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Dopo la notte

di Maria Rotonda D’Alterio
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Pubblicato il 09/03/2016 16:36:26

DOPO LA NOTTE
Masticava la rabbia. La sconfitta gli gonfiava le vene come un veleno oscuro. Percorreva a piedi la strada quasi cavalcandola, a grandi falcate, macinando respiri e ingoiando saliva amara.
La sua vita, di nuovo, aveva una battuta d’arresto e la sua meta si allontanava, irridendolo, sempre più irraggiungibile.
Tirò fuori dalla tasca il suo smartphone, scelse dal display i brani musicali che preferiva, infilò le cuffie e cominciò a correre.
L’andatura gli arrestò l’ondata di nero dandogli una sensazione di libertà, e la musica diluì il fluido della rabbia, restituendogli nuova forza.
Aveva commesso un errore…
Era psicanalista e aveva un’empatia naturale che veniva percepita da chi era in difficoltà quasi con un’intensità animale.
A Mantova, aveva rilevato i pazienti di un collega deceduto.
Poi, era arrivata Lavinia.
Era entrata, la figura sottile che scivolava attraverso la porta socchiusa. Si era seduta muovendosi con eleganza Il suo profumo delicato aveva pervaso la stanza.
Lo sguardo verde, graffiante, la mostrava già pronta alla lotta. Capelli raccolti, unghie laccate e mente brillante.
- Dunque, lei è quello nuovo – lo sfidò, per togliergli autorità, riservandogli un’aria di sufficienza.
- Dr.Marco Gheri – si presentò lui porgendole la mano. Lei la strinse con forza, lo sguardo fermo conficcato nei suoi occhi.
- Architetto Lavinia Kart – usò il titolo accademico per creare ulteriore distanza.
Un lampo negli occhi di lui
“ Maledizione! “ pensò “non ho letto la sua cartella! E’ stata inserita in sostituzione di un appuntamento saltato…” e intanto, velocemente, richiamava i dati clinici di lei dal pc per stabilire l’approccio migliore.
Detestava agire all’ultimo minuto. Finalmente lesse: “Disturbo da stress post traumatico”. Quante sedute aveva fatto? Ma, soprattutto, qual’era stato l’evento che aveva causato il trauma?
- Mi dica, architetto, come sta? – la guardò con attenzione, come aveva fatto lei.
- Ancora non lo so: non sono riuscita a raccontare molto nelle due volte che ho visto il suo collega – rise amaramente- Non dormo molto, ho paura degli incubi. So che mi suggerirà di prendere qualcosa per riposare, ma non voglio introdurre nulla nel mio corpo. E non mi piace che si insista nel consigliare farmaci.
Di nuovo lo sfidava, non si fidava, chiedeva aiuto, ma alle sue condizioni. Lui non raccolse il cambio di fronte:
- Cosa sogna?
- Non ho pace: irraggiungibile…come la serenità…- Abbassò gli occhi concentrandosi su se stessa e riprese: - Sa come si vive da gemelle? No, credo di no, lo si sente quando ci si trova difronte ad un gemello…
Non gli dava il tempo di indagare, si salvava raccogliendo parole che schiacciassero il dolore, poi gliele lanciava, come fiori confusi, perché fosse lui a capire, senza che lei si squarciasse il cuore con il passato che feriva, dilaniava, mordeva…
Marco l’ascoltava. La mente acuta di lei gli scavava dentro abissi inaspettati. Cosa voleva saperne di lui? Certe voragini le conosceva bene…Richiamò alla mente la melodia dell’ “Aria sulla IV corda” di Bach per continuare con il giusto distacco. Controllò silenziosamente il respiro adeguandolo al ritmo della musica e sentì calare su di sè la consueta tranquillità.
- Questo momento è solo suo. Se vuole, lo può condividere con me.
