma. Dalla fine del Cinquecento a tutto il Settecento, infatti, il diffondersi di allestire il Presepio determinò una molteplicità di manifestazioni collaterali che trovavano motivazione nell’interesse riservato ai grandi complessi scenografici, i famosi ‘scogli’ realizzati a Napoli in epoca barocca. 


Nel medievale fondaco di San Gregorio Armeno a napoli, la tradizione colloca la bottega dell’artista Giuseppe Sammartino (1720-1793), il genio della scultura napoletana del Settecento, considerato il creatore delle figure da presepe più belle che si conoscono. Alcune delle quali figurano nei presepi ‘storici’ più rappresentativi che si conservano nel Museo intitolato al maestro. Purtroppo, nessuno dei molti presepi napoletani dell’epoca è pervenuto a noi nella sua interezza. Sempre trasformato, aggiornato, arricchito ma anche contaminato, è oggi impossibile risalire alle prime manifestazioni del Presepe Napoletano, determinarne le origini come forma d’arte a se stante. L’approssimazione cronologica parla dell’età di alcuni manufatti, non della sua appartenenza ai fatti della fede o in quale luogo di provenienza attribuire la sua nascita.


Scrive Mario Praz: “Nessuna scena è mai stata così affollata come quella di un Presepe napoletano; si direbbe che tutta Napoli voglia farsi intorno alla culla per scaldare col fiato il Bambino. E in tanta urgenza di figure e di gesti, e in tanta abbondanza di disparate cose offerte, v’è pure una profonda tenerezza che si scopre a poco a poco all’osservatore attento, quand’abbia superato la prima impressione d’accesso”.


Lo spazio del Presepe è pertanto lo spazio stesso del sacro nel suo divenire epifanico. Il credente è chiamato al diretto coinvolgimento, alla partecipazione del fatto ‘meraviglioso’ che lo pone in stretta comunione con la divinità che in esso si rivela. Così interiormente visualizzato, esso accoglie in sé flusso benefico dell’arte che si esprime attraverso il plagio di una realtà suggestiva, emozionale, trasognata, tipica dell’animo popolare. Un documento prezioso della credenza popolare che ripete, nell’insegnamento della fede, l’umano senso di pietà, la grandezza incommensurabile di un autentico atto d’amore.
Ancora a san Alfonso de’ Liguori è accreditato un altro canto popolare, entrato a far parte della tradizione partenopea “Quanno nascette ninno”, che egli compose in forma semplice nel linguaggio del volgo, onde renderlo accessibile a quella gente napoletana cui egli aveva dedicato il suo apostolato e che avvolse nei raggi luminosi della sua carità:


Quanno nascette ninno a Bettalemme
era nott’è pareva miezo juorno.
Maje le stelle – lustre e belle
se vedettero accossì:
e a chiù lucente
jett’a chiammà li Magge all’Uriente.
De pressa se scetajeno l’aucelle
Cantanno de na forma tutta nova:
pe’nsì agrille – co li strille,
e zombanno a ccà e da llà.
È nato, è nato,
decevano, lo Dio , che nce ha creato.
Co tutto ch’era vierno, Ninno bello,
nascetteno a migliara rose e sciure.
Pe’nsì o ffieno sicco e tuosto
Che fuje puosto – sott’a Te,
se’nfigliulette,
e de frunnelle e sciure se vestette...”.
(il testo completo è molto più lungo e veniva cantato come 'novena' di Natale)

 

L’Italia centrale festeggia il natale in forma solenne. Qui, più che altrove, la Chiesa di Roma ha pienamente conservato i canoni della liturgia ufficiale; allo scopo, di accompagnare e celebrare le funzioni religiose nel rispetto dell’osservanza del culto. Inni e canti assumono così il compito di offrire un quadro suggestivo, sebbene, austero dell’atmosfera natalizia che si propaga poi in ogni regione e all'intera penisola.


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