- Ma io non voglio! Cioè non posso!- Si alzò di scatto dal divano misurando la stanza con passi nervosi. Una sola lacrima, lenta, cominciò il suo cammino liquido dagli occhi chiusi alle labbra strette, senza suono…
Lui si sentì su una lastra di ghiaccio. Un passo falso l’avrebbe allontanata e chiusa forse per sempre. L’empatia lo guidò a coprirle con delicatezza la mano poggiata sulla spalliera del divano con la propria. Il corpo distante, solo la mano, quella che si porge ad un compagno sofferente per liberarlo dalla solitudine.
Era un gesto umano. Avrebbe capito? Era troppo? Non la tolse. Aspettava una reazione.
Lavinia, con gli occhi annebbiati, ricostruiva i suoi demoni.
Guardò la mano amica quasi senza vederla. Poi avvertì il calore che trapassava la pelle per togliere ghiaccio alle vene. Poteva salvarsi, forse.. Si aggrappò anche con l’altra mano, risalendo il braccio. Lui non si ritrasse, in attesa. Il cuore aperto alla comprensione della solitudine, ad allontanare vortici di vuoto. Lei si immerse nella sua onda di conforto abbracciandolo, l’anima nuda …E pianse, come non aveva fatto neanche allora, singhiozzi muti, tanto intensi da rimanere a lungo senza respiro, squassata, senza più cielo né terra…
Lui si lasciò investire …Lei tremava, e lui la tenne tra le braccia, come una farfalla ferita.
Pensava che l’anima, l’espressione della mente, avesse legami interni così aggrovigliati, che le ferite, le esperienze sconvolgenti, raggiungessero una infinità di punti, collegati tra loro in maniera tale che il dolore avesse possibilità di rimanervi imbrigliato e potesse essere richiamato a galla anche da stimoli apparentemente lontani dal fulcro.
Ciò lo spingeva ad una instancabile ricerca di una chiave di lettura che fosse adatta a sedare personalissime angosce, chiuse ognuna nella sua individualità.
- Potrei darle del tu, dottore? - lo disse con voce fragile, temendo un rifiuto – Mi sentirei più a mio agio .
- Certo, Lavinia – con un breve sorriso e un sospiro interiore meditò che quella poteva essere la via per il suo interno di echi sconvolti.
- Non riesco più a lavorare, non mi concentro. Questo mi angoscia. Mi vedo mentre mi frammento in minutissime schegge che non riesco a ricomporre e a ricondurre a me. Penso che i colleghi mi vedano inadeguata. Per fortuna ho Carla, che è un’amica, oltre che una collega: lei mi fa scudo e mi impedisce di affogare. Confesso che, a volte, finito il suo lavoro, passa ad aiutarmi a completare il mio. Mi sento finita. Ed ero il carro trainante, quella con le idee innovative. Ora tremo, piango, mi odio!
- E’ una stanchezza profonda, che non hai voluto ammettere nemmeno a te stessa e che ti sta stroncando. La mente si ribella e te lo mostra così. Datti un po’ di riposo. Ti do il compito di pensare a te stessa.
- Non ho più nulla di mio, nulla che non mi riporti a mia sorella. E’ un inferno!
- L’inferno è quello di non sapersi più riconoscere, di non dare valore alla propria individualità – lo disse con foga, trasmettendole l’intensità del suo pensiero.
Si sciolse delicatamente dall’abbraccio e, d’impulso:
- Domani mattina vado a guardare l’alba lungo il fiume. Mi carica di vita. Sarai la benvenuta, nel caso decidessi di venire. Se pensi invece di no, andrà bene lo stesso.
La vide sbarrare gli occhi per l’orrore e pensò che fosse stato il suo invito a sconvolgerla. Si rimproverò.
Lavinia si stringeva le braccia intorno al corpo e tremava, lo sguardo vuoto, le labbra che mormoravano così piano, che dovette riaccostarsi per udirla:
- L’acqua! No! Viviana è morta così! Odio la Thailandia, le vacanze, le spiagge, il mare, i fiumi! Era il regalo che ci eravamo fatte per la laurea.
Scivolò a terra lungo il muro, non si reggeva, la testa che reclinava sulle ginocchia, il respiro risucchiato dentro.
Marco l’affiancò, spalle contro il muro, senza toccarla, pronto all’ascolto, non insisteva.
- Sono qui. Per te – le disse, quasi sui capelli, la crocchia che si disfaceva ricoprendo la donna come un fragile velo scuro.
- Viviana amava il mare. Si era laureata in Biologia Marina. Si immergeva nella vita cercando altra vita. Si muoveva in spazi azzurri di sole e di acqua, mentre io, invece, disegnavo, chiusa sempre in qualche stanza. La chiamavo Gambero, perché si arrossava al sole molto più di me. Era bionda. Non eravamo identiche. Lei mi chiamava Grigia, per il colore che avevo dopo le tante ore passate a lavorare al chiuso –
Lavinia sorrise leggermente a quei ricordi, la voce di Viviana ancora dentro la testa, la smorfia sbarazzina sul volto della sorella che la faceva sentire, ancora, una che si perdeva il meglio della vita.
- Ci eravamo laureate quasi contemporaneamente. Era stata una sfida tra noi, come sempre. Uscivamo insieme, avevamo spinto a mescolarsi studenti di architettura e di biologia marina, che sembrava non avessero nulla in comune tranne una irresistibile voglia di spensieratezza.
- Viviana trascinava tutti in cose folli, tipo le notti sulla spiaggia poco prima di un grosso esame, per “scaricarsi un po’ ”. Chiedeva a Vincent, un amico, di suonare la chitarra mentre noi cantavamo tutti insieme, accanto al fuoco preparato dai ragazzi. Poi, quando tutti ci sentivamo uniti, iniziava con domande sul futuro, sull’amore, sull’amicizia, su quello in cui credevamo, o ciò che poteva rendere gli uomini immortali, un pensiero in grado di attraversare il tempo.
Tacque, gli occhi che ancora rincorrevano quei momenti, la leggerezza del ricordo che, per un attimo, la sollevava dall’angoscia.
Marco costruiva l’immagine di Viviana, disegnata dalle parole di Lavinia e riconosceva l’intensità di un legame che, tuttora, ancorava le sorelle. Guardò la donna stremata al suo fianco:
- Porta con te questo ricordo, tocca di nuovo quella bellezza. Avete vissuto insieme esperienze rare.. La prossima volta possiamo continuare da qui, o da dove vuoi tu.
Le sorrise dolcemente, aiutandola ad alzarsi. La confortò:
- Ti aiuterò a ritrovarti – Le strinse un braccio per salutarla, più confidenziale di una stretta di mano e meno impersonale di un “arrivederci” .
Viviana lo guardò negli occhi trovando la stessa la sincerità che aveva sentito nella voce. La sommerse l’empatia che emanava da lui. Si sentì compresa Chinò appena la testa per ringraziarlo e salutarlo e, come quando era arrivata, scivolò silenziosa attraverso la porta.
Marco si sentiva prosciugato dalla giornata, soprattutto dalla seduta con Lavinia.
Prima di chiudere, però , decise di approfondire la scheda della donna come non aveva potuto fare in sua presenza.
Genitori in vita: padre, Leonard, di origini tedesche, architetto, madre Giada Teslo, italiana, avvocato. Motivo del trauma: perdita della sorella in seguito allo Tsunami del 26 dicembre 2004 che aveva colpito le regioni costiere dell’Oceano Indiano tra cui la Thailandia,
Negli appunti del collega, salvati nella cartella di Lavinia, si riportava la raccomandazione della paziente di tenere le notizie della cura riservate, da non svelare neanche ai genitori. In fondo alla scheda, il numero di cellulare di Lavinia. Lo trascrisse sul suo smartphone.
Stava ancora riflettendo quando sentì bussare alla porta dello studio con insistenza.
- Dottore! E’ancora lì? – la voce chioccia di Teresa, la segretaria del collega che, chissà per quale motivo, non lo sopportava. Depositaria di segreti e amante del gossip, gli era sembrata, da subito, una persona dalla quale guardarsi.
- Sto chiudendo, signora Solaris – guardò la porta che si apriva al passo pesante di lei che, con gli occhi fiammeggianti, gli si dirigeva contro, esclamando:
- Lo sa cosa mi ha chiesto la signorina Kart? Il suo numero di cellulare! Inaudito! – alzò il dito accusatorio – Lei, dovrebbe saperlo che i contatti personali in corso di terapia sono vietati dall’etica professionale! Ogni comunicazione deve passare attraverso la segreteria! L’ho spiegato con molta chiarezza alla signorina e le ho negato il suo numero, ovviamente! Il suo collega, il dottor Giraldi, non ha mai permesso simili infrazioni dell’etica! Ah..le sue idee innovative, dottore! - lo guardò con sufficienza, poi, socchiudendo i piccoli occhi nocciola – Le ricordo che la madre della signorina Kart è un avvocato, quindi valuti bene i passi che fa! – un sorrisetto di maligna soddisfazione le stirò le labbra.
Vista la mole, la segretaria compì un’aggraziata giravolta per tornare sui suoi passi.
- Signora Solaris – la fermò, gelido– Non mi sembra proprio il caso di irrompere così in ambulatorio. – non raccolse la provocazione che lo avrebbe spinto all’autodifesa. Proseguì l’attacco, ridimensionò i ruoli – Ricordi che sono io il responsabile della cura. Non dimentichi il segreto professionale cui è legata, oltre all’esplicita richiesta del silenzio sulle cure espresso dalla paziente.
Gli occhi duri di Marco la fecero impallidire per un attimo, la rabbia espressa nella rigidità della postura.
- Come vuole, dottore,- si arrese lei, riprendendo il cammino interrotto verso l’uscita, il passo privo della baldanza di poco prima.
- Allora buonasera.
- Buonasera, signora Solaris – le rispose il medico, glaciale - Mi mandi il file con l’elenco delle persone prenotate per domani, grazie.
- Certamente .
Lo psicanalista sincronizzò il pc con il proprio tablet per approfondire le storie cliniche dei pazienti da casa. Se ne andò.
Lo smartphone vibrò nella tasca illuminando lievemente la stoffa dei suoi pantaloni. Lo estrasse con un gesto d’impazienza che divenne un sorriso quando vide sul display il viso di suo figlio Elio.
- Ciao, ragazzo! Come va?
- Papà! Ti ho chiamato perché ti ho preparato una sorpresa per cena con zio Lucas e per chiederti se possiamo invitare anche zia Bea.
- Si, certamente.
Marco ringraziò mentalmente Lucas, il fratello di sua moglie, per l’affetto e la presenza costante.
Poi pensò a Bea, l’unica presenza femminile nel loro mondo di uomini ormai privo di Letizia, sua moglie.
Letizia… gli aveva riempito il mondo di luce, gli aveva fatto respirare la spensieratezza, gli aveva insegnato a cercare il bello nel nucleo delle cose come un gioiello nascosto, che solo occhi liberi dalle ragnatele del quotidiano potevano cogliere. Sosteneva che gli unici colori della vita erano quelli che si esploravano con l’anima.
Per lei non esisteva nulla di irraggiungibile.
Si erano incontrati ad un concerto: “Il flauto magico” di Mozart. Lei, soprano, interpretava la Regina della Notte e lo aveva abbagliato con la sua voce intensa e lui non aveva potuto fare a meno di cercare di vederla in camerino.
Non aveva neanche una rosa, le aveva offerto i suoi occhi affascinati per ringraziarla. Le aveva tenuto le mani, presentandosi quasi a fatica, mormorandole la sua gioia, quella che lei gli aveva trasmesso.
Lei aveva accolto il dono e, nello stesso istante, erano sprofondati l’uno nell’altra, in modo totalizzante, esclusivo, geloso.
Erano affamati di attimi da condividere, a tratti in maniera convulsa, senza bastarsi mai.
I giorni da amanti erano iniziati a Parigi. Si erano inseguiti fin dentro l’anima, avevano vissuto l’uno nella pelle dell’altro, senza confini.
Da lontano, attraverso Skype, si vedevano, la vicinanza che diventava una necessità per non sentirsi morire.
Quando s’incontravano, inventavano mille modi per rimanere ancorati, chiusi in un unico corpo. Poco prima di immergersi nell’amore, Letizia che gli mormorava:
- Voglio sentirti… con la musica che mi scioglie la pelle come un fluido del quale, all’improvviso, fai parte… quasi senza esistere… eppure esistendo pienamente…come se fossi fatto per quei momenti e solo così potessi goderli al massimo.. Perdersi… abbandonarsi…
E lui impazziva così, prima ancora di toccarla, il cuore morso dalle ore vuote di lei che lo rendeva famelico di tutto, il desiderio infinito di prenderle l’anima, di sentirsi catturato, prigioniero, di condividere con lei ogni respiro, ogni pensiero…
- Dentro non ho più luoghi dove tu non ci sia…Mi dissolvi e mi mescoli a te..
E i morsi diventavano baci, le parole non rendevano la luce abbagliante di ciò che provava, e allora taceva, conducendola nella sua tempesta, un’onda dopo l’altra, fino al ritrarsi della marea...
Era impossibile una vita senza di lei. Perciò Marco decise di lasciare il suo studio, avviato, per seguirla nelle tournèe. Lavorava in privato per i musicisti e le loro famiglie e nei luoghi dove si esibivano. La vita girovaga gli diede l’opportunità di confrontarsi con colleghi di altri paesi e ciò lo arricchì.
Si sposarono in Germania, nella Cattedrale di Colonia, accompagnati dal fasto gioioso del coro degli artisti. La nascita di Elio completò la famiglia.
Poi Letizia era morta. All’improvviso. Sul palco. Durante il gorgheggio dell’acuto della Regina della Notte.
L’autopsia aveva accertato la causa: rottura di aneurisma cerebrale. Una malformazione dei vasi cerebrali che lei non sapeva di avere.
Il mondo di Marco e di Elio, senza preavviso, senza speranza, si era sgretolato tra le loro mani ed erano naufragati in un mare maligno e sconosciuto.
Erano riemersi, lentamente, grazie a Lucas e ai genitori della moglie.
Marco era figlio unico. Aveva perso anche i genitori. La famiglia di Letizia era ormai la sua. Lucas, era un informatico, uomo di grande sensibilità, che riusciva ad avvicinarsi al nipote adolescente condividendone gli interessi e le confidenze. Apprezzava il lavoro di Marco con il figlio, i suoi tentativi di rimanere una figura salda che trasmettesse serenità.
Bea, addetta al marketing nella stessa azienda di Lucas, era entrata nella vita del cognato dispensando amore con delicatezza. Elio l’adorava.
Marco non si legava. Preferiva essere sommerso dal lavoro e da Elio. Gli riservava spazi quando rientrava da scuola, per ascoltarlo. Il figlio lo sentiva, evitava gli scontri di carattere ricordando che la madre diceva che non tutte le battaglie sono da combattere. Solo quelle che vale la pena vincere.
Il medico, rientrando quella sera, meditava sulle parole malevoli della signora Solaris. L’ammonimento di evitare coinvolgimenti emotivi con i pazienti era eticamente giusto, ma lui era infuriato per la sua ingerenza.
Si fermò un po’ prima di arrivare, ancora carico della canzone di Vasco Rossi “Un senso” che si era sparato nelle vene durante la corsa e, preso lo smarthone, richiamò il numero di Lavinia salvato in rubrica. Prima di ripensarci le inviò un messaggio: “Sono Marco. Ti chiedo scusa per la freddezza della segretaria. Con il mio numero, ti invio la canzone di Vasco Rossi che mi ha accompagnato stasera sulla strada di casa. Non conosco i tuoi gusti musicali e non so se ti piace, ma per me ha un valore, un “Senso” – chiuse con una emoticon sorridente.
Poco dopo entrò in casa e si lasciò riscaldare dall’abbraccio del figlio che gli porgeva la sua sorpresa: un aperitivo ai frutti rossi e crostini con affettati.
Bea e Lucas avevano preparato la cena . Finalmente, si rilassò, scrostandosi gli eventi stancanti dalla mente. Con un sorriso, si riprese la pace.
Aveva ragione Letizia: nulla esisteva d’irraggiungibile.
M

